sabato 19 novembre 2011

Diane Arbus, intervista immaginaria






"Quello che amo soprattutto é andare dove non sono mai stata prima". Per me c’é qualcosa di  straordinario nel fatto di entrare nella casa di qualcun’altro, nel vedere le cose che gli appartengono come si penetrasse nel suo mondo, in un universo a lui solo,  perché le cose partecipano della nostra irradiazione intima, e si impregnano della nostra natura.  Guardandole, é come entrassimo con discrezione nel mondo di qualcun’altro, rubando qualcosa del suo essere per farne un’immagine, portarne in superficie un’essenza.  “Quando il momento arriva, é come si andasse a un appuntamento con il destino, l’appuntamento con uno sconosciuto. Accade sempre qualcosa, un’impressione di familiarità e poi, la sensazione strana, manifesta che sia assolutamente inevitabile.”


“Tutti hanno il desiderio di voler dare di sé una certa immagine, di voler essere qualcosa di fronte al mondo, ma spesso altro appare nella realtà ed é in questo scarto, in questa fessura sottile, appena percettibile a occhio nudo che si situa la fotografia. Vedete qualcuno per strada e, quello che notate essenzialmente é la sua particolarità, l’eccezione, se vogliamo lo scarto dalla norma”.
Costruire un’identità ancorata a una certezza del sé puramente intellettuale, vivere in questa sfera dell'individuo principalmente mentale; eppure, spesso, altro appare nell'ordine della percezione, nei mondi sottili della realtà  più complessa del corpo energetico, eterico, sensibile o sovra-sensibile che pure compongono il campo espanso, la sfera più ampia della nostra totalità d'esseri umani.  Gran parte della nostra vita la spendiamo in investimento di forze ed energie per mantenere di noi una certa immagine intatta, plausibile, rassicurante nella quale andare a pararsi,  della quale vestirsi, rivestirsi per assicurare l’apparato costruito con tanta cura del nostro vivere sociale . Eppure al di là delle etichette ,  delle categorie e dei giudizi che adottiamo per ricondurre le differenze al sistema di analogie o somiglianze, per far convergere  lo sconosciuto nel conosciuto, la molteplicità disordinata, il continuo delle nostre fluttuazioni interiori al piano ordinato delle nostre rappresentazioni, non possiamo impedire tali passaggi repentini di coscienza, tali scivolamenti fulminei, non voluti dei sensi, al limite non possiamo impedire al pensiero di pensare altro, ai sensi di sentire altro, allo sguardo di vedere altro: il punto di rottura, l’incrinatura, la non coincidenza esatta tra l’intenzione e l’effetto. Voglio dire, se osservate la realtà da molto vicino può apparirvi qualche volta assurda, inverosimile, surreale. C’é qualcosa di molto ironico nel fatto che l’effetto che volevate creare nella realtà non é mai quello che avevate desiderato. Cio’ tende a dire l’impossibilità di uscire dalla propria pelle per entrare in quella degli altri, che l' oggetto là fuori del vostro sguardo  non é mai dato, neutrale, scontato, facilmente assimilabile e che, nel gioco di rispecchiamenti, di sovrapposizioni e scarti tra sé e l’altro si situa tanta parte del problema.

 “Una fotografia deve essere specifica”, più riesce ad essere specifica, più entra nella singolarità, nell’eccezione, nel dettaglio, nella differenza irriducibile  che ogni cosa porta in sé, più toccherà qualcosa di universale, una verità, un’evidenza sottotaciuta passando per questo sentiero esiguo della sensazione, d’una sensazione singolare, unica, irriducibile legata allo spazio-tempo d'un momento, solo in questo modo essa riuscirà ad essere universale, a toccare una verità dove altri potranno riconoscersi passando attraverso il loro  singolo micro-cosmo d'appercezione.

“ Il processo fotografico stesso ha una sorta di rigore, d’esattezza infinitesimale alla quale dobbiamo sottometterci. La macchina non ha l’indulgenza dell’essere umano, in quanto macchina ha il potere d’essere più fredda, più dura, più distaccata. Non che debba essere spietata ma non deve passare "accanto" alle cose, a lato della realtà, evitare di guardarle in faccia o guardarle solo a metà. Non deve indugiare sul politicamente corretto, sul conveniente del senso comune, sul forzatamente bello, esteticamente apprezzabile o commercialmente richiesto. ”

 “Ho molto fotografato i fenomeni di fiera, i primi soggetti che ho scelto, li trovavo esaltanti. C’é questa qualità straordinaria dei “mostri”, come i personaggi dei racconti fantastici, gli esseri abnormi, minuscoli, giganteschi, solo a metà umani, non celesti né infernali,  in parte investiti d'attributi primordiali, bestiali; poi gli esseri con qualche deformità, fisica o d’altra natura, deviazione, devianza, errore rispetto alla norma e, ancora, i marginali, i margini, le scorie , i rigetti, i lasciti del sistema. Infine, i personaggi da circo, i clown, i mangiatori di fuoco, i divoratori di coltelli, i funambuli, gli equilibristi, i trasformisti e più in generale ogni qualità d' esseri umani che espongono apertamente una differenza tangibile, manifesta come segno costitutivo, difensivo della propria identità, d’una identità innegabilmente iscritta disseminata negli angoli, le pieghe, sulla superficie "estensa" o i risvolti interni del proprio divenire-altro. “La maggior parte della gente vive con la paura d’essere sottomessa a tale differenza, che é anche la paura di un’esperienza traumatica. Loro, i mostri, hanno già superato la prova per la vita, per questo sono divenuti degli esseri altri, degli aristocratici forse.”

“ Qualche volta guardo una fotografia, una pittura e mi dico, é molto bella ma non é questo”, anzi qualcosa mi disturba della sua eccessiva perfezione come trovandosi in un sogno, in un mondo fittizio, simulato, costruito e non essere sicuri che sia il vostro, che vi appartenga veramente. “So in un modo che mi é completamente personale che la verità é veramente altra”, e forse non é possibile avvicinarla se non nella consapevolezza del suo inganno, del suo mascheramento, toccarla se non nella misura della sua incrinatura, del suo "errore".:p>

“All’inizio prediligevo immagini molto granulose", ero affascinata da tutti i piccoli punti che componevano una specie di tessuto, tessitura o trama e si traducevano in un reticolo stellare di forme. La pelle diveniva simile all’acqua che diveniva simile al cielo e non ci si preoccupava troppo della luce e dell’ombra, molto poco della carne e del sangue. Ma, dopo un certo periodo lavorando su questi punti minuscoli ho avuto voglia di uscire, di vedere la vera differenza tra le cose. Non parlo delle qualità tecniche dell’immagine, volevo sentire la differenza intrinseca, minimale al contatto, nel continuo insondabile tra la pelle e il tessuto, la densità di diverse materie, l’aria, l’acqua, l’opaco e il brillante. Poi ho cominciato a diventare estremamente ossessionata dalla chiarezza”, dalla necessità di ordinare, fissare ogni cosa al proprio posto sulla superficie. Fare chiarezza, domandare, ordinare chiarezza ai volti,  dentro i volti stessi di individualità sociali o marginali, fin dentro i volti dell’essere esigere questa chiarezza d’una maschera esposta, messa a nudo, scarnificata, direttamente scardinata dalla superficie del dover essere, imponendo uno stile, un disseccamento rigoroso all’immagine per raggiungere tale stadio ultimo di figurazione. 


“ Fotografare: in passato era l’impressione di intervenire tra due azioni, tra un’azione e il suo silenzio, il suo arresto, era come una pausa di sospensione, lasciare un’impronta ad occhi chiusi, era come essere completamente ciechi al momento dello scatto, perché il flash fotografico altera enormemente la luce e rivela cose che non vedreste o non vorreste vedere ad occhio nudo”. Scoprire con stupore a che punto si puo’ amare quello che non si vede in una fotografia, un’oscurità quasi fisica, tangibile, quello che non sai del tuo corpo come  fosse la tua pelle, attraverso quella d'altri, ad essere implicata in primo luogo nel processo.
 Esaltante ogni volta ritrovare tale oscurità nelle forme, nei volti o nei segni degli oggetti  che traspaiono attraverso il tuo lavoro quotidiano.

“Quello che mi appassiona nella scelta del soggetto, é che essa sembra venire da un luogo molto lontano”, da uno spazio inconoscibile, molto più indietro nel tempo come se la scelta effettuata attraverso il vetro riflesso fosse stata fatta molto prima sotto il segno del segreto, il segreto del suo segreto che la foto ancora continua a emanare senza saper svelare.

“Questo genere di cose sottili e inevitabili: la tendenza ad avvicinarsi sempre di più alla bellezza delle proprie invenzioni. La luce che emana ogni essere, una qualità dell’immagine, la scelta del soggetto, tutto questo gioca un ruolo fondamentale nella nostra ricreazione di realtà. Ci sono un milione di micro-scelte da fare, complesse o evidenti, banali o imprescindibili, ma nessuna di queste é veramente intenzionale.  Infiniti minimali spostamenti, riaggiustamenti di prospettiva, riconciliazioni, deviazioni, rovesciamenti di spazi o angoli di visione: mosso, immobile, fluttuante, vicino, lontano, tagliato o re-inquadrato, fuori campo, fuori quadro,
uno multiplo, doppio, in serie, a catena a ripetizione,
rimpicciolito, in dettaglio, espanso.

“Cio’ che resta quando tutto il resto é tolto”. Credo che le più belle invenzioni siano quelle alle quali non si é mai pensato. Alcune immagini sono lampi  di conoscenza diretta, limpide intuizioni, apparizioni fugaci, corto circuiti tra sensi e intelletto,  folgoranti messaggi in bottiglia, criptati, i cui codici segreti, senza che li conosciate, divengono per un istante leggibili, anche a voi manifesti.  Fotografie apparentemente venute male, “non riuscite”,  possono farvi vedere cio’ che manca, l’assenza di quello che non avevate visto, la percezione di tale 'non presenza', la cosa che in negativo riconoscete non vedendola o non avendola trovata.

“ Una cosa curiosa: non ho mai paura quando guardo attraverso la lente dell’obbiettivo. Qualcuno potrebbe avanzare verso di me con un revolver, avrei i miei occhi incollati al vetro ed é come se diventassi invulnerabile. Anche se ci sono limiti é come se non né esistessero in quel momento. C’é una sorta di potere misterioso che emana la macchina fotografica, tutti se ne rendono conto. C’é in questa cosa segreta che portate  in voi, una certa magia che agisce sulle persone, che li impressiona in un certo modo.”

“La cosa importante é sapere che nulla si puo' sapere”, che si va alla cieca dall’inizio gettando le mani avanti nel vuoto, si cammina rotolando sul suolo,  si tasta nel buio per trovare il cammino. Una cosa che m’a colpito da subito é che non mettete mai in una fotografia quello che ne verrà fuori. O viceversa, quello che appare non é mai quello che volevate farne, l'idea che avevate all’inizio. Non ho mai preso le foto che avevo intenzione di prendere.
Per me il soggetto é più complicato dell’immagine, più complesso, più sottile, in qualche modo più intransigente.

Penso veramente che quello che appare, si dà o si lascia intravvedere in un preciso momento spazio-temporale viene alla superficie auto-rappresentandosi. E tale  bisogna che sia.

“Ci sono cose che nessuno vedrebbe veramente se non fossero fotografate, se non passassero per un processo sottile di “messa in scena”, “in superficie”, “in atto,”
in quadro o meglio nella loro squadratura, se non fossero sottoposte a questo processo di spostamento sottile, di rinvio attraverso una visione differita, se non fossero inquadrate, guardate, rovesciate fino a rovesciarsi a loro volta come oggetti d’una loro propria verità, a darsi nel loro rovescio, nella loro linea di sutura, di cucitura e scollamento, se non pesassero, pensassero, passassero attraverso questa lente di ingrandimento, di messa a distanza, di rovesciamento dell’obbiettivo;
nella portata impersonale, spietata, nel rigore preciso, esatto della macchina, nel punto ineluttabile di sospensione dove la cosa non può passare inosservata, sottrarsi, passare a lato della realtà inquadrandola. La fotografia é tutto il mistero di questo passaggio.  





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