lunedì 31 maggio 2010

Jodice (II), Napoli, Riletture



















































Matera è vista dall’alto attraverso la barriera distanziante in ferro dei tubi d’un impalcatura. Le case appaiono come piccole costruzioni bianche estratte dalla realtà eppure epurate in un plastico irreale di forme divenute stranamente lontane, inoffensive, quasi irraggiungibili.
Si stagliano nettamente l’una dall’altra in una visione panoramica a distanza.



La città ora é vista attraverso le vetrate rotte d’una chiesa fatta di quadrati irregolari,
di forme frastagliate, di pieni e di vuoti irradianti di luce riflessi in balzi discontinui attraverso l’interno della cupola.
Momenti di accecamento totale a causa della luce si alternano a messe a fuoco repentine delle forme.
La visione é immersa nell’oscurità; qualcuno è colto nell’atto del guardare e insieme restituisce la rifrazione multipla del suo sguardo come in un gioco di specchi deformanti: mise-en-abime totale e costante tra sé e il mondo.



Città deserta, svuotata d’ogni presenza umana,
città-fantasma, anestetizzata come un corpo esangue, privo di vita all’immagine dell'auto-reliquia fotografata in primo piano, coperta d’una tela bianca, mortuaria.
Spasimo d’un corpo animato, la città come la pietra é scavata, intagliata a vivo dalle sue figure umane, la materia animata e inanimata in continuità .




La scissione estetica  aperta precedentemente dalla fotografia documentaria di Jodice nel primo periodo si riconcettualizza in questo secondo tempo nello spazio urbano della città del sud, emblematica Matera, intesa come il corpo animato e vivente d'un organismo dotato di vita e, insieme, reso immobile, narcotizzato a sintomo dello stato mentale e spirituale dei suoi abitanti. Il sud come tutto il paese appare metaforicamente investito d'una storia ma visto soccombere   sotto il peso della sua memoria, inerte di fronte alla lacerazione prodotta dal presente nel luogo e nel tempo dell'attuale.

Le immagini evocano la pittura metafisica di De Chirico rinviando a piazze vuote attraversate da presenze fantomatiche, panni stesi ad asciugare come concrezioni plastiche di figure femminili nello spazio, infine corpi in carne ed ossa svaporati, manichini di individui reali  resi assenti fino a lasciare la sola impronta dei loro involucri appesi ai fili.

Barriere di ferro e cemento sbarrano templi antichi, colonne greche ricompaiono in latta e alluminio piegabile;manifesti stracciati d’edifici cedono il passo al silenzio del luogo.
Gli edifici appaiono murati dentro apparentemente disabitati o occlusi da porte e finestre che si pongono come punti d’arresto, sospensioni,
macchie o zone d’ombra contro le quali la luce rifrange senza trovare riflesso.

L' antro che s'apre in cima alla scalinata 
sparpagliato di vecchie scarpe in disuso conduce a un' invisibile sorgente di luce, punto di fuga oltre l'immagine. Là sono mucchi di stivali o altre scarpe senza laccetti, pile di tessuti corrosi,il cuoio sfondato e le suole usurate di vecchie suole ammassate .
Un eco di passi risuona attraverso i corridoi disertati e in decadimento nell' antico ospedale degli Indigenti insieme alle presenze remote che l' hanno lasciato. Impronte di piedi conducono verso quel luogo della marginalità, dell'assenza.





Oceano-mare: infinità, isolamento, pellegrinaggio verso l'infinito come la ricerca di un altro rapporto tra sé e le cose . 
Le immagini di Jodice camminano verso questo infinito: l'ultima tappa d'un viaggio fotografico che procede verso la sottrazione progressiva della figura, smaterializzando le forme alla ricerca d’un ritorno all’ originario.































































martedì 25 maggio 2010

Mimmo Jodice (I), Retrospettiva, Maison Européenne de la photographie, Parigi



" Napoli é la fotografia ; la fotogenia di Napoli é immediata e diretta,
é un caleidoscopio d’immagini a presa rapida e diretta che attrae perfino sui soggetti più disincantati e meno atti a ispirare”. Ai percorsi di superficie fatti di strade e chiese, di chiostri e cortili abbandonati corrisponde il ventre antico della città, labirinto di catacombe e scalinate sotterranee vicoli senza fine, pullulanti di vita, di un’attività frenetica segreta e vitale denudata d’ogni pregiudizio.



“Siamo nel battito di questa città antica, tuttavia così immobile dove la realtà caotica e invadente è cristallizzata al cuore del passato come in un’archeologia del futuro. ”

Sulla fotografia, la città, lo spazio

Città invisibile, 
lo spazio é  preso nella distanza, nell’astrazione, nell’estraneità più totale dall’immediato quotidiano e insieme é profondamente, sensibilmente investito, come un ambiente che contiene il proprio malessere , lo assorbe, lo assimila e se ne lascia impregnare.
Se ne inietta il veleno tacitamente senza sapere esplicitarne le cause,
escludendo ogni figurazione diretta, la scelta d’esseri umani al centro della fotografia. L’immagine rispetto al periodo precedente, più direttamente documentario, si svuota d’ogni presenza umana, divenendo sempre più intima,  tendente all’astrazione e insieme investita d’una dimensione interiore,

paesaggio poetico parlante una lingua propria, atemporale.



“Ci si muove liberamente seguendo sensazioni, angosce, un’immagine mentale più o meno presente, chiara o confusa di fronte agli occhi e quando la scena coincide con questa allora è il momento della fotografia”. 

Le immagini cambiano ma le suggestioni restano, non smettono di ritornare, tormentarci, di ripresentarsi mascherate sotto diverse forme o sembianze come parte del nostro modo di vedere il mondo,
della nostra idealità tanto che una fotografia puo' scaturire da qualsiasi pretesto o occasione, trovarsi dappertutto, in ogni luogo. 

Esiste un’idea o una suggestione vaga della mente che si sviluppa al momento dello scatto e si completa in laboratorio: spazio di creazione, di elaborazione e rielaborazione costante fino a quando non si decide di lasciare la “camera oscura” in quella che consideriamo l’immagine finita.

Le  immagini più belle sono, forse, quelle che non esistono, che non vedremo mai,o non verranno mai fatte, 
quelle che abbiamo immaginato e resteranno fluttuanti nella nostra mente:
una fuga nel tempo e nello spazio,
il mare visto in un’apertura improvvisa dell’infinito.



“La fotografia è un linguaggio come la parola o la scrittura: queste immagini non raccontano la realtà che mi circonda, potrebbero essere state fatte cinquant’anni fa oppure tra cinquant’anni”. Esprimono uno stato fisico, mentale o emozionale più o meno cosciente, incarnano un’atmosfera, metaforizzano una visione poetica,
non descrivono un evento.
Rinviano a suggestioni già là, presenti nella mente prima d’averle viste o inquadrate nella realtà esteriore seppure latenti o ancora a uno stadio virtuale. Nascono per una necessità espressiva e quello che troviamo nella realtà risponde, in qualche modo, al nostro bisogno interiore.

Guardare lontano o a una distanza ravvicinata, uscire dal presente,
tirarsi fuori dalle proprie abitudini visive, risponde al mio modo di percepire la luce,

le forme fisiche nello spazio.




















Mediterraneo



L'obiettivo si concentra sul Mediterraneo: Grecia, Africa del nord, Italia meridionale. Frammenti dell'eredità classica, rovine di ville romane ritrovate tra le sabbie del deserto; edifici in pietra, statue, affreschi o mosaici.

Volto sfregiato d'una statua greca.
Venere, volto di linee epurate dalle proporzioni ideali, dai tratti solenni d’un modello di bellezza classica, sfregiato in primo piano,
attraversato da una linea d’ombra, fenditura sottile sul marmo che ne incide tutta la lunghezza del profilo fino a toccare le labbra, la linea del collo e del mento.
Proiezione, doppio o autoritratto de-figurato dell’artista
contemplando la propria immagine rovesciata, l’altro lato dello stesso volto apparentemente epurato, intoccabile, dalla pelle liscia, levigata, assolutamente intatta.

In un'altra statua una parte del volto è letteralmente sottratta, divorata come se il grigiore del fondo ne avesse letteralmente assorbito i tratti ,
la figura é spazio vuoto, zona d’assenza, senza più contorno o definizione fissa.
Resta lo sguardo, vivente e animato, intagliato sulla pietra fissando un punto lontano, non identificabile alla nostra vista.

Allo stesso modo compaiono divinità in quattro o cinque frammenti di vetro spezzati e ricomposti.
La struttura portante d’un tempio é divorato da una zona d’ombra: macchie informi, impediscono o arrestano la figurazione; macchie nere si impongono al centro, non tanto come antri o passaggi verso l’altrove quanto come arresti, imposizioni, intromissioni improvvise di presenza.

Colonne di tempio greco sono viste in dettaglio, in primo piano;
Le linee di intarsio semi-cancellate sono colte nell’atto di ridivenire informi, senza definizione come per un colpo di spugna, una folata di vento,
il passaggio d’un lasso d'ore indeterminato ricoprendo le cose d’uno spesso strato di polvere opaca.
Una fitta filigrana di materia corrosa, divorata da tanti piccoli buchi compone la superficie rugosa della figura simile a un formicaio, una roccia bucherellata di piccoli fori sostituendosi agli organi vitali del cuore, del ventre o dei polmoni.
























Processo di corrosione della materia vista nell’atto del suo "s-farsi".
La pietra si sgretola tra le mani soggetta alla violenza inavvicinabile del tempo.

Pietra rugosa di templi o rovine,
é vista in prospettiva correndo verso un proprio centro di fuga
come per un’energia o una forza centripeta che riporta la forma finita alla voragine aperta dello stadio precedente, poi ancora più indietro, allo stato grezzo del non-finito, alla roccia primitiva,
ancora più indietro al magma primigenio della materia,
alle forze primarie, agli impulsi che annullano e rigenerano senza sosta il processo vitale.

Processo di cancellazione progressiva dei volti persi a loro stessi;
le statue si sgretolano come argilla friabile tra le mani, perdendo la propria integrità.

Amnesia: perdita improvvisa di memoria, bianchi inspiegati di date, nomi, luoghi o parti d' avvenimenti; lassi di tempo di cui non si ricorda più nulla di preciso, restando come spazi vuoti, fluttuanti nella mente.
Anamnesi: processo di ricostituzione progressiva dei dati ricomponendo le fasi successive d’una decorrenza clinica a scopo diagnostico.

Statua sfuocata, semi-cancellata nei tratti del volto dall'effetto flou della luce rapita da un grido silenzioso.
Attimo di terrore , angoscia improvvisa che l’afferra.
La pietra é metamorfizzata in tratti viventi, bocca e parti del viso sono semi-cancellate.
Grido di terrore sul volto senza parole, senza organi che possano emettere un suono a proiettarlo.

Demetra II, Ercolano: schegge di volti, quello maschile sfregiato all’angolo del viso, senza più bocca, come se il primo strato di superficie fosse stato graffiato, asportato e rimosso.
Un' altra scheggia di volto femminile appare accanto, di cui restano visibili solo le labbra.

Il viso si sottrae nell'impossibilità d'offrirsi se non come superficie de-figurata,
pietra rugosa, ruvida, scabra al tatto, passaggio infranto tra i due seppure in continuità.
Contiguità inavvicinabile, strappo e ricomposizione costante per frammenti dispersi,
Metafora potente della ricerca d’una idealità amorosa di fronte al proprio limite.
La pietra é resa umana, vivente eppure prigioniera della materia morta;
labbra e sguardo sono animati come fossero investiti d'un soffio vitale, stranamente umani, espressivi contro il marmo gelido a contenerli, a costituirli.

mercoledì 12 maggio 2010

da Claude Regy, "Stato d’incertezza", (I solitari Intempestivi, 2002)






Cerco il vero e il vero é sempre in movimento,” qualcosa di talmente aleatorio, in costante definizione, negoziazione, in questa zona d’auto-aggiustamento per avanzamenti e retrocessioni di fronte alle insorge degli eventi, agli accidenti della psiche o del linguaggio.

Cancellazione e risorgenza d’una memoria viva, immediata ma anche apertura d’un tempo anteriore, occultato e disperso, immischiato all’opacità di un non-sapere
Processo frammentario, impersonale, estraneo al controllo e in buona parte giocato dal caso,
il non-sapere che agisce in noi per quello che sentiamo intuitivamente senza riuscire a distinguerne chiaramente la forma, i confini;
Come retrocedendo, lasciando spazio
al più lontano della nostra realtà e, al tempo stesso, stranamente presente.

Domandarsi cosa significa scivolare in questi territori-limite al bordo dell’identità che ci separano dalla parte di follia potenzialmente nascosta in noi. Non più sapere l’io dove finisce, dove comincia il mondo, dove cominciano gli altri, essere sé e l’Altro, diversi altri insieme. “Quando si confondono i luoghi, le epoche, le cose, le persone stesse, quando il reale non si distingue più, l’arbitrario delle misure, delle separazioni. Non si sa più dove finisce il corpo.
Questa psicosi che fa male, così vicina alla scrittura: frammenti di reale trascinati, dispersi nel campo dell’immaginazione, del sogno”. (Claude Regy)

“Niente é più fragile della superficie” scrive Deleuze in Logica del Senso
costantemente minacciata dal non-senso, “dall’informe senza fondo” dalla disintegrazione del prima.
“Minaccia impercettibile” , come una fessura microscopica che si lascia scorgere a distanza ravvicinata, facendoci scivolare verso un ordine primordiale che divora il senso, oppure ricomponendosi in un’altra forma d’ "organizzazione creatrice” , un altro modo di significare, tessere analogie, di riannodare legami arcaici attraverso il linguaggio segreto d’un mondo poetico primo.


“Di fronte a questo taglio netto della luce, immagine semplificata della psicosi, non ho resistito all’idea di vedere gli attori letteralmente attraversare, fisicamente tagliare questa linea d’ombra simile a un muro d’interdetto .”
Vediamo allo stesso tempo la scissione netta d’una individualità e la sua cesura dal reale. Lo vediamo qui materialmente, su scena, pur attraversando un confine che resta altamente immateriale.

Sul romanzo di Jan Fosse “melanconia”.
“ Le tele che farà sessant’anni più tardi sono già là senza che le abbia dipinte."
Ha guardato la luce trasparente dei fiordi, ha descritto le sue nuvole bianche e blu, ha parlato di quella luce. Poi ha parlato della luce degli esseri. Nell’emozione con la quale ha sentito il paesaggio sono già inscritte la trasparenza e la luminosità che dipingerà cinquant’anni più tardi.
“Penso che il passaggio attraverso la malattia, questo stato di malessere che diviene patologico, sia inevitabile; la sofferenza resta iscritta, scavata nell’ opera". Se si deve parlare di “delirio rivelatore” è quello della discesa nel fango vischioso dell’esistenza, nella melma putrida che trascina il corpo e lo immischia fino a perderlo, nelle acque stagnanti dell’immobilità vitale.
Ci sarebbe questa sensazione d’un corpo risucchiato nel fango dentro sabbie mobili che lo divorano a poco a poco, e, sprofondare sempre più nella terra umida fino ad avere la certezza d’essere ingoiati, di restare sommersi. Ma è laggiù, affondando, che l’occhio distinguerebbe d’un tratto il limite esterno, l’orizzonte sempre più chiaro, netto in lontananza e, tale esperienza di morte lo metterebbe in contatto con la luce. Tanto il caos, la perdita, la dispersione prima, quanto la purezza, l’apertura d’una visione lasciandosi scorgere a tratti in silenzio.
Questo“occhio interno” sposta la realtà, non la ricopia ma la ricrea partendo da quella necessariamente, sfiorando questo bordo sottile tra salute e malattia dove si situano i germi della creazione;
nel passaggio interrogandosi su che cosa venga dopo, oltre quel bordo.
























Immagini:

1Moshe Ninio, Rainbow: rug, 2000.

2 Darren Almond, Fullmoon quatrain 2002.

3-4 Anri Sala, Time after time, video.

5-6 Anri sala, Three minutes, video.

domenica 2 maggio 2010

"Le promesse del passato, una storia discontinua dell'arte nell'ex Europa dell'est", Parigi, Centro Pompidou, esposizione.












































Anri Sala, Dammi i colori, 2003.
Cyprien Gaillard, Cairns, 2008.


Vent’ anni dopo la caduta del muro di Berlino, di fronte a un mondo post-coloniale, virtualmente legato da un sistema di comunicazione mediatico e incentrato sulla libera economia di un mercato globale, "Le promesse del passato" rivisita l’antica opposizione tra est e ovest, l’espressione dell’arte all’epoca comunista e la sua attuale evoluzione per gli artisti provenienti dall’est Europa.

Ion Grigorescu filma le trasformazioni di un quartiere di Bucarest all’epoca dei grandi lavori, nel 1970, sotto Ceausescu: grattaceli anonimi, freddi, simili l’uno all’altro ripresi in 8 mm in bianco e nero, poi immagini rovesciate degli stessi come fossero assemblaggi in plastica, blocchi rettangolari ingrigiti dalla cappa di silenzio, di opacità che completamente li investe.
Cyprien Gaillard nel 2008 fotografa un cumulo di macerie in primo piano, occupando tutto lo spazio dell’immagine sullo sfondo dei palazzi dell’epoca precedente. Dalle derive dell’utopia modernista che poneva il ruolo dell’arte al centro della vita sociale alla nostalgia verso un’epoca tanto amata quanto detestata comune a tutta una generazione d’artisti.

All’inizio degli anni 2000, a Tirana, le facciate degradate di diversi edifici dell’epoca comunista vengono ridipinte all’interno di un progetto di riappropriazione dello spazio pubblico che rivisita l’antica utopia socialista rilanciando il ruolo di un’arte utile per un effettivo miglioramento della società.



Anri Sala, “Dammi i colori”, Tirana, 2003, video.

Gli alberi imbiancati, i rami spogli come le architetture nude della città si stagliano nel controluce d’ombra contro il grigiore degli edifici circostanti. Gruppi di gente sono visti in piedi su un autobus stracolmo, Contro le impalcature a vistadelle costruzioni  aree di colore si impongono, vistosamente su interi edifici ridipinti. 
Mucchi di terra, detriti mentre la gente cammina tra le macerie o in bicicletta su sentieri provvisori;
Bambinetti  corrono malamente abbigliati tra le case, qualche miserabile resta accampato coi propri stracci  nella strada.

“Questo scenario riflette i decenni di lunga decadenza verso il singolo nell’indifferenza totale dello stato”.
“E’ la questione di sapere come rendere uno spazio abitabile, come trasformare un luogo dove si è condannati a vivere in un luogo dove si sceglie di vivere.”

“Sembrava prima una stazione di transito dove potevi restare solo per aspettare qualcosa o qualcuno, un corpo che invecchiava a vista , che degradava in silenzio, giorno dopo giorno senza poter far nulla per impedirlo.”

“Tutto è stato aggiunto sulla superficie non da artisti ma da mani anonime di residenti;
non era questione di scegliere quali colori applicare a un edificio o a un altro, ma un processo che ha a che vedere con la democratizzazione di un paese, di un’ avanguardia stabilendo una comunicazione diretta tra le persone, l’arte le istituzioni;
un intervento puntuale sul territorio nell’atto di tracciare o iscrivere una differenza. "

“ Il colore ha un impatto intensificante sul ritmo del respiro”; agisce come un’infrazione, aprendo una fessura sullo spesso schermo di polvere che investe gli individui fino a soffocarli invisibilmente, dando inizio a una nuova era per la città.
Ed è un paradosso, in uno dei paesi più poveri d’Europa, aprire una tale discussione, ovunque, in tutti i luoghi pubblici, i mercati, i bar, su come il colore possa agire sulla vita di queste persone, quali effetti possa produrre in loro.

Indossare il colore come si indossa un abito, con tutte le sue vibrazioni e rifrazioni di luce, portarlo addosso come si porta la propria pelle con le sue cicatrici, segni distintivi, la sua tessitura segreta, come si portano addosso gli organi di un corpo, organicamente respirando nei tessuti che lo compongono.
Portarlo alla superficie nel nostro “darsi al mondo”, non più chiuso dentro quattro mura oppure come elemento di frustrazione imposto dall’esterno ma gettato là fuori, ovunque, in macchie uniformi, informi di rosso, giallo e arancio, fino a produrre un effetto visibile su chi lo guarda, lo assorbe, lo assimila,
lo introietta alla propria epidermide.
“L’ambizione di rendere questa città uno spazio di scelta e non di destino è un’utopia in sé stessa”.


Anri Sala, Dammi colori, 2003.


















Anri Sala, Dammi i colori, 2003.

Alban Hajdinaj “ Eye to eye”, video, una versione critica del progetto precedente iniziato a Tirana nel 2003.
Siede là fuori ogni giorno, in silenzio. Osserva. Lo sguardo fisso, immobile contro i vetri del negozio.
Le cose sono cambiate enormemente negli ultimi tempi.
Si concentra sui cambiamenti recenti. Una mattina è stata sorpresa a trovare tutti gli edifici dipinti, le facciate ricoperte da spessi strati di colore come su una scacchiera fatta di rombi alterni, di forme oblique e regolari, rossi, gialli, blu, aranci o verdi, aggiunte da mani sconosciute, assemblate l’uno all’altra in modo del tutto aleatorio.
Sa che quegli edifici erano stati là da sempre, opachi e anonimi fino a divenire invisibili allo sguardo, volevano forse solo renderli meno grigi, sordidi, meno desolanti agli occhi dei passanti.
Ha sentito che artisti sconosciuti erano stati commissionati per ricoprire quelle architetture come fossero grandi tele o quadri astratti.
E lei, gli animali, le persone, ogni cosa non sembrano che pezzetti minuscoli, corpuscoli gravitanti in aria, cellule prive di vita o pedine inimmaginabili di una scacchiera giocata da qualcun altro, “Grande Occhio” esterno, là fuori gravitante intorno a loro.
Piccoli pezzetti di un grande insieme messo in scena da qualcuno altro, fuori dal loro controllo, per mascherare le superfici atone e grigiastre, la pelle esangue della città,
l’aspetto opaco e incolore dei loro volti come di ogni cosa intorno.
le strade dissestate, gli ammassi di macerie e terra ai lati degli edifici, l’aria che respirano ricoperti da uno spesso strato di vernice.
Loro stessi sono presi dentro quella gabbia colorata, apparente gioiosa più grande di loro che ora li contiene.
E là fuori, si dice, senza dubbio, nessuno distinguerebbe più la sua figura tra la folla mentre lei potrebbe, al contrario, facilmente vedere nel buio, percepire attraverso l’oscurità qualcosa che si delinea d’un tratto, che scintilla segretamente di fronte agli occhi, invisibile se non in guizzi fulmini, come bagliori di lampi che si illuminano all’improvviso nel nero circostante.
Siede là ogni mattina e osserva.


Mladen Stilinovic


« In quanto artista ho assorbito tanto dall’est ( dal socialismo) quanto dall’ovest ( dal capitalismo). Mantengo inalterato questo dialogo in me. La mia osservazione e conoscenza dell’ occidentale mi hanno infine condotto alla conclusione che l’arte esiste sempre più difficilmente all’ovest; gli artisti dell'est sono degli “oziosi” gravitando in una zona di inattività o futilità obbligata”.

L’indolenza è un’assenza di movimento in sé, movimento verso la vita, l’esistente, movimento verso l’alterità come tale, l'attraversamento di un tempo vuoto, preda di un’amnesia totale. E’ anche l’indifferenza o l’assenza di pensiero, come fissare lo sguardo sul nulla, la non-attività, l’impotenza.
La dispersione d'un tempo vago, d'un dolore indistinto, il fastidio nell’anima;
l’indeterminato, una concentrazione sfuggente, futile.
Tale futilità la si persegue, la si pratica, la si misura contro sé stessi portandola addosso, inevitabilmente, nell’impossibilità di fare altrimenti. In un sistema come quello occidentale dove si deve essere produttori di_ implicati come parti funzionanti in un meccanismo finalizzato alla produzione massimale di un profitto, tale non-azione obbligata,
il dis- funzionamento latente di un sistema nel passaggio verso l’indeterminato non può essere compresa né facilmente accettata.
La sospensione dolorosa, l’indolenza pensosa che precede la venuta di qualcosa tanto fugace quanto effimero, sfuggente o inaspettato. 


Alina Szapocznikow

“La mia opera affonda le proprie radici nel mestiere della scultura. Per anni mi sono interrogata a fondo su questioni riguardanti l’equilibrio, il volume, lo spazio, l’ombra e la luce fino a giungere al momento inevitabile d’assistere, assistere e resiste, alla caduta d’una vocazione in una presa di coscienza diretta sul mio tempo. Sono stata conquistata dal miracolo della macchina nella nostra epoca, e, con essa, dalla bellezza, dalle rivelazioni, dalle sue registrazioni della storia. Verso quella ancora i sogni e la domanda del più grande pubblico.

Produco oggetti bizzarri. Tale mania assurda e convulsa all’azione prova la presenza in noi d’una parte sconosciuta e segreta, necessaria alla nostra esistenza, quello che diverrebbe un gesto unico rivolto alla portata di tutti. Se tale gesto basterà a sé stesso sarà la conferma della nostra presenza come esseri umani.
Il mio gesto si rivolge al corpo umano, questa zona “erogena” totale con le sue sensazioni più vaghe, più effimere. 


Esaltare l’effimero nelle pieghe del nostro corpo, nello sconquasso del nostro passaggio su terra. "
Attraverso le impronte del corpo cerco di fissare nel polistirene trasparente momenti fugaci della mia vita, i suoi paradossi, il suo assurdo. Ma la sensazione provata in modo immediato e indistinto resiste a ogni facile identificazione. Spesso, tutto è confuso, la situazione ambigua, i limiti sensoriali cancellati. Malgrado ciò, persisto a tentare di fissare nella resina le impronte del mio corpo. Sono convinta che di tutte le manifestazioni dell’effimero il corpo umano sia il più vulnerabile, l’unica fonte di gioia, di sofferenza e verità a causa della sua essenziale messa a nudo, ineluttabile quanto inammissibile a livello della coscienza.” 



Sanja Ivekovic’

“ Gli artisti jugoslavi degli anni sessanta, settanta non erano dissidenti, la loro non era lotta contro il totalitarismo comunista ma la critica a un governo burocratico irrigidito contro ogni forma di cambiamento.” Domandavano “un’arte rivoluzionaria adeguata a una società rivoluzionaria”, e il loro progetto di “democratizzare l’arte”, di ispirazione radicalmente socialista si avvicinava alla necessità sviluppata in occidente di prendere le distanze dalle istituzioni , dalla logica di mercato stabilendo, tuttavia, una comunicare con la cultura di massa. Di qui il paradosso di un linguaggio artistico radicalmente nuovo e comprensibile solo da un pubblico limitato.

Gli esponenti della nuova pratica performativa nella ex- Jugoslavia socialista erano principalmente uomini. Negli anni ’70 solamente qualche donna era visibile sulla scena artistica.
“ Nel mio lavoro mi sono preoccupata fin da subito della questione dell’identità e del ruolo dei generi nella società. Ho cercato di fare della mia posizione in quanto donna in una cultura patriarcale il riflesso a tale questione. La politica della rappresentazione del femminile nei mass-media era un tema ricorrente delle mie prime opere. Mi sono presentata pubblicamente come artista femminista e, in questo senso, la mia posizione era veramente specifica”. 


“Personal cuts”, 1982 


Il viso è coperto da una spessa calza di nylon scuro serrandolo ermeticamente.
Mani nel corso dell’azione performativa tagliano meticolosamente il materiale rivelando progressivamente la nudità del volto al di sotto, fino a svelarne la pelle, il tessuto dell’epidermide al tatto. Immagini ufficiali di stato e brevi sequenze televisive si intercalano in montaggio all’azione.

Viso serrato da un nylon trasparente, visibile a occhio nudo ma lasciando trapelare al di sotto i tratti della figura. Il processo di liberazione del volto, aprire buchi, tagliare il tessuto per permettere all’individuo di respirare, appare come un atto di auto-aggressione, un gesto di coercizione obbligata al momento in cui le forbici si avvicinano in modo freddo, impersonale, indeterminato quasi al viso suggerendo una forma di auto-violenza implicita. 


Freddezza, impersonalità senza commenti, al limite senza emozione con la quale l’atto è perpetuato, lentamente, in silenzio, mentre i montaggi video si intercalano irrompendo come intermittenze rumorose, infrangenti di suono dall’esterno.
Sono estratti ufficiali di parate di stato in ex- Jugoslavia ma anche immagini che arrivano come incursioni assordanti dal mondo occidentale, la musica rock per esempio, oppure scene di convenzione sociale, feste mondane, nel pieno dell’etichetta;
Esiste una serie di stereotipi femminili o identitari contro i quali l'artista compie un atto di rivolta, di presa di posizione critica.
Presa di distanza contro un’identificazione forzata,
violenza imposta dall' auto-regolamentazione del sistema, si rivolta contro investendo il singolo nel suo atto di asserzione solitaria.



Tibor Hajas


Il performer deve mettersi in questo stato di “rischio contro sé stesso”, dentro un gesto che non è di sua pura fabbricazione ma che riceve come un “atto di grazia”, che non ha scelto ma per il quale accetta d’essere scelto. E’ una marionetta che, in quel momento , si riempie di spirito e prende vita, una vita diversa da ogni altro stato d’esistenza: intensa, bruciante come qualcosa di estraneo, incomprensibile, imperfetto che sgorga in lui in segreto nell’oscurità”.
La performance è un gesto d’addio, un tentativo impossibile di partire in una situazione in cui non c’é più nulla da lasciare. Tutto resta separato, dietro di lui, dietro le frontiere che lo separano dai nemici, dai regni ostili, poi gli uni dagli altri.”
  “La presenza fisica del performer agisce come una forza organica, sensuale, in una sorta di eccitazione in stretto contatto alla fascinazione per la morte”. 


Analytical destruction, Ungheria, 1976, fotografia.

 Negativi bruciati in seguito a un processo di solarizzazione surrealista, metafora di una città preda d’una sorta di malattia o disintegrazione latente nel suo tessuto, espandendosi come una macchia bianca, divorante sui tratti finiti della rappresentazione.
Nel primo cliché la città é vista dall’alto in immagine panoramica, sullo sfondo, come se qualcuno con una mano o un dito l’indicasse. Un piccolo foro simile allo sparo di un colpo tirato da un’arma da fuoco. Da quel foro s’apre una macchia bianca, riflesso senza immagine, opaca, circondata da un bordo rossiccio simile a un coagulo di materia sanguinea, a partire dal quale la macchia si espanderà nei cliché successivi.
La città sullo sfondo è progressivamente cancellata, ingoiata dalla chiazza opaca al cui centro si aprono linee, venature, fessure o crepe come fosse un vetro esterno sul quale è stato gettato un sasso o una pietra;
una sorta di specchio infranto attraverso il quale si guarda come dal vetro di un’auto in lontananza l’immagine sbiadita e distante d’una città dell’est Europa, di qualsiasi città si tratti, Zagabria, Bucarest o Belgrado senza distinzione.
Nell’ultimo cliché l’effetto di solarizzazione ha investito tutte le forme figurative semi-cancellate sullo sfondo, in primo piano dilatandosi questa sorta di informe
opaco e senza confini attraversato da schizzi e linee rossicce espandendosi dal punto focale della fessura.