domenica 25 dicembre 2011

A proposito di Gutai, performance e arte corporea



“Se dobbiamo lasciare accadere qualcosa, che é la base a partire dalla quale gli happening sono stati creati- vale a dire in un happening tutto puo’ accadere - questo deve essere perché non abbiamo nè idea nè sentimento a esprimere ma siamo disposti a rinunciare a tutto questo e a passare a una situazione nella quale non si cerca di esprimere qualcosa ad ogni costo ma di aprire la propria coscienza e curiosità. Se si é dunque animati da una coscienza espansa e da una curiosità totale allora si creeranno le condizioni complesse nelle quali qualcosa puo’ avere luogo_non la cosa alla quale si pensava ma precisamente quella alla quale non si era ancora pensato.” 


 “Amo che l’arte rimanga misteriosa. Fino a quando non comprendo fino in fondo un libro, un quadro o un brano di musica posso applicarmi per espandervi le mie facoltà. Se capisco una cosa la ordino in uno scaffale e li’ la lascio. La mia idea é che la vita al quotidiano é più interessante di ogni forma di celebrazione quando ne prendiamo coscienza. Questo ‘quando’ é il momento in cui le nostre intenzioni sono ricondotte a zero. E’ la che ci si rende conto d’un tratto della magia del mondo”. John Cage





Su un immenso foglio di carta Kazuo Shiraga depone un ammasso di pittura e la distende violentemente con i piedi.    Non  é la manipolazione della materia nell’ottica di un’ intenzionalità concettuale predefinita ma  ritrovare, in condizioni spontanee, la sintesi organica che si instaura tra il supporto materico, l’azione e lo stato psichico dell’artista.
“ In che modo il mio atto che é corpo vivente puo’ resistere alla materia inerte? Prendere supporti totalmente opposti alla vita perché sussista su essi,  primariamente, la traccia delle mie azioni”. Negli anni cinquanta in Giappone, uno degli esponenti principali del movimento Gutai, sviluppa una pratica pittorica che si ricongiunge all’azione corporea come sintesi tra il materiale pitturale e l’automatismo psichico dell’azione, nell’aleatorio lasciato al processo di composizione, nella ricerca, infine, d’una astrazione direttamente generata dalla materia.

Sospeso a una corda, i piedi lanciati su una superficie bianca, neutralmente data,  Shiraga lascia affiorare una serie di tracce,  strana coreografia di segni apparentemente insensati, tanto casualmente apparsi  quanto rapidamente scomparsi, ricoperti, in parte cancellati  da altri venendosi a sovrapporre, ad aggiungere ad essi:  impronte, pigmenti, zone di densità colorata, colature intenzionali di vernice, grumi o amalgame e la loro altrettanto rapida involuzione, disfacimento o metamorfosi. La tela diviene campo d’azione, d’emanazione, di battaglia, campo aperto, minato, dilazionato,  dilazione d’azioni vaganti pronte a esplodere da un momento all’altro, zona ad alta tensione di  attraversamento reale o metaforico del corpo ma, anche, confronto con l’assoluto che ne trapela, malgrado e nella non-volontà individuale, di fronte agli occhi increduli dell’artista.

Su una materia oleosa dentro la pasta distesa a strati del colore ad olio, le piante dei piedi affondano come spatole o pennelli nella continuità intermittente e prolungata dei tratti.
Pittura a macchia fatta di scivolate, cadute, passaggi gravitari del corpo al suolo, spinte, affondi e riprese , passi in avanti e all’indietro. Una danza dai movimenti rapidi, ritmati, precisi, ritmici piuttosto che melodici, in continuità interrotta, discreta, discontinua.
Dipingere con i piedi, nell'imperfezione che tale atto implica, nell'insorgenza d' un io  rivoltato dalla sua posizione logocentrica essenziale é, in qualche modo, la danza d'un corpo alla rovescia materializzato dalla pittura, un corpo fatto di flussi, correnti, deflussi, deformazioni plastiche rovesciandosi in formazioni/deformazioni di pigmenti colorati, in nodi, grumi o strati di pasta malleabile. La pittura é, infine, lascito residuale del corpo, bruciante come sigillo impresso di cera al suolo. L'aspetto oleoso, denso, palpabile ad occhio nudo del rosso impronta-colore, materializza l’identità svaporata dell’io, dilazionata nel lascito impersonale delle sue estremità corporee.










Negli anni cinquanta, sono le simulazioni di lotta nel fango un’altra celebre azione performativa di Shiraga.

“Lottare nel fango”: la lotta contro la vischiosità dell’argilla liquida,

la superficie intesa ancora come limite, quadro o cornice iscrivente lo spazio in una gabbia prospettica lotta contro l’istante effimero, fugace e irripetibile dell’azione pronta a lacerarla, distruggerla, farla a pezzi lasciando tracce del processo nel passaggio. “Dipingere come si corresse in tutti i sensi in un campo di battaglia, spingendosi fino alla fine, fino allo sfinimento. ”
L’immersione, l’affondamento e la risalita nella materia bruta della terra liquida impastata all’acqua riporta allo stadio d’una amalgama viscerale, mota, fanghiglia o limo disciolto dove il corpo é riassorbito, affondato per reimprimersi in tracce laviche,  labili quanto l’apparenza mobile dell’argilla  che lo ricopre e lo avvolge.
E’ anche la memoria dei corpi larvali, contratti o convulsi, affondati al suolo o immobilizzati dallo strato di colore bianco di cui il butoh si serve per compiere lo stesso moto a ritroso,  o ancora, l’aleggiare di ombre dei corpi inceneriti, carbonizzati, ricoperti delle polveri spente di Nagashi e Hiroshima.


 





 Partendo dal Manifesto dell’ arte Gutai

“La magia dei materiali: pigmenti, tela, metalli, terra o marmo”;
“La riconciliazione dello spirito umano e della materia che rivelata si metterà a parlare e perfino a gridare.”
La bellezza che percepiamo, anche nelle alterazioni causate da disastri e oltraggi del tempo, o da fattori esterni agenti sulle cose, corrosivi o corrompenti. 
Le fessure, le crepe come  processo di ritorno a uno stadio precedente dell'oggetto, come lotta per ritrovare la trasparenza delle cose nel loro stadio originario e non separato.



Pollock, Mathieu : “Provocare il  grido dalla materia, dai pigmenti, dalle vernici in una straordinaria simbiosi con la loro interna struttura ”.

Astrazione “concreta”:  spazio autonomo di creazione, astratto poiché non limitato dalla rappresentazione, ma ugualmente lasciato all’automatismo di un processo psichico che trascende la soggettività dell’artista in una messa in spazio inconsapevole tra la materia e il processo di sintesi creativa.

Deporre sostanze chimiche su una carta-filtro e attendere il risultato della reazione  per dilazione, 
per accadimento rinviato, costantemente riportato a un momento successivo nel tempo o al suo mancato avverarsi.
Rompere un flacone di vetro contenente smalto su un supporto-superficie e ottenere cosi' una pittura risultante da schegge in vetro e schizzi di  vernice partiti in tutte le direzioni.
Provocare per mezzo di gas acetilene l’esplosione d’una piccola macchina bellica riempita di pigmenti colorati che si diffonderanno, il tempo d’un istante, in un’esplosione colorata.
Camminare su un ponte affondato, farne un campo lungo con vista sull’orizzonte;
l’elasticità tessile di vecchi sacchi di corda o tela iuta,       un costume fatto di lampadine intermittenti , calligrafie lievi d’acqua o di fumo ricondotte a un singolo tratto.

La traccia d'un avvenimento, l'artista di fronte a una materia duttile, malleabile o bruta difficile da considerare come opera finita: impronte di fuoco su tela, colate di plastica fusa,  strati di cemento su fogli di metallo, buchi al suolo, tagli di superfici, vibrazioni di lampadine elettriche.  
Colori primari, terre, polveri o lave scintillanti lasciate colare al suolo liberamente saturano gli spazi.
Tracce d'azioni: tagli violenti d’ascia su supporti di legno,  una tela perforata riempita di tanti piccoli buchi apre o lo spazio a una terza dimensione; pezzi di fogli d'asfalto sono distesi e strappati.
Sacchetti pieni d’acqua colorata sono appesi a rami di pino,
piccole lanterne in carta di bambù disegnano affascinanti  geometrie di forme nell'oscurità.
   
Intagliare, lacerare, fare a pezzi, carta, fogli, tessuti o quadri;
lottare nel fango, dipingere con i piedi,   immenso tessuto rosso,  dispiegato, infuocato, sospeso dal suolo. Filamenti metallici ricoperti di cemento, quadri incrostati di frammenti di vetro e metallo,  rilucenti nel fango.
Nel fango sprofondare, nel fango riemergere,   pietre raccolte sulle rive o i fondali dei fiumi, aspergere o tingere, macchiare o versare inchiostro su tele, su tessuti bucati. Carboncino incandescente contro olii o vernici.
Un raggio luminoso bluastro riflesso da una lastra metallica attraversa brutalmente le tenebre, rischiara lo sfondo d’un tratto, immagine astratta, nulla vedere, sulla vacuità si chiude la scena.














Immagini dal gruppo Gutai

1-     Kazuo Khiraga
2-     Kazuo Khiraga
3-     Performance Gutai, (foto), Ohara Kaikan
4-     Kazuo Shiraga
5-     Jirô Joshihara
6-     Toshio Yoshida
7-      Jirô Joshihara
8-     Murakami Saburô
9-     Shimamoro Shôzô
10- Kazuo Shiraga
11- Tsuruko Yamazaki
12- Tsuruko Yamazaki





sabato 17 dicembre 2011

OPERE VISIVE E COREOGRAFICHE A CONFRONTO da “Danser sa vie” Paris Centro Pompidou ( Parte I, danza moderna)









Matisse, « La danse », 1932

Una superficie snodandosi in estensione orizzontale da una parete all’altra in sequenza ritmica continua; composizione libera di concrezioni plastiche e musicali nello spazio.
I corpi-silhouttes si snodano, si divincolano, si liberano espandendosi lungo tutto il piano orizzontale, quasi uscendo dai limiti ristretti, condizionanti della tela,

trompe-l’oeil ingannando la bidimensionalità esigua della superficie per divenire tridimensionali, plastici, smisurati e espansivi, elevati all’ennesima potenza in parti disuguali, prese separatamente, dinoccolate, divincolandosi a tratti, a frammenti, per parti di braccia, di gambe o di seni, in scorci di anche e bacino morbidi  nella continuità ritmica del movimento. Sfondo ritmato, ritagliato direttamente dentro l'  à plat musicale del colore  in estensione orizzontale nell’alternanza delle tre tonalità, rosa, blu  o nero contro i contorni iconici, grigi, delineati delle figure sottilmente disegnate.

Isadora Duncan

« I movimenti delle onde, dei venti delle maree, le armonie della terra, i flussi e riflussi degli oceani, le movenze sensuali o selvagge, impercettibili o oceaniche, tenui, tenere o feroci degli animali liberi. Il movimento dell'universo condensato in un singolo individuo,
 la concentrazione di forze vitali che irradiano da un centro invisibile, la propensione all'azione, l'immobilità come parte del movimento, apparente, simulata o transitoria mentre tutto continua a muoversi, muovere, essere mosso. La forza gravitaria universale, la lotta contro la legge della massa al suolo oppure il lasciarsi affondare, l'andare a fondo sotto il suo peso, il peso della gravità. Accoglierla, assumerla su sé come movimento concentrico, nucleare ritornante verso la matrice,  oppure resistervi, farle opposizione, rigettarla, combatterla in una lotta feroce e fiaccante per ricerverne la portata violenta del contraccolpo  nella caduta, nell’affondamento al suolo, nella contorsione del corpo rivoltato,
su sé stesso ravvolto, accasciato in piccola nucleo, su terra come animale ferito.

“Luce cade sui fiori bianchi. La danza  sarebbe la traduzione di questa luce dalla bianchezza irradiante. Talmente pura e forte, trasmessa dai movimenti della natura che  ugualmente ci percorrono."
Movimenti di luce rischiarati dal pensiero del bianco.
Questa danza sarebbe una preghiera: ogni movimento si dispiegherebbe in lunghe ondulazioni verso il cielo fino a divenire  parte del ritmo circolare e eterno dell'universo. 
Non vi sarebbe movimento che non ne presupponga altro, al cuore della natura l'eterno divenire del vivente in moto immanante e proprio,  ogni cosa ritornante, volgente su sé stessa, indotta in ciclica evoluzione, rivoluzione o involuzione. Movimenti spontanei, innati , continuità di forze naturali dentro il fare dell'umano rispetto a cui le divinità non sarebbero altro che personificazioni esemplari, proiezioni esterne della loro intrinseca natura.

André Derain,  “Danza” 1905 (disegni)

 Tratti appena accennati, schizzi di danza rinviano a questa visione d'un corpo preso nel flusso d’ un movimento naturale, estatico, armonioso, ricongiungendosi alle forze primarie dell'individuo illuminate qui d'una luce bianca, della leggerezza dello slancio,  del sollevamento della propria massa gravitazionale nella sospensione aerea e gioiosa della danza.

Forme libere nella continuità dello spazio simili a onde, maree, fluttuazioni d’oceani, liquidi che scorrono nei visceri, si espandono o diluiscono in altre forme,
movimenti sismici appena accennati, scosse vibratorie impercettibili dalla terra che riecheggiano nelle vibrazioni sottili dei corpi,  nella continuità dei ritmi naturali. 
 Corpi nudi, denudati, liberati nell’utopia gioiosa dell’inizio della modernità. 
Figure femminili dal contorno accennato a tratti o solo a metà disegnato, a metà riportato al rosato d'una loro reale incarnazione, nella singolarità vivente dell'individualità femminile, nell’unisono d'un battito fisico e emotivo.













 Mary Wigman “Hexentanz ” (danza della strega), 1914

“Lo splendido tessuto dispiegato di fronte agli occhi: disegni audaci in fili metallici, un fondo ramato attraversato da riflessi d’oro e d’argento su un tracciato nero. Scivolare nello studio di notte e cercare di provocare uno stato di intossicazione ritmica che avrebbe portato a trovare questo personaggio risvegliatosi lentamente in me. La ricchezza delle idee ritmiche sommergeva ma qualcosa si opponeva perché esse divenissero chiare e organizzate, qualcosa che costringeva il corpo in una posizione seduta o accovacciata nella quale mani avide potevano ancora possedere il suolo.”
« L’immagine d’una posseduta, scapigliata, con gli occhi affondati nelle orbite, la tunica da notte aperta, il corpo in un senza-forma. Creatura della terra dagli istinti denudati, lasciati emergere in un insaziabile appetito di vita, donna e animale insieme.”
 “Rabbrividivo di fronte alla mia immagine, di fronte a questo lato di me stessa svelato che non avevo mai lasciato trasparire prima in maniera cosi’  netta, audacemente visiva.” 

Dare forma a questa creatura elementare, dargli forma dandole un contorno o la sua ombra, plasmandone la materia come  si plasmerebbe la creta  d’una statua, come la si raffinerebbe avendone presente un’immagine precisa dettaglio dopo dettaglio, come  la si farebbe fondere e poi risolidificare infinite volte, in infinite, nuove apparizioni.  
Saper costringere il caos della sue possibilità ritmiche dentro un ordine, figurazione esterna e plastica di potenze che osano appena manifestarsi sulla nostra facciata civilizzata. 
“ Quel pezzo di tessuto in lamé aveva nella sua bellezza barbarica, nella sua rigidità sontuosa qualcosa che corrispondeva al carattere spaventoso della mia danza. Seppi d’un tratto che il tessuto e la maschera andavano insieme, che avevano dovuto attendere il ritorno dall’esilio per dare alla “danza della strega” il suo volto autentico, la sua immagine teatrale propria.
Cercavo intensamente ad ogni rappresentazione di riaffondare allo stadio originario,di  ridare vita alla forma vibrante della sua creazione, ritornando al punto dove tutto aveva cominciato”.

Momento di attraversamento estatico, il cerchio si chiude ricongiungendosi con le divinità in senso dionisiaco attraverso il movimento  danzato. Le forze telluriche, matriarcali ugualmente riecheggiano dal moto circolare della terra a quello organico, reinventato dalla sfera cinestetica dell’umano.  Tra estasi e sofferenza l’uscita da sé é il ritorno a una corporeità altra, antica che la danza wigmaniana convoca, mette a nudo, risveglia passando attraverso il respiro, l’impulsione ritmica prima del corpo. Il soffio primordiale, respiro della terra “ grande maestro misterioso”, regna secondo Wigman, “sconosciuto e innominato al di sopra di tutte le cose e modula l’espressione in relazione al colore ritmico e melodico della danza”.

Corpo accovacciato a terra, contratto, ripiegato verso il centro, l’insondabile volto-maschera, il tessuto e la maschera in quanto elementi fondanti della composizione. 
Movimenti rotatori, circolari, incentrati sul bacino si alternano ad arresti improvvisi dei medesimi. Il fondo ritmico percussivo, ascendente, portato all'ennesima potenza accompagna la tensione plastica fatta salire e arrestata in singoli gesti. Intensità tesa, spasmodica della figura, il volto interno a quello esterno fusi, fusionati insieme nel tutt’uno della maschera che parla, respira, traspira immobile intensità. Movimento per la maggior parte istintivo, irriflesso, inconscio proveniente dalla terra, dall’innato del corpo, nasce dal bacino, dal centro propulsivo del respiro  per passare in continuità nel torso, dal torace alle spalle e le braccia nell’intossicazione ritmica voluta, portata fuori, fatta esplodere violentemente prima d’arrestarsi in sospensione d’immobilità.    


  E. Nolde: "Kerzentanzerinnen", (Danzatrici con candele) , 1912

Colori vivi e saturi restituiscono  l'ebrezza, l'intensità estatica, la tensione del corpo wigmaniano sottilmente teso, sospeso sul filo che lega pulsioni opposte  di liquidazione, liquefazione, e insieme di fusione,  unione o riannodamento . 
Colori a plat riempiono fondo e figure in senso anti-naturalistico, espressionista: rosso, rosa, arancio giallo ocra-brillante Le figure sono portate, spinte al limite della loro  figuratività in un processo dove il fondo, l'intensità del movimento pulsionale, prende il sopravvento sulla forma e la fa andare a pezzi o meglio la diluisce, l’espande, la deforma ma sempre nell'ambito della rappresentazione, senza raggiungere un processo d'astrazione numenico. 
Fondo rosso antinaturalistico, rosa dei corpi in continuità tonale, difficilmente riconoscibili presi in una ivresse poetica, inarcano le schiene come corpi rapiti in movimenti frenetici,  giallo in colatura liquida, intenzionale di colore al suolo come cera di candele lentamente fatta fondere a macchia, frammiste al rosso saturo dello sfondo perdendosi in oleoso informe. 
Lo stesso impulso agisce dalla diluizione del colore alla motilità frenetica dei corpi posseduti, presi nel rapimento estatico della danza.

Nolde, in altre tele, vede le danzatrici come silhouettes di corpi finemente allungati, figure-traccia dalle tonalità rosso, verde o arancio, ora filtrate dal riflesso di un velo violaceo che ne avvolge il capo scendendo ai piedi o da quello luminoso, abbagliante d'uno schermo di luce che le investe in chiaro-scuro. Ancora, é un corpo stilizzato, dalla gestualità selvaggia, animale che chiaramente suggerisce le danze rituali “negre” delle culture prime. 

“La danza di morte” della Wigman ritorna nella pittura di Kirchner come una processione di figure-maschere dai volti allungati, irriconoscibili, ravvolti in veli e a metà cancellati come rigati da colatore intenzionali, atone di colore . L’estasi della danza confina qui  con la tragedia quando una figura singola esce dal gruppo per avanzare e danzare sola fino alla morte come la vittima prescelta, in un atto catartico e insieme sacrificale,  gli occhi chiusi, il volto rivolto verso l’alto in aspirazione  a una qualche salvezza, in uno stato violentemente agito di corpo, infine in questa apertura estrema verso l'assoluto che é  anche passaggio ultimo e rituale verso la morte. 
Immagine che non puo’ non evocare la “Sagra della primavera” coreografata dalla Bausch  molti anni più tardi.







 (Ernst Ludwig Kirchner, "Totentanz" (danza della morte), 1926-28
 ( Pina Bausch, La Sagra della primavera)

sabato 19 novembre 2011

Note su Diane Arbus, Retrospettiva, Jeu de Paume, Parigi







                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                            




Indossare sé stessi come si indossa una maschera, e dietro questa un’altra e un’altra ancora, tale é entrare nel circolo decentrato dei ritratti , nella serialità divergente dei volti  di Diane Arbus.
Il suo lavoro rinvia all'interrogazione costante, alla fessura aperta tra l'essere, il dovere o voler essere e l’apparire altro.
La costruzione del sé, del volto come  identità, si rovescia nel cedimento della medesima di fronte alla non-concidenza, all’inadeguamento tra forma e anima.
La costruzione fittizia d'un volto femminile, nascosto da una cortina nera e coperto da uno spesso strato di trucco, é colto giustamente in  questa impostazione o impostura di presenza.  Volto-maschera, simulazione, facciata, simulacro in variazione eccentrica di sé stesso nell’assenza di  un modello originario.

Giovane famiglia a Brooklyn": l’impalcatura dell'essere sociale, della figura in quanto costruzione rispondente alla norma della società americana é confrontata al punto della sua incrinatura o non-tenuta, tali le crepe che s'aprono, che si intravvedono sulla realtà costituita per il solo fatto d'essere  messe “in quadro”, portate in superficie dal processo fotografico.  Cosi’, la semplice smorfia di un bambinetto preso per mano dal padre va a infrangere il quadro glorioso, idealizzato  della visione famigliare in America.   

Fotografare il cedimento della figura in quanto realtà sociale apparente e costituita significa in Arbus fotografare la differenza compresa come ogni forma d' anomalia, d'anormalità, di marginalità, di follia, di deviazione o devianza rispetto al quadro del giudizio normativo , al modello identitario dominante. A un certo livello cio’ si traduce nella scelta di soggetti eccezionali, extra-ordinari dalla singolarità affascinante o mostruosa, il lungo corteo di personaggi “mostri”che popolano negli anni il suo universo fotografico; ma, a un altro livello, é la superficie più “normale” , più conforme della realtà quotidiana ad essere smascherata come impalcatura fittizia, tanto più costruita, abnorme, anormale che l'altra.

La demistificazione di realtà va di pari passo con la sua iconoclastia suggerita, non apertamente convocata, insinuata al limite della fessura, della crepa, nello spostamento sottile del binomio verità-realtà, al limite della sua piena credibilità o autenticità come tale, dunque nella destituzione della medesima da una posizione di sacralità. L'iconoclastia suggerita non é cancellazione o assenza d'immagine ma  immagine-ritratto che si mostra in questa rottura voluta, inevitabile, prodotta dalla mediazione fotografica. La visione, per esempio, del giovane americano,  con abito impeccabile sventolando una bandierina patriottica, celebrazione dell'ideale nazionale, é messa sullo stesso piano della deformità, dell'esposizione del corpo senza maschere, nudo, “nudista”, informe nell' abbondanza liquescente della carne.
Difficile trovare in queste fotografie  momenti di autenticità epifanica, di vero trasporto o riconciliazione con la realtà. Più spesso quello che vi appare è la cesura, il meccanismo contrario di scollamento dell’immagine, della figura che, messa alla prova di verità, senza concessioni né intercessioni, sembra d’un tratto cedere, non reggere il confronto con la critica della realtà.

Nuvole re-inquadrate in schermo fittizio di gigantesco drive-in, un mangiatore di fuoco in una fiera paesana, bambinetti al parco facendo smorfie all’obbiettivo,
l’ uomo senza testa in un’ installazione da circo, clown, funambuli, equilibristi e trasformisti.
Volti-maschere, volti in travestimento carnevalesco, dettagli di torsi nudi in gioco di multiple inquadrature  tra vetri e specchi, ragazzina gitana  a piedi nudi su un sentiero di terra battuta, vecchia signora borghese in strada;
volto-cortina, occhi socchiusi, calco di cera museale ma attraversato da grinze, rughe, stirature di pelle.
Tale rifacimento plastico della figura é volutamente colto in un' eccesso di forma, nell' estremo di un fittizio-iconico simulato che ne denuncia implicitamente la credibilità. La chiarificazione ossessiva nella scelta stilistica del ritratto passa attraverso forme volutamente colte nell’immobilità della loro identità sociale e poi il punto dove questa cede, si scolla o lascia intravvedere linee di sutura, di sovra-cucitura e insieme minuscole fessure di superficie.
Ritratti iconici di giovani ragazze benpensanti in strada, “il folle uomo nudo”
completamente tatuato sul torso con un solo occhio, figura di doppio in “mezzo uomo, mezza donna”, ragazzini con maschere del “fan club dei mostri” sui gradini d'una casa in America. “L’uomo che ingoiava lame di rasoio”, un bambino con il viso coperto di carbone, la ragazza con il cappello e i guanti, l'uomo dagli aghi piantati sul viso in diversi punti.
Gemelle siamesi su una spiaggia, neonati siamesi in scatola di plexiglass, coppie, doppi, sdoppiamenti, ripetizione in serie della stesso, serialità messa alla prova;
nella ripetizione qualcosa accade.

Quadri, specchi, schermi, gioco di inquadrature e rinvii di immagine. Il mondo è inquadrato, messo in cornice, “in  scena”  attraverso le sue individualità e, insieme, leggermente spostato  dalla cornice della sua presunta apparenza o veridicità.  
Una casa a Hollywood nel 1962: facciata apparente,  visibile in primo piano e messa a nudo della medesima come semplice impalcatura svuotata alle spalle,  dissecata, lasciata alle sole assi portanti, sottoposta al processo fotografico che,  inevitabilmente, ne mette in scena la demistificazione. 








Da un frammento dei suoi diari...riscrittura

“Hotel magnifico, immenso, bianco, sconfinato. Hotel a fuoco ma l’incendio si consuma lentamente", talmente lentamente che quasi non se ne ha la certezza,
la certezza della sua presenza e la gente  continua a entrare e uscire liberamente dal luogo come se nulla fosse. Non riuscire a vedere il fuoco ma sentire solo un fluire leggero, un flusso appena percettibile nell'aria come una nebbia sottile, vellutata, aleggiare, diffondersi, posarsi più densa intorno alle luci.
Spaventosamente bella, lieve, quasi impalpabile allo sguardo addensarsi a tratti in qualche punto come una cortina densa, immobile sui volti, tanto più invisibile.

Non avere molto tempo e sapere di dover fare qualcosa, qualcosa di  importante prima che la situazione precipiti e il panico esploda nell’edificio, prima che l’allarme cominci a risuonare  e la fuga, la lotta feroce, la gente precipitarsi, disperdersi, correre  in tutte le direzioni. Entrare in una stanza per recuperare qualcosa,  oggetti personali, cose che vorreste portare con voi, salvare dalla distruzione ma non riuscire a trovarli; non sapere esattamente dove, quanto tempo vi resti, cosa fare, da dove cominciare, fotografare, quanto tempo ancora, in quanto tempo la cosa esploderà, quali immagini salvare.

Forse che non hai abbastanza sangue freddo e non riesci a fare spazio, fare il vuoto nel pensiero e nel corpo per concentrarti solo su quello che vedi, trovare l’inquadratura giusta, il punto esatto della luce, forse che non hai abbastanza tempo per riflettere, scegliere il soggetto senza esitazione e sei costantemente interrotto. Forse che la pellicola é terminata e non  ne hai altra per continuare, forse che anche volendo sarebbe impossibile, forse che ci sono troppe voci intorno e la gente comincia a affollarsi, attraversare, correre lungo i corridoi, discendere le scale frettolosamente, riempire la hall dell’hotel. Precipitarsi senza una meta e tutto sommuovere, muovere intorno, volgere all’infinito, in un indefinito illimitato,
in un continuo ma quasi al rallentatore, in un movimento attenuato, trattenuto, a metà arrestato. Senso di rapimento, di stasi non voluta, forse l’angoscia di non poter continuare. “Una specie di estasi calma e dolorosa”, bloccata come quando si vuole correre fuori, uscire a tutti i costi  ma qualcuno vi trattiene perché l’orario non é ancora passato e la sirena non ha ancora suonato per annunciare l’ora dell’uscita. 
Senso di rapimento attonito, incantato, tuttavia disturbato da quello che viene a interromperlo, a importunarlo, come il senso di non poter procedere e salvare sé stessi, le cose intorno, le immagini anche.
Stranamente soli nonostante tutto, nonostante un mondo esploso intorno. La gente non smette di irrompere. Arrestati in questa sorta urgenza estatica, al rallentatore, assopita anch’essa sotto l’occhio d'un ciclone.






Diane Arbus, intervista immaginaria






"Quello che amo soprattutto é andare dove non sono mai stata prima". Per me c’é qualcosa di  straordinario nel fatto di entrare nella casa di qualcun’altro, nel vedere le cose che gli appartengono come si penetrasse nel suo mondo, in un universo a lui solo,  perché le cose partecipano della nostra irradiazione intima, e si impregnano della nostra natura.  Guardandole, é come entrassimo con discrezione nel mondo di qualcun’altro, rubando qualcosa del suo essere per farne un’immagine, portarne in superficie un’essenza.  “Quando il momento arriva, é come si andasse a un appuntamento con il destino, l’appuntamento con uno sconosciuto. Accade sempre qualcosa, un’impressione di familiarità e poi, la sensazione strana, manifesta che sia assolutamente inevitabile.”


“Tutti hanno il desiderio di voler dare di sé una certa immagine, di voler essere qualcosa di fronte al mondo, ma spesso altro appare nella realtà ed é in questo scarto, in questa fessura sottile, appena percettibile a occhio nudo che si situa la fotografia. Vedete qualcuno per strada e, quello che notate essenzialmente é la sua particolarità, l’eccezione, se vogliamo lo scarto dalla norma”.
Costruire un’identità ancorata a una certezza del sé puramente intellettuale, vivere in questa sfera dell'individuo principalmente mentale; eppure, spesso, altro appare nell'ordine della percezione, nei mondi sottili della realtà  più complessa del corpo energetico, eterico, sensibile o sovra-sensibile che pure compongono il campo espanso, la sfera più ampia della nostra totalità d'esseri umani.  Gran parte della nostra vita la spendiamo in investimento di forze ed energie per mantenere di noi una certa immagine intatta, plausibile, rassicurante nella quale andare a pararsi,  della quale vestirsi, rivestirsi per assicurare l’apparato costruito con tanta cura del nostro vivere sociale . Eppure al di là delle etichette ,  delle categorie e dei giudizi che adottiamo per ricondurre le differenze al sistema di analogie o somiglianze, per far convergere  lo sconosciuto nel conosciuto, la molteplicità disordinata, il continuo delle nostre fluttuazioni interiori al piano ordinato delle nostre rappresentazioni, non possiamo impedire tali passaggi repentini di coscienza, tali scivolamenti fulminei, non voluti dei sensi, al limite non possiamo impedire al pensiero di pensare altro, ai sensi di sentire altro, allo sguardo di vedere altro: il punto di rottura, l’incrinatura, la non coincidenza esatta tra l’intenzione e l’effetto. Voglio dire, se osservate la realtà da molto vicino può apparirvi qualche volta assurda, inverosimile, surreale. C’é qualcosa di molto ironico nel fatto che l’effetto che volevate creare nella realtà non é mai quello che avevate desiderato. Cio’ tende a dire l’impossibilità di uscire dalla propria pelle per entrare in quella degli altri, che l' oggetto là fuori del vostro sguardo  non é mai dato, neutrale, scontato, facilmente assimilabile e che, nel gioco di rispecchiamenti, di sovrapposizioni e scarti tra sé e l’altro si situa tanta parte del problema.

 “Una fotografia deve essere specifica”, più riesce ad essere specifica, più entra nella singolarità, nell’eccezione, nel dettaglio, nella differenza irriducibile  che ogni cosa porta in sé, più toccherà qualcosa di universale, una verità, un’evidenza sottotaciuta passando per questo sentiero esiguo della sensazione, d’una sensazione singolare, unica, irriducibile legata allo spazio-tempo d'un momento, solo in questo modo essa riuscirà ad essere universale, a toccare una verità dove altri potranno riconoscersi passando attraverso il loro  singolo micro-cosmo d'appercezione.

“ Il processo fotografico stesso ha una sorta di rigore, d’esattezza infinitesimale alla quale dobbiamo sottometterci. La macchina non ha l’indulgenza dell’essere umano, in quanto macchina ha il potere d’essere più fredda, più dura, più distaccata. Non che debba essere spietata ma non deve passare "accanto" alle cose, a lato della realtà, evitare di guardarle in faccia o guardarle solo a metà. Non deve indugiare sul politicamente corretto, sul conveniente del senso comune, sul forzatamente bello, esteticamente apprezzabile o commercialmente richiesto. ”

 “Ho molto fotografato i fenomeni di fiera, i primi soggetti che ho scelto, li trovavo esaltanti. C’é questa qualità straordinaria dei “mostri”, come i personaggi dei racconti fantastici, gli esseri abnormi, minuscoli, giganteschi, solo a metà umani, non celesti né infernali,  in parte investiti d'attributi primordiali, bestiali; poi gli esseri con qualche deformità, fisica o d’altra natura, deviazione, devianza, errore rispetto alla norma e, ancora, i marginali, i margini, le scorie , i rigetti, i lasciti del sistema. Infine, i personaggi da circo, i clown, i mangiatori di fuoco, i divoratori di coltelli, i funambuli, gli equilibristi, i trasformisti e più in generale ogni qualità d' esseri umani che espongono apertamente una differenza tangibile, manifesta come segno costitutivo, difensivo della propria identità, d’una identità innegabilmente iscritta disseminata negli angoli, le pieghe, sulla superficie "estensa" o i risvolti interni del proprio divenire-altro. “La maggior parte della gente vive con la paura d’essere sottomessa a tale differenza, che é anche la paura di un’esperienza traumatica. Loro, i mostri, hanno già superato la prova per la vita, per questo sono divenuti degli esseri altri, degli aristocratici forse.”

“ Qualche volta guardo una fotografia, una pittura e mi dico, é molto bella ma non é questo”, anzi qualcosa mi disturba della sua eccessiva perfezione come trovandosi in un sogno, in un mondo fittizio, simulato, costruito e non essere sicuri che sia il vostro, che vi appartenga veramente. “So in un modo che mi é completamente personale che la verità é veramente altra”, e forse non é possibile avvicinarla se non nella consapevolezza del suo inganno, del suo mascheramento, toccarla se non nella misura della sua incrinatura, del suo "errore".:p>

“All’inizio prediligevo immagini molto granulose", ero affascinata da tutti i piccoli punti che componevano una specie di tessuto, tessitura o trama e si traducevano in un reticolo stellare di forme. La pelle diveniva simile all’acqua che diveniva simile al cielo e non ci si preoccupava troppo della luce e dell’ombra, molto poco della carne e del sangue. Ma, dopo un certo periodo lavorando su questi punti minuscoli ho avuto voglia di uscire, di vedere la vera differenza tra le cose. Non parlo delle qualità tecniche dell’immagine, volevo sentire la differenza intrinseca, minimale al contatto, nel continuo insondabile tra la pelle e il tessuto, la densità di diverse materie, l’aria, l’acqua, l’opaco e il brillante. Poi ho cominciato a diventare estremamente ossessionata dalla chiarezza”, dalla necessità di ordinare, fissare ogni cosa al proprio posto sulla superficie. Fare chiarezza, domandare, ordinare chiarezza ai volti,  dentro i volti stessi di individualità sociali o marginali, fin dentro i volti dell’essere esigere questa chiarezza d’una maschera esposta, messa a nudo, scarnificata, direttamente scardinata dalla superficie del dover essere, imponendo uno stile, un disseccamento rigoroso all’immagine per raggiungere tale stadio ultimo di figurazione. 


“ Fotografare: in passato era l’impressione di intervenire tra due azioni, tra un’azione e il suo silenzio, il suo arresto, era come una pausa di sospensione, lasciare un’impronta ad occhi chiusi, era come essere completamente ciechi al momento dello scatto, perché il flash fotografico altera enormemente la luce e rivela cose che non vedreste o non vorreste vedere ad occhio nudo”. Scoprire con stupore a che punto si puo’ amare quello che non si vede in una fotografia, un’oscurità quasi fisica, tangibile, quello che non sai del tuo corpo come  fosse la tua pelle, attraverso quella d'altri, ad essere implicata in primo luogo nel processo.
 Esaltante ogni volta ritrovare tale oscurità nelle forme, nei volti o nei segni degli oggetti  che traspaiono attraverso il tuo lavoro quotidiano.

“Quello che mi appassiona nella scelta del soggetto, é che essa sembra venire da un luogo molto lontano”, da uno spazio inconoscibile, molto più indietro nel tempo come se la scelta effettuata attraverso il vetro riflesso fosse stata fatta molto prima sotto il segno del segreto, il segreto del suo segreto che la foto ancora continua a emanare senza saper svelare.

“Questo genere di cose sottili e inevitabili: la tendenza ad avvicinarsi sempre di più alla bellezza delle proprie invenzioni. La luce che emana ogni essere, una qualità dell’immagine, la scelta del soggetto, tutto questo gioca un ruolo fondamentale nella nostra ricreazione di realtà. Ci sono un milione di micro-scelte da fare, complesse o evidenti, banali o imprescindibili, ma nessuna di queste é veramente intenzionale.  Infiniti minimali spostamenti, riaggiustamenti di prospettiva, riconciliazioni, deviazioni, rovesciamenti di spazi o angoli di visione: mosso, immobile, fluttuante, vicino, lontano, tagliato o re-inquadrato, fuori campo, fuori quadro,
uno multiplo, doppio, in serie, a catena a ripetizione,
rimpicciolito, in dettaglio, espanso.

“Cio’ che resta quando tutto il resto é tolto”. Credo che le più belle invenzioni siano quelle alle quali non si é mai pensato. Alcune immagini sono lampi  di conoscenza diretta, limpide intuizioni, apparizioni fugaci, corto circuiti tra sensi e intelletto,  folgoranti messaggi in bottiglia, criptati, i cui codici segreti, senza che li conosciate, divengono per un istante leggibili, anche a voi manifesti.  Fotografie apparentemente venute male, “non riuscite”,  possono farvi vedere cio’ che manca, l’assenza di quello che non avevate visto, la percezione di tale 'non presenza', la cosa che in negativo riconoscete non vedendola o non avendola trovata.

“ Una cosa curiosa: non ho mai paura quando guardo attraverso la lente dell’obbiettivo. Qualcuno potrebbe avanzare verso di me con un revolver, avrei i miei occhi incollati al vetro ed é come se diventassi invulnerabile. Anche se ci sono limiti é come se non né esistessero in quel momento. C’é una sorta di potere misterioso che emana la macchina fotografica, tutti se ne rendono conto. C’é in questa cosa segreta che portate  in voi, una certa magia che agisce sulle persone, che li impressiona in un certo modo.”

“La cosa importante é sapere che nulla si puo' sapere”, che si va alla cieca dall’inizio gettando le mani avanti nel vuoto, si cammina rotolando sul suolo,  si tasta nel buio per trovare il cammino. Una cosa che m’a colpito da subito é che non mettete mai in una fotografia quello che ne verrà fuori. O viceversa, quello che appare non é mai quello che volevate farne, l'idea che avevate all’inizio. Non ho mai preso le foto che avevo intenzione di prendere.
Per me il soggetto é più complicato dell’immagine, più complesso, più sottile, in qualche modo più intransigente.

Penso veramente che quello che appare, si dà o si lascia intravvedere in un preciso momento spazio-temporale viene alla superficie auto-rappresentandosi. E tale  bisogna che sia.

“Ci sono cose che nessuno vedrebbe veramente se non fossero fotografate, se non passassero per un processo sottile di “messa in scena”, “in superficie”, “in atto,”
in quadro o meglio nella loro squadratura, se non fossero sottoposte a questo processo di spostamento sottile, di rinvio attraverso una visione differita, se non fossero inquadrate, guardate, rovesciate fino a rovesciarsi a loro volta come oggetti d’una loro propria verità, a darsi nel loro rovescio, nella loro linea di sutura, di cucitura e scollamento, se non pesassero, pensassero, passassero attraverso questa lente di ingrandimento, di messa a distanza, di rovesciamento dell’obbiettivo;
nella portata impersonale, spietata, nel rigore preciso, esatto della macchina, nel punto ineluttabile di sospensione dove la cosa non può passare inosservata, sottrarsi, passare a lato della realtà inquadrandola. La fotografia é tutto il mistero di questo passaggio.