mercoledì 1 aprile 2009















Richard Avedon
: « Il punto é che non puoi raggiungere la cosa stessa, la vera natura del soggetto strappandolo dalla superficie. La superficie è tutto quello che hai. Puoi solo andare oltre la superficie lavorando sulla superficie, con la superficie. Tutto quello che puoi fare è maneggiare ( attraverso il gesto, il linguaggio, l’espressione)in maniera radicale ma corretta”.


Instabile, intensa, allucinatoria, l’esperienza della fotografia in questo va e vieni tra realtà e finzione; insieme io e la macchina, nel nostro potere di fare e distruggere. Le foto, infine, assumono una presenza terrificante e meravigliosa oltre il mio volere”.


La macchina fotografica diventa testimone silenzioso dell’intenso faccia a faccia che passa tra il fotografo e il soggetto. Affacciarsi all’obbiettivo per guardare quello che non si é mai visto: non la mia proiezione sull’altro ne la persona che è là nell’atto di guardarmi ma il momento della nostra duplice, autentica connessione”.

Riduzione, stilizzazione: “ho lavorato su una serie di no: no alla luce perfetta, no alla composizione apparente, no alla seduzione delle pose o della narrativa. E tutti questi no mi hanno portato a un si: uno sfondo bianco, la persona che mi sta di fronte e la cosa che possa tra lui e me”.

L’istante che la foto è presa muore”. Una piccola morte dell'immagine, l’erotismo insito nell’atto del guardare, nel farsi strada dello sguardo alla visione.


Essere umani significa essere densi, mutevoli, contradditori, intensi”[1], presenti in questa complessità, in questa duplicità tra l’alto e il basso, l’animalità che ci salva e quella che ci distrugge. Vivere insieme con la luce e l’ombra, essere insieme socievoli, sociali, avidi di vita,
del mondo e allo stesso tempo soli, tragicamente lasciati a sé stessi a seguire la propria voce interiore, tirannica, distruttiva, senza difese per non esserne sopraffatti.
Essere energia, spinta verso l’avanti, gettati fuori in un futuro aperto e sconosciuto e, insieme, piegati su se stessi, incapaci di reagire, schiavi dei propri circoli interni di senso.
Connessi alle forze animate dell’universo come da un’energia che circola tra gli esseri e le cose: un’esperienza emozionale che va a toccare qualcosa di primordiale, molto antico. “Trattando con la luce una vita intera come non avere la percezione di questo mistero”[2].
Perché l’immagine non deve chiudere ma lasciare aperto il soggetto, come qualcosa che supera il carattere individuale, prettamente personale del momento che l’ha generata. Un insieme di tratti accidentali e assoluti; una superficie incisa di luce.

In uno spazio e un tempo dato siamo insieme un questa connessione totale con il grande respiro: “un’arma tra le nostre mani”.

[1] Estratti di un’intervista realizzata dal fotografo americano Richard Avedon pubblicati sul catalogo Richard Avedon, Portraits, New York, 2002.
[2] Ibid.

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