lunedì 29 marzo 2010

Danza contemporanea: "Acqua" Carolyn Carlson, Joby Talbot, Alain Freischer,Teatro di Chaillot, Parigi






Trasposizione della poesia “Acqua” di Carolyn Carlson
“Ciclo infinito di creazione e distruzione”, occhi lavati via dal pianto, scorrimenti d’oceano, di fiumi e di correnti.
Eco di pioggia cade sui nostri visi bagnati, nuvole ricolme d’acqua o di liquidi al punto di colare, liquefare, versarsi in tutte le direzioni.


Trasparenza incolore di melanconia e disillusione;
“Convergenza di riso e pianto”, di quello che inquina e trasgredisce, come di quello che lava e purifica.

Il fluire di sudore, di lacrime e sangue, di tutti i liquidi corporei che ci traversano goccia a goccia distillandosi attraverso le vene.
“Vibrazioni di forze microscopiche”, sotterranee, apparentemente innocue o inesistenti irrompendo incontrollate sull’epidermide della nostra pelle.

Acqua dolce-amara, salata, stagnante o morta; riflessi immobili d’ acqua,
distese d’acqua lagunare arrestate dagli istmi di terra infiltratosi tra i suoi antri a pochi chilometri dal mare.

Acque verdi, stagnanti e ferme, non bonificate come il resto delle terre,
rimaste lì come un residuo lagunare tra la pianura e il mare;
una vegetazione spessa, selvaggia, irta sorta quà e là in modo disordinato come cannette, arbusti, cespugli o piante d’acqua.

Distese troppo stagnanti e spesse, perturbanti e immobili perché un’immagine possa venire a riflettersi, a delinearsi;
specchi d’acqua marina luccicanti e vellutati dove le figure si cercano, si ritrovano, si rispondono.


Acque a riposo, placate e limpide dove ci si ritrova, ci si rifugia, ci si lascia cullare come in un’insenatura o baia naturale scavata dal mare, dalle sue interne correnti.



Rovesci d’acqua improvvisa , piogge violente e inattese, riversandosi contro, cogliendovi impreparati, impregnandovi gli abiti, le maniche e i cappotti contro gli ombrelli che non avevate previsto, facendovi scivolare su un suolo umido sotto le scarpe.

"Liquido organico, dentro i corpi", nei liquori, nei liquidi di sangue, sudore e urine che ci traversano.
Limpidezza, trasparenza d’acqua luminosa e brillante,  violenta e incontrollata.









Immagini scritte dallo spettacolo "Acqua"

Primal
Corpi evanescenti in marcia ipnotica. Avanzano lentamente, si spostano simili a figure anonime nell’oscurità. Fluttuazioni d’ onde simili a onde magnetiche sono caricate d'energia elettrica, luminosa, ondulatoria; rifrazioni incandescenti volgono a nero sullo schermo di fondo.

Nascita dalle acque: il corpo é lentamente svelato da un involucro, avvolto in un tessuto di nylon bianco, (rilettura indiretta di Botticelli) sollevato e depositato dal bacino d’acqua a terra nella propria nudità,
poi lentamente vestito d’un corto abito nero.
Dischiuso e come avvolto ancora nel calore della nascita.
Luccicante, contro il nero di fondo, la sagoma d'acqua si staglia, incandescente di linee elettriche, sullo sfondo.

Rifrangenze di figure negli specchi si cercano, interrogando le loro immagini contro una distesa d’acqua opaca e senza riflesso.
Là una figura sarà presa in uno spasimo incontrollato, nella scossa frenetica che é anche un battito cardiaco esteso nel tempo e nello spazio, nello sforzo doloroso di venire alla luce,
di nascere a sé stessa. Vista in posizione embrionale, completamente avvolta, raccolta al centro.

Lo stesso ansito ritorna trasformato in un altro quadro, l’acqua profonda, deep water distruttrice, associata alla morte, all’annegamento: la forza violenta, incontrollata che l’acqua sembra celare in sé in un altro frangente.
E' il ripiegamento doloroso, la pazzia improvvisa che afferra un corpo un istante e, insieme, il dolore, l’inesorabilità iscritta in tale evento.
L’essere afferrati da un impulso costringente, molto più antico della ragione, l’istante che vi afferra trattenendovi sul margine di un abisso.


Morte per acqua. Annegamento; rivisitazione del mito d’Ofelia rivisto attraverso la pittura simbolista.La figura femminile è sollevata, portata dai due danzatori e poi trattenuta come sul punto d'essere gettata. Seta, velo, velluto, duttilità estrema della figura ripiegandosi, lasciandosi scivolare, scorrere, fluire, in una sorta di apertura o disponibilità, senza difese.
Ora si abbandonana in una figurazione di dolore ora scivola in una morbidezza infinita e come soggetta all’infinità di un’altra forma .


Acqua come sorgente, fonte di vita. Scorrimento di ciò che libera l’immaginazione, la staticità di tutte le forme in una sorta di infinità del movimento.
 Sono i gesti ampi, selvaggi, liberatori della danzatrice di fronte a un catino di stagno vuoto, immergendo le mani e i polsi, sollevandoli nell’atto di rompere catene o vincoli opprimenti che serrano il corpo a terra impedendogli ogni movimento.
Oppure ancora, é la figura tesa, distesa, allungata nelle braccia e gambe come fosse un corpo elastico, plastico, surreale portato al limite delle proprie possibilità espansive da due partner complementari che lo tendono nello spazio.

L’acqua nutre e libera l’immaginazione, il fluire liquido del pensiero, di gesti inscritti in una memoria antica dei corpi ma é anche l’immagine di impulsi violenti, distruttivi, innati nella forma di queste scosse ritmiche o pulsioni ripetute che prendono atto e si impossessano degli individui in modo incontrollato, agendo dal fondo dell’umano.
Pulsioni di vita e di morte strettamente legate, serrate l’una all’altra in una sorta di passaggio ininterrotto in quadri analogici e successivi.


Violent waters, coreografia collettiva, in un primo tempo investendo unicamente la forza del principio maschile, personifica l’oceano come forza primordiale, insorgente dalle acque,
qui scavando in una sorta di wild instinct vissuto in forma singolare per ogni danzatore. Riemerge come forza dell’eros nell’incontro tra il principio maschile e quello femminile, in onde convulse e gesti avvolgenti nell’incontro fisico tra uomini e donne.



Pure waters, l’acqua purificante della conclusione.

Lacrime e sale dell’oceano, città distrutte da carri armati, guerre impersonali.
La sospensione visiva dell’immagine video, aperta, analogica, slegata, lascia circolare il pensiero resistendo a ogni facile identificazione contro la logica dell’incatenamento narrativo.

Una serie di figure si aggirano simultaneamente sulla scena in rapporto diverso all’acqua:
dal disseccamento per assenza d’acqua, al gesto estremo di dissetare qualcuno facendogli trangugiare a forza violenti sorsi d’acqua, immergendolo malamente per rigenerare un corpo privo di vita.
Una figurina vestita in nero si aggira spasmodicamente sulla scena in diverse entrate e uscite successive.
Un corpo femminile chiuso dentro un antro di vetro trasparente é visto danzare dentro un tubo verticale in nylon richiudendosi sopra di lui.
Ritmo lento, dolce-amaro, ipnotico e avvolgente nel silenzio che divora.
Un’altra danzatrice lotta per venire alla luce, per emergere dalla plastica di nylon che ricopre e serra a metà il suo corpo nudo.

Oceano: l’asprezza amara del sale ma anche il sapore dolce del miele sulle labbra;
invocazione a un’acqua purificante, lavare via gli esseri dalle scorie che li insidiano, li assediano, li deteriorano;
anelito a una purezza ritrovata.
Strascico rosso come d’un nastro disteso a terra, figura femminile intessuta avvolgendosi in ampi gesti di risveglio.







lunedì 22 marzo 2010

Ellissi





















Permanente sensazione di sospensione nel passaggio per arrivare da qualche parte;
occhi bendati, passaggi transitori verso l’altrove, vicoli ciechi, perdersi;
perdere la parola, la voce, il senso delle proprie azioni o reazioni quotidiane
il colore dei gesti, la luce dei giorni.
Vedersi sbiadire, scolorare all’aria fino a divenire trasparenti, atoni, non più visibili agli occhi dei sensi.
Perdere qualcuno, sé stessi, la stima o la fiducia degli altri, il tempo, l’abitudine
Lasciarsi sfuggire per ritardo o negligenza,
le direzioni, i vuoti ;
Vagare, perpetuando la stessa sensazione di gravitare in luoghi anonimi, estranei,
impassibili allo sguardo; derive di senso, sensazioni di oblio, di cancellazione.
Topografia di carte immaginarie, carte della terra volte al contrario,
direzioni approssimative, contingenti, incroci casuali di strade e palazzi,
d’edifici e quartieri vuoti, vagamente disabitati, assomigliandosi tutti l’uno l’altro.
Lentamente avanzare, avanzare e retrocedere per scosse disuguali.
Il corpo muovendosi, camminando solo,
il pensiero immobile, sospeso.
Un intero spazio aperto entro un campo immaginario, ampio territorio senza entrate né uscite, gravitante in ellissi tra il luogo reale e quello dei sensi, del sogno o del ricordo.
Dallo spazio a se stessi, poi verso il centro e ancora all’esterno muovendosi in circolo.

Il corpo stretto, serrato in un angolo guardando attraverso l’antro rovesciato d’uno specchio.





Carolina Saquel , dal video
“Le finzioni dell’informe”,
Espace Louis Vuitton, Parigi.

Acqua movente, vortice s’apre verso il fondo.
Rumori provenienti da fonte esterna indefinibile,ora più lievi come mormorii, sibili di vento,
ora minaccianti come stridori indistinti, borbottii di tuoni, gemiti d’esseri umani in lontananza.
Cerchi d’acqua s’aprono a poco a poco sulla superficie generati da piccoli gorghi o sorgenti sotterranee.
I rumori divengono più forti: rotture, agghiaccianti rumori d’oggetti che cadono,
terremoti, tremori, tuoni vaghi e indistinti.

Cerchi d’acqua si disegnano come spirali, ora simili a sabbie mobili.
Gridi, stormire d’uccelli, d’animali selvaggi in lontananza.

Sabbie mobili, moventi d’acqua s’aprono fino a ingoiarci; vortice che si rivela, attira i corpi al suo fondo fino a divorarli, farli sparire nelle sue profondità;
l’indeterminato del nero.
Il mare si richiude sopra di loro.
Visi tristemente divorati,
in mezzo al vivente stati di morte, nel loro proprio silenzio, al di là della percezione.

Fantasma di fusione, di re-immersione dentro un informe originario prendendo corpo di fronte agli occhi. La paura di perdere i confini, di un ritorno alla follia del prima, dentro una percezione, una materia, un corpo senza limiti. Liquidità. La paura d’essere ingoiati, riassorbiti al punto della nostra provenienza oscura.
L’acqua, un vortice che assorbe espandendosi dalle profondità alla superficie in cerchi concentrici sempre più ampi, richiudendosi sopra i loro capi.

Un abisso s’apre, s’allarga e inghiotte ogni cosa. Assorbiti da un’oscurità senza nome.
Là tutto si muove, tutto è acqua. Nell’acqua non ci sono confini.























Volto del presente: istantaneo arresto sull’attuale.
Arresto sull’immagine tra nitidezza e incoerenza. Astrazione e realtà, la ricerca di un altro linguaggio.
Ritorno alla storia. La fine dell’illusione. Primi passi verso l’avvenire.
Shipwreck: frammenti galleggianti, pezzi di imbarcazioni alla deriva;
Misteriosi inizi, la perfezione di un’armonia segretamente scorta.
Inspiegato risveglio.

Sguardo verso l’altrove, il fuori di sé. La conquista della realtà.
Senza fine, una storia senza nome.
Specchio del mondo, biforcazioni, lo specchio altro della mia interna visione.
Luce verso est. Accumulazioni e sperimentazione.
Post- tremore o nuova libertà; tracce di memoria, processi di materializzazione fisica e mentale; gesti manifesti, furiosi, proiezioni silenziose, inverosimili sembianze, somiglianze.
Clima incerto, suolo precipitoso, scivolamenti rapidi, inattesi, accennati e appena schivati lasciandovi la sensazione d’essere precipitati malamente al suolo.
Sensazione di vuoto, di terreno liquido che s’apre sotto i piedi.
Cambiamenti di clima improvvisi, precipitazioni inattese,
la mia interna precipitazione.
Dipingere giorno dopo giorno da mattina a sera, linee e figure non finite, schizzi, disegni vagamente abbozzati, raramente ritratti.


mercoledì 10 marzo 2010

Pergola, Palais de Tokyo, installazione contemporanea, Parigi































































































Pergola nella concezione della mostra al Palais de Tokyo  è  lo spirito che incide e colpisce, quel punto generativo atto a concretizzarsi in una zona di mediazione tra il pubblico e il privato, tra l’interno e l’esterno della "villa " ideale progettata da Le Corbusier a Neuchatel in Svizzera. Il progetto Pergola diviene zona di apparizione, di riappropriazione dello spazio- opere e resti di monumenti eclissati durante il periodo precedente -  che ha investito il Palais de Tokyo.

Pergola, dunque, è metafora di questo spazio di re-investimento, di re-occupazione non nel senso di dominio ma in quello di catalizzare le energie di un luogo seguendo l’emergenza spontanea di forme plastiche nello spazio.

 Pergola: asserzione di libertà, atto di coraggio a simbolo della scarpa enorme, ricostruita sotto forma di scultura dall’artista irakeno all’ingresso del Palais,
la libertà di lanciare una scarpa sulla testa di qualcuno come segno di aperto dissenso assumendone poi le conseguenze,
nello specifico la scarpa gettata sul presidente americano George Bush durante una conferenza stampa nel 2008 da parte del giornalista irakeno Al-Zaidi.

Pergola, ancora, è sistema aperto di tubi pneumatici in plastica trasparente, modulato in una traiettoria labirintica di linee e volumi, aderendo da un piano all’altro ai livelli dello spazio espositivo fino a raggiungere, ad aprire il livello del sottosuolo, normalmente  utilizzato come profondità spaziale e volume inusitati.

Serge Spitzer

Come il titolo dell’istallazione ironicamente afferma, “Pane e burro con l’infinita questione di definire la differenza tra baguette e croissant”,
gli ingredienti si sommano, si mischiano producendo metamorfosi inattese nel corso della cottura. Fondono come burro nel passaggio al calore o solidificano nel corso del processo contrario; lievitano come pane, si sfogliano in strati come croissant, evaporano come acqua passando dallo stadio liquido a quello gassoso.

Trovare questo: trovare modelli che esistono nel sistema di gesti, nell’organizzazione più o meno complessa del nostro vivere quotidiano, semplicemente portandoli a un livello altro di realtà, da uno stadio funzionale a uno plastico, metaforico, attraversati da un respiro di vita, quello che restituisce loro la possibilità di parlare un linguaggio universale.

Il sistema é percorso da due navette messe in movimento da un differenziale di pressione interna dove gli elementi sono mantenuti costantemente in movimento, nel flusso e riflusso del transitorio, incontrandosi o non incontrandosi che accidentalmente. E' il modello di un sistema dove le molecole devono essere mantenute in circolo, in scorrimento continuo per non generare entropia o arresto del sistema.

La metafora è leggibile in molteplici sensi:
neutroni liberi che circolano nella mente,
entità estranee che si cercano all’immagine di un impossibile o difficile dialogo amoroso;
nello spazio, ramificazione o re-investimento di un luogo facendo corpo con la sua ossatura costitutiva;
nel tempo, rilettura postmoderna del senso di un’architettura monumentale sostituita qui da un’insieme di tubature in plastica, all’origine un mpianto pneumatico utilizzato per inviare plichi e telegrammi. Tale sistema  estraniato dalla propria intrinseca funzionalità viene  fatto entrare in uno spazio espositivo; è chiamato a esporsi come la sola emergenza o riapparizione possibilenell’eclissi della modernità e dei suoi discorsi fondanti.

E’recupero di materiali assolutamente “bassi”, volutamente non d’arte”, marginali, trasportati altrove, metaforizzati e lasciati lì a esporsi;
E' una macchina autonoma che si rivela in sé, che genera pensiero in modo autosufficiente al di là di ogni intenzionalità predefinita. E' il solo ritorno possibile come forma di recupero, di reinvestimento di uno spazio museale precedentemente svuotato.

Tale costruzione volatile, effimera di tubi di plastica trasparenti nasce come differenziale dell’opera d’arte moderna.

“ Le mie sculture sono organismi autonomi, monumenti effimeri che posseggono in sé stessi le


condizioni ideali d’autodistruzione”. (Spitzer)















Valentin Carron

Un muro rifrangente si prolunga lungo tutto l’estensione dello spazio neutro assegnato all’artista. Il muro continua in una forma  cubica; spigoloso, granitico, spesso, come un muro d’esterno d’un edificio è trasportato qui dalla città natale di Valais in Svizzera.

La Svizzera , afferma Carron, è vista d’abitudine come un luogo di tradizione, ma in realtà possiede una storia recente e un folklore in gran parte fabbricato su misura per consolidare un’ideale unitario di nazione alla fine del XIX secolo.

Oggetti pseudo-autentici in legno, da chalet a cucchiai, dimostrano questa falsa autenticità ricostruita per garantire una dimensione rassicurante dell’identità nazionale.
L’artista gioca sulle referenze al modernismo in arte posizionandosi in una zona di rilettura, di rifacimento ironico del modello, di critica degli assoluti di verità, identità e finzione:
finzione nasconde una propria autenticità, demistificazione di una suddetta verità, decostruzione di categorie identitarie assunte come fisse e immutabili.

Il muro prolungato contro la parete di fondo bianca, neutrale, taglia nettamente lo spazio della galleria. Da una parte si ritrovano i "prestiti" nello spazio vuoto dell’allestimento: sculture in copia conforme mappano gli stereotipi dei monumenti della città natale messi in scena in resina artificiale anziché in granito. Caron evoca come referente l’episodio biblico del“noli me tangere”, dove il corpo reale di Cristo, ricomparso a Maria Maddalena, diviene referente, immagine, corpo de-materializzato dopo la resurrezione.
Dall’altra parte del muro, una scultura ironica fa pensare a un finto Brancusi evocando, come nell’installazione precedente, il non-incontro tra due estremità marmoree tendenti l’una verso l’altra in un movimento infinito senza mai ricongiungersi.

Se il muro da un lato è barriera, spigolo, limite respingente, muto al tatto e allo sguardo, cio’ che arresta, intercetta, rompe e blocca il sistema impedendo la circolazione, dall’altro lato è il limite contro il quale si rifrange il circolo di citazione, d’artificio, il gioco intertestuale di rifrangenze ironiche, riportando la cosa al piano della realtà concreta, dello spazio fisico contro il quale le vuote astrazioni vengono a infrangersi.


Un piccolo dettaglio solo viene a distrarre la monotonia della scena: un serpentello disegnato quasi per sbaglio come un graffiti su un muro si insinua nella fessura che resta aperta tra la parete di fondo e la pietra dominante quasi evocando l’accidentale, l’irruzione incontenibile del gioco,
la risata che sorge spontanea, inattesa, liberatoria, riportando la monumentalità della cosa alla semplicità del quotidiano, alla leggerezza dell’esistenza,
infine l’apertura ironica che ridimensiona la seriosità dell’evento,
il peso della tradizione, della cultura o di ogni sovrastruttura che incombe sull’individuo fino a schiacciarlo.

Il muro come scultura invade, chiude, divide e delimita il sito espositivo; occupa uno spazio fisico fino a renderlo spazio simbolico, politico, altamente ri-concettualizzato nella nostra post-modernità. Pensiamo ai muri politici, il muro di Berlino in primo luogo, che ha segnato la storia occidentale tagliando una città, un paese, quale la barriera militare che ha separato un sistema, un’ideologia da un altra durante gli anni della guerra fredda.
E ancora ai muri dell’apartheid, in Cisgiordania e a Gaza, isolando la popolazione palestinese, interi villaggi le cui terre venivano confiscate per impedire loro di raggiungere il territorio israeliano.

Pensiamo ai muri religiosi, al muro del pianto a Gerusalemme, luogo sacro, antichissimo, di contemplazione nella religione ebraica, dove i fedeli si raccolgono tacitamente in preghiera; poi ai muri corrosi, in pietra a vista, le porte o le rovine delle costruzioni romane che si disegnano qua e là in mezzo agli edifici moderni nelle nostre città italiane.

I muri delle chiese romaniche eretti nella solidità della pietra,
nella presunzione di una materia eterna, indistruttibile nel tempo, appaiono impressi di uno spessore, di una orizzontalità a contatto con il suolo e, ancora, ancorano l’uomo dalla sua  minuscola posizione alla grandezza dsmisurata del cosmo rispecchiando nelle loro proporzioni  la relazione dell’uomo a Dio nel medioevo. Infine,  pensiamo alla sottilità delle vetrate gotiche filtrate di luce, riflesse di colore quando il sole vi passa attraverso nelle grandi cattedrali ; le forme allungate, sottili delleloro  arcate ogivali tendono verso l’infinito in un'eterna elevazione all'assoluto.

martedì 2 marzo 2010

Esther Shalev-Gerz, Video, Galleria Jeu de Paume, Parigi





















Sound Machine

Figure proiettate sullo sfondo di una fabbrica virtuale ricostruita in 3D, separate dalle parole che pronunciano trascritte in frammenti ai lati.





























Il rumore è assordante, la prima settimana, la seconda, la terza sempre meno; continuando nel tempo ci si abitua. Vivere nel suono lo fa scomparire, lo rende invisibile, non più percepibile nella durata, simile a un silenzio che stordisce.
Rumore potente, la consapevolezza scompare. L’arresto arriva come uno shock improvviso.

Camminare, volgersi intorno, dentro il suono, spostarsi nell’oscurità attraverso quello.

Ricordarsi come d’un moto ripetitivo, monotono, ipnotico fino allo stordimento, lo smarrimento dei sensi, tuttavia, mai spaventoso.


Tacitamente guardare, osservare le bande tessili per reperire i fili mancanti, per localizzare l’errore, la smagliatura nella rete discendendo fino alla decomposizione della struttura, nella trama ordita dalla macchina. Non parlare mai del suono eppure averne coscienza,
percepirlo tutto il tempo come un brusio di fondo.

Essere nel rumore, in un rumore troppo forte con le orecchie chiuse, sigillate all’esterno.

Bisogno di gridare, di sentirsi vivi, vicini agli altri, d’ essere uditi.

Riconoscere quel rumore anni dopo.

Infinite macchine tessili: essere colpiti da un suono percuotente dritto dalle vostre orecchie fin dentro le vostre teste.
Camminare fuori, continuare a sentire dall’interno attraverso i muri.
Domandarsi come la gente possa sopportare una tale trepidazione, tacitamente; tremare ancora sentendo il martellio costante, il martellamento dal soffitto alle pareti.



Suoni ritmici ora, piuttosto simili a musica. Inimmaginabile lavorare in tale stato. Ammettere che tutto sia scomparso. Voler correre fuori, camminare rapidamente, parlare con qualcuno.

Suono filtrato e modificato attraverso il tempo e lo spazio. Video proiettato di immagini silenziose, di volti indeterminati, lentamente scomparendo, affondando nel silenzio.

Costruire macchine tridimensionali di suoni partendo da impronte di macchine reali impresse su carta. Essere riesposti al senso differentemente.
Le macchine ancora operano nei musei re-inventando il funzionamento di nuovi testi.


Echos in Memory

Hall centrale del National Maritime Museum di Greenwich. Una pittura murale dipinta sul muro di fondo di cui resta oggi l’effigie vuota incrostata alla parete. Ventiquattro immagini fotografate a partire da sculture virtuali in 3D, rappresentanti ventiquattro donne, artiste o scrittrici che hanno ispirato la fotografa. Voci sparse, reazioni del personale del museo alle storie che Shalev-Gerz racconta.




















“Con le fotografie saranno in grado di colmare i vuoti, di trovare immagini anche quando le immagini non esistono". Aspettano che il pensiero si proietti o venga a proiettarsi, indirettamente, attraverso quelle.
Stanno cercando di fare un oggetto d’arte o semplicemente una descrizione?

E’ una navigazione completamente basata sullo sguardo. La maggior parte del centro volge intorno all’origine. E’, allo stesso tempo, una complicata storia d’eredità.
Il passato e il futuro si proiettano qui nel presente di uno sguardo.
E’ un luogo straordinario per guardare l’impero, la storia occidentale criticamente.

Sono qui da trent’anni e non ho mai visto fantasmi. Voci dicono che Artemisia sia passata di qui. Alcune persone raggiungono questo statuto iconico. Nessuno ha mai visto tante personificazioni d’una donna. Se pensi che gli edifici siano registratori di memoria, incisori di tutto quello che accade e che nel loro tessuto mantengano iscritta l’impronta degli Eventi, allora le persone diventano quasi degli intrusi più che dei reali visitatori.

E’ una cosa ed, è, allo stesso tempo, un simbolo.

Le persone sono molto attaccate a quello che pensano essere la verità, la loro piccola, eterna, immutabile verità, fabbricata a loro misura.

D’estate, quando la luce passa, si infiltra e invade ovunque, il luogo appare completamente differente.

Penso che una cosa che le persone amino, qui, sia osservare il suolo, in questa hall immensa, fredda e immutabile in sé, d’una freddezza immobile fatta di marmo, della materia stessa di tutte le cose passate, estinte o prive di vita, immobilizzate nei musei o nelle cattedrali, incise in forme circolari, in decorazioni pretenziose o dotate d'una loro interna virtuosità barocca.