martedì 24 aprile 2012

Matisse, “Doppi e serie”, Centro Pompidou, Parigi














Il pari, il doppio, la copia d’un lavoro mai identico a sé stesso, il rifacimento a distanza di pochi mesi d’uno stesso soggetto appare nel lavoro di Matisse come una forma di rispecchiamento, del sé come della pittura , tradotta in termini puramente plastici nella variante temporale.  La sua pittura, costante processo d’auto-riflessività non smette di confrontarsi alle diverse suggestioni estetiche che s’ affacciano_ divisionismo, fauves, stilizzazione, l’arte astratta_ un’influenza ora più presente d’un'altra che gli permette di mettere alla prova, sperimentare o esplorare il modello implicando diverse risposte o varianti rispetto al medesimo.Stesso motivo, stessa cornice, momenti differenti ravvicinati nel lavoro seriale, ora distanziati nel tempo danno vita a sdoppiamenti, diversi modi d’essere del soggetto nella pittura ritornando a opposizioni emblematiche quali interno e esterno, abbozzo o lavoro finito, sintesi o espansione d’un motivo,  visione a distanza o dettaglio che riassorbe su sé tutta la scena.

In Lusso I e II , due opere del 1907 riprendendo il tema classico delle bagnanti su uno sfondo naturale, una tela é il doppio dell’altra, la copia dell’altra, ma la prima é ancora vicina al naturalismo espresso da una forma plastica, in pieno volume che corregge il semplice apparire retinico, ingannevole  della visione impressionista nella piena presenza dell’oggetto in una forma idealmente data come in  Cezanne. La stessa scena ritorna nella seconda tela in un trattamento molto più vicino all’arte moderna, completamente anti-naturalistico, nell’à plat unificante del colore dato in accordi tonali  tra le diverse parti, nell’appiattimento delle figure portate in superficie, nelle forme nitide, chiare, neutrali, stagliandosi iconiche nello spazio, opponendosi o quasi staccandosi nettamente dal fondo. Molto più presente é qui la nozione o l’idea di movimento nel modo di vedere le figure, come nei rapporti tonali che disegnano la composizione in un’armonia voluta.

Nel 1912 Matisse lascia il grigiore invernale di Parigi per imbarcarsi a Tangeri dove dipingerà alcuni paesaggi in serie nel giardino della villa Brooks.
Impronta, insorgenza sensibile della natura lussureggiante di Spagna, questi quadri nascono come forme espansive, rigogliose di vegetazione nell’impulsione d’un motivo immanente, immediato di palme, tronchi e fogliame espanso sulla tela.
Ascesi di colore-verdeggianate su fronde chiare aprendiosi a raggiera, ora cascata di verde, viola e indaco per approfondire l’ardore di quella prima sensazione.
   
Capucines à la danse I e II

Strano come il gioco tra abbozzo e forma finita appaia rovesciato nella nostra percezione a posteriori  là dove la fluidità limpida, luminosa della prima versione nata come schizzo resta oggi più pregnante della tridimensionalità accentuata in diagonale della seconda dove le figure si stagliano nette, stilizzate contro il fondo. Matisse sperimenta qui come se una pellicola fotografica in fase di sviluppo fosse sottoposta a un filtro irradiante chiarificatore nel primo caso , poi a uno oscurante, argenteo, blu- cobalto nel secondo. Sperimenta con il colore in questa immersione in qualità cromatiche differenti dove le figure stilizzate, ricondotte a silhouette plastiche si immergono, si muovono. Tale bagno di luce fa che forme identiche nei contorni reagiscano in maniera differente, mobilitino e cambino la qualità della composizione: più leggere, fluide, sinuose e appena abbozzate in un caso, più marcate, spigolose, iscritte in un rosa anti-naturalistico, tese in una circolarità tridimensionale e fittizia nell’altro.

Tra il 1914 e il 1915 sono tre ritratti dello stesso personaggio femminile, là dove la figurazione del viso per Matisse è mezzo fondamentale per esprimere la gravità, la permanenza dell’essere umano contro la qualità fugace, le apparenze mutevoli e effimere dell'esistenza sensibile.  Nella prima versione la figura è integra nella solarità altera del volto, distante e luminosa a mezzo busto, vista nell’armonia dell’abito rigato che ne disegna elegantemente il profilo in linee  verticali, nel cappello nero adornato di fiori, della compattezza d’insieme della sua volumetria.
Nel secondo ritratto,  è il volto che prende il sopravvento con le sue ombreggiature, macchie, zone d’oscuramento o di chiarificazione; la pesantezza, la pregnanza del volto come tale, l’ interferenza emozionale del pensiero sui suoi tratti, le sue zone di imperscrutabilità, d’assenza che traspaiono attraverso la sapiente distribuzione dei valori tonali. In “ testa bianca e rosa”, è la griglia del cubismo, nell’influenza di Juan Gris a imporsi come gabbia  geometrica della figura. Il volto geometrizzato, intrappolato in questa decomposizione analitica astratta conserva tuttavia nello sguardo l’intuizione sensibile dell' artista , questo elemento d'appercezione immediata,  folgorante tanto più presente nel contrasto con l’armatura cubista dove la figura è imprigionata.








Visioni di Notre-Dame (1914)

Due interpretazioni  dello stesso, un medesimo scorcio in vista frontale sulla cattedrale, naturalista, leggero e fiabesco il primo, geometrico, epurato, in fuga prospettica verso una linea di surrealtà il secondo. Le due versioni portate da una stessa suggestione smaterializzante appaiono feriche e irreali, ma la prima apre lo spazio a una visione prospettica chiarificante, lascia retrocedere il motivo centrale della cattedrale sullo sfondo dandosi come globalità estesa e tridimensionale, visione rassicurante d'una realtà immanente, sapientemente dosata in pieni-vuoti, contenuto e contenente insieme, tale l'estensione d'un respiro che ridistribuisce i volumi in profondità. Nella nuova versione, lo spazio dell'esterno si riassorbe su un'unica superficie, uno squarcio di muro della cattedrale, come ricentrando, riavvolgendo il tutto su quell'unico punto. Varco di luce, punto di fuga surrealista, passaggio verso un'altra realtà. La tela-superficie é percorso tracciato in linea obliqua sul reticolo-cosmo, linea conducendo verso un salto nel vuoto: varco luminoso segnato da una macchia verde smeraldo-lucente.

E' ancora il rapporto tra interno e esterno, tra la necessità, da una parte, di creare un'armonia compositiva, una giustezza nata dalla misura dei valori cromatici nella rarefazione del disegno e dall'altra, la forma dell'emozione, dalla sua impronta sensibile, nata dall' impulsione non mediata del sentire. In “boccale di pesci rossi” dunque l'interno della stanza in rapporto all'esterno é ancora in questa visione nitida, serena, distanziata dove il soggetto vede se stesso in un rimando molteplice tra soggettività, messa in opera pitturale e varco aperto dal medesimo verso la misura di un di fuori a lui in relazione. Nella versione successiva una sorta di “close-up”, di ravvicinamento fotografico all'oggetto, interiorizza e deforma l'angolo della stanza, nel semplice dettaglio del vaso espanso, abitato dallo stato interiore dell’artista. Sale come una verticale nera al centro della composizione imponendosi come un’immagine destabillizzante di realtà, occlusiva,  ripresa da una camera mobile in presa discontinua; la vista sull’esterno si chiude d’un tratto, la finestra non rinvia altra visione di salvezza, visione sulla città che questo riassorbimento entro la cellula destrutturante della soggettività .    

Rifare, ripetere lo stesso soggetto in un lasso di tempo breve ma neccessariamente mutato rispetto a un prima, ritornare su un quadro  nell'intervallo d'una differenza iscritta temporalmente significa per Matisse, in qualche modo, approfondire, perseguire, andare più a fondo  in una certa intuizione, fare delle scelte rispetto alle possibilità che si presentano al suo dispiegarsi, avvicinare lo stesso secondo differenti suggestioni stilistiche, ricercare  sempre più una sostanza di realtà dentro l'oggetto, un ordine plastico e sintetico dietro la pellicola effimera, l'appercezione sensibile e immediata degli impressionisti. Nelle rielaborazioni seriali del processo pittorico negli anni '30, “ nudi di donna” per esempio, assistiamo a una sempre maggiore semplificazione ed epurazione della forme. Un'opposizione si disegna allora tra una versione che singolarizza, soggettiva il modello nei tratti unici del suo viso, nelle maggiori proporzioni del suo corpo, nel micro-cosmo del suo essere personaggio partendo da un modello dato. Una versione successiva, al contrario,  chiarifica e sintetizza le forme, elimina i dettagli superflui e la soggettività della figura cercando questa rarefazione di poche linee sostanziali, insostituibili all’armonia d' insieme. Contemporaneamente, amplifica, espande e condensa la portata repentina dell’intuizione creativa su una parte, un oggetto o un dettaglio del quadro eliminado cio’ che allora non é più necessario alla composizione; ne persegue il punto focale o la pulsione che la porta là dove si situa l’irradiazione sensibile, la forza intrinseca del lavoro pitturale.    

  “Temi e variazioni” riunisce 160 disegni realizzati da Matisse nel suo appartamento-atelier d'hotel a Nizza tra il '41 e il '42 ricomprendone le pareti d’una intera stanza. I disegni seguono il processo creativo delle sue composizioni come più tardi faranno le fotografie scattate nel corso delle fasi di sviluppo d’un quadro. L’ atelier matissiano é “camera chiara”,  luminosa della pittura in antitesi a quella “oscura” della fotografia, dove i disegni si lasciano affiorare in superficie fino a ricoprire la lunghezza delle pareti, dal suolo al soffitto, dando la misura della rielaborazione inesausta, della meta-riflessività come preoccupazione costante  insita al fondo delle sue opere.
Disegni a inchiostro iscrivono la sensazione nell'emergenza del momento: l'abbozzo, lo schizzo, ma anche la linea immediata, istintivamente visualizzata sul foglio, linea che chiude, sancisce e delimita, limpida nell'affioramento dell'emozione.   Esiste una  continuità disegnata dalla linea, pur nelle interruzioni dei vari schizzi, nell'atto del guardare l'altro, il modello, e di modificare il proprio sguardo seguendo da lontano l'abbozzo d'un impressione del viso, incerta, ora a distanza ravvicinata, ora cogliendo nuances dello stesso, sfumature dei suoi turbamenti espressivi. Attraverso i vari disegni Matisse cerca questa sempre maggiore fluidità, morbidezza d’una linea continua che estenua le proprie possibilità espressive o riesce a improvvisare liberamente a partire da un modello interiorizzato. Il disegno diviene allora banco di prova, di sperimentazione e deviazione voluta nel fare e rifare del processo creativo.
   
La linea circoscrive, delimita, definisce gli oggetti ma anche li separa dal fondo immersivo in “natura morta alla magnolia”, li restituisce come forme sospese, fluttuanti nel fondo rosso-colore. Li astrae, li essenzializza come il vaso di fiori circolare, a raggiera, nella propria centralità compositiva. Esplosione luminosa, solare, irradiante d’un verde tenue ora trasparente ma rarefatto, condensato, nel contorno sferico che ne astrae l'oggetto.  












“E’ a partire dalla mia interpretazione che reagisco fino a che il mio lavoro non si trovi in accordo con me stesso. A ogni tappa ho un equilibrio, una conclusione provvisoria; alla fase seguente trovo la debolezza dell’insieme, mi reintroduco nel lavoro per quella, entro per la breccia e ri- concepisco il tutto.”

A partire dal ‘35 alcuni quadri sono accompagnati da prove fotografiche nel percorso di realizzazione mostrando la complessità del processo pittorico, il lavoro come instancabile rielaborazione, fase dopo fase, dietro l’apparente semplicità del risultato finale. Osserviamo per esempio le fotografie che accompagnano le rielaborazioni successive della coppia di quadri Blusa rumena e il Sogno.
Nella composizione del  Sogno il viso è là dall’inizio, ben chiaro, netto questo viso dalla dolcezza imperscrutabile dei tratti;  dunque il viso è là dall’inizio nel disegno, ben presente, ma deve essere cancellato, l'artista deve riuscire a escluderne la soggettività per giungere a vedere l’insieme, comprenderne la postura, vale a dire trovare come questo corpo debba muoversi, apparire, visualizzarsi per entrare in accordo, corrispondere alla prima intuizione del viso. Come debba incarnarsi per emergere in quello che la sua immagine interna voglia che sia.
I disegno sono dunque degli “stati sognati” in cui far evolvere la figura, postura avvolta su sé, testa e corpo all’unisono, gli occhi chiusi nella sinuosità della linea di contorno. La sua forma, fusionale, rannicchiata ritrova, infine, la soggettività del viso nella linea melodica della composizione finale.

E’ il motivo, la decorazione del tessuto, nell’abito ripetendosi identica da una tela all’altra a fare da legame tra le due mentre la postura, l’essere della figura femminile cambia, si trasforma completamente. Là dove la prima era ravvolta ad occhi chiusi in circolo su sé stessa, il viso ora é visto frontalmente in un sorriso, lieve, etereo, di suggestione botticelliana rinviando all’ideale femminile d’una bellezza incorporea, soave, al massimo grado epurata di sensualità. L’evoluzione 
compositiva del disegno si incentra sul tessuto della veste dal motivo decorativo sulla quale verrà a sovrapporsi un viso, una sensazione di sguardo . Nel processo di ricerca, Matisse cancella la decorazione del tessuto per trovare la volumetria, la presenza plastica della figura. Ne espande l’ampiezza al livello delle spalle per definire l’accordo con la testa; solo allora puo’ reintroduce il motivo, solo allora, trovare equilibrio tra le varie componenti in accordo alla propria visione interiore. 

Se il colore non é fenomeno puramente esteriore ma contribuisce a esprimere la luce, non solo quella fisica ma anche quella interiore che illumina l’oggetto nell'appercezione dell’artista, dipingere nei grandi “interni” matissiani degli anni ’40 é sentire l'oggetto e, insieme, essere con, immediatamente nel colore. Utilizzare questo potere emotivo, potere di liberazione e ampliamento dalle convenzioni espressive e figurali d’un epoca aprendo la via a uno spazio plastico autonomo, quello dell’arte moderna, dove disegno, colore puro e linea, gli strumenti matissiani per eccellenza, non sono più al servizio d’una realtà fenomenica ma, essi stessi, al centro della pittura, mezzo e misura sostanziale per rapportarsi alla sua interna realtà, alla sua esterna consapevolezza.  Inseguendo questa intuizione interiore, Interno rosso di Venezia nasce come un’emergenza di colore dove poi cominceranno a fluttuare degli oggetti in composizione libera: un tavolinetto sinuoso, un vaso di fiori al di sopra, un bicchiere al suo centro, un piedistallo, un’anfora gialla, un quadro di linee nere e dense sul retro. E la linea scorre fluida, sicura, intuitiva emergendo dal fondo in abbozzi di disegno dalla semplicità disarmante, in una giustezza tuttavia ineluttabile.

In Interno rosso, la potenza del rosso va a riempire gli spazi vuoti, le marcature dominanti delle macchie nere, dai segni spessi d’inchistro della prima versione. E, d’un tratto, nel grande interno rosso, la visione si anima, diviene vivente. Gli oggetti come forme in ebollizione,  molluschi fluttuanti in un vaso di pesci rossi, guizzano in quel bagno invasivo di colore; poi si riflettono nell’arancio d’ un quadro al fondo della tela in una sorta di metadiscorsività totale sull’atto del dipingere.

In “Felce nera” abbiamo  nella prima versione un tavolo, un vaso con una pianta, un motivo decorativo ad esso connesso, un profilo femminile appena tracciato, un fondo rosso, l’angolo di un quadro appena visibile. La nuova versione attinge direttamente da questo fondo rigato in margine da una tela, porta alla sua espansione massimale tale intuizione d’auto-riflessività, la potenza dell’oggetto reale e insieme “l’oggetto-pittura” spinto ai limiti della sua visualizzazione creatrice.

La serie dei “nudi blu” : colore blu direttamente sulla tela contro una linea bianca continua, epurata ma netta del contorno. Pieni e vuoti di figure sono ritagliate direttamente sul colore, circostritte da margini bianchi attraverso riduzioni e collage. La ripetizione in serie appare come una  messa in movimento , l’espansione d’un principio ritmico di composizione jazz;
una linea di danza simulata nella ripetizione del disegno,
la danza ricreata attraverso un lavoro plastico e pitturale.




lunedì 23 aprile 2012

Matisse (I parte): « Scritti e note sull’arte », liberamente tratto...











“Quello che perseguo sopra ogni cosa é l’espressione. Il pensiero d’un pittore non puo’ essere considerato al di fuori dei suoi mezzi d’espressione. Non posso fare la differenza tra il mio sentimento della vita e il modo in cui lo traduco attraverso la pittura.”

“L’espressione per me é tutta la disposizione del quadro: il posto che occupano i corpi, i vuoti che sono intorno ad essi, le proporzioni, tutto quello che vi prende parte”. Un’opera comporta un’armonia d’insieme: tutto cio’  che non ha utilità nel quadro andrà, al contrario, a nuocergli. Ogni dettaglio superfluo andrà ad occupare il posto d’un dettaglio essenziale. 

Linea del disegno portante, deve possedere una forza d’espansione dando vita agli oggetti che contorna, delimita, chiude con il proprio tratto. 
“Voglio arrivare a questo stato di condensazione della sensazione che crea il quadro. Potrei accontentarmi della prima impressione ma, dipingendo un corpo, vorrei infondergli qualcosa di più, condensare il significato di quel corpo cercando le sue linee essenziali. Sotto la  successione dei momenti fugaci che compongono l’esistenza superficiale degli esseri e delle cose rivestendole di apparenze mutevoli, si puo’ cercare un carattere più vero, più sostanziale che l’artista perseguirà per dare alla realtà un’interpretazione più durevole.”

Tutto parte dal pensiero, dalla concezione dell’opera. E’ necessario avere, a un certo punto, “una  visione netta dell’insieme”, vale a dire, ogni cosa deve trovare un proprio posto, tutto deve essere combinato, inserito come in un meccanismo perfetto e funzionante, a qualsiasi distanza lo si guardi. Deve esserci nel quadro sotto l’apparente affiorare e intersecarsi di linee un ordine, una chiarezza e il senso d’una necessità.

“Il lato espressivo del colore si impone in modo puramente istintivo”. Per restituire un paesaggio autunnale cercherò di ricordare quale vibrazione colorata corrisponde a quella stagione ispirandomi alle sensazioni che essa risveglia: la purezza gelida del cielo, d’un blu siderale come le sfumature indefinibili del fogliame d’autunno. Dolce e caldo come il prolungamento dell’estate oppure fresco, con un aspetto aspro e pungente e alberi ocra giallastri che già preannunciano l’arrivo imminente dell’inverno. La scelta dei colori non ripone su alcuna teoria predeterminata  ma sull’osservazione, il sentimento, l’esperienza della mia sensibilità.

“La figura: quello che mi permette di esprimere al meglio il senso quasi religioso che posseggo della vita”. Cerco in un modello, tra le linee del suo viso, il carattere permanente, la gravità, la significazione che persiste oltre ogni cambiamento dell’ essere umano.

“Un’arte dell’equilibrio, della purezza, della tranquillità senza soggetti inquietanti che restituisca questa pacificazione interiore”

“Ci sono pittori che lavorano direttamente a partire dalla natura e altri puramente appoggiandosi sull’immaginazione”. Non credo che bisogna scegliere uno di questi due approcci a esclusione dell’altro; ho bisogno della presenza d’oggetti per ricevere sensazioni e per muovere le mie facoltà creatrici nella potenza e vitalità d’una visione arrivando direttamente dalla natura, capace di tornare più volte sul medesimo stato di spirito, ricordandolo sensibilmente per approfondire e continuare il lavoro.


Una pittura della luce, del lato luminoso dell’essere umano ricercando questa armonia di composizione dove nessuna linea o tonalità colorata si potrebbe escludere senza che venisse meno l’unità. Algebra perfetta di linee essenziali, figure immerse nel colore,
ogni cosa trovando il proprio posto,
li’ perché definita nel suo dover essere, ordinando il caos nella creazione.

“ Non la riproduzione della natura ma la “semplificazione delle idee nella plasticità delle forme. Attraverso i mezzi più semplici  permettere al pittore di esprimere, oltre la realtà data, tutta la sua visione interiore.”

“Prendo dalla natura quello che mi è necessario, un’espressione sufficientemente eloquente per suggerire quello che è nel pensiero. Combino minuziosamente descrizione e colore in una condensazione alla quale tutto occorre”. Riflessione e amalgama.

Dipingere una figura femminile: cominciare a disegnare grandi masse esagerando le linee tra l’addome e gli arti per affermare una posizione in piedi. I vuoti possono servire da correttivi. Sapere che una linea non puo’ esistere sola ma deve condurre sempre a un’altra, ed é in tale rapporto di continuità che volumi sono creati. Dare agli elementi arrotondati la loro forma, cercare la pienezza dei loro contorni. Non dimenticare le linee di costruzione centrate sulle spalle e il bacino, come quelle delle gambe, delle braccia, del collo e della testa.
Ogni linea deve avere la propria funzione: questa conduce dal torso alle braccia, quella dal bacino alle gambe, un’altra prosegue lungo tutta la colonna dalla testa ai piedi, dalle radici del corpo che affondano nella terra all’estremo del capo che si proietta in alto verso il cielo.    Ogni linea deve poter ritornare idealmente a un centro altrimenti il disegno non avrà unità. Se linee di fuga partono in tutte le direzioni senza potersi arrestare, il centro deve restare prioritario.

“Una linea curva unicamente, dalle sopracciglia alle spalle,  dal bacino ai piedi può costituire un disegno. Spesso il carattere specifico d’una curva è più fortemente marcato nel contrasto con la linea dritta che l’accompagna. Le linee possono costruirsi  sull’armonia o il contrappunto come in musica.

Pittura: macchie di colore, possibilità di composizione.
 Chiudere gli occhi, presentire, immaginare, visualizzare il quadro.
Mettere tre o quattro colori certi, aggiungerne un  altro, mettere la tela da parte, visualizzare ancora, ricominciare. Costruire con rapporti di colore ravvicinati equivalenti ai rapporti tonali che esistono in musica.
Non rendere l’ oggetto esterno ma restituire la forma dell’emozione, la pregnanza sensibile che ha risvegliato in noi.
                                                                                                                                   
“Un quadro é l’accordo di ritmi colorati ed é cosi’ che posso trasformare una superficie che appare rosso -blu-nera in un’altra che appare bianca -rosa-verde. Stesso quadro, stessa sensazione presentita differentemente là dove  i ritmi hanno cambiato.”

“Sento attraverso il colore, è dunque attraverso tale mezzo che la mia tela è sempre costituita”.

“ Rielaborare, studiare, interiorizzare il modello in modo da averlo sufficientemente in se per poter improvvisare, lasciar correre la mano rispettando la grandezza e il carattere sacro d’ogni cosa vivente”. L’arricchimento incosciente dell’artista è fatto di tutto quello che vede, assorbe, assimila intorno a sé come d’ un alone luminoso, ora greve, oscurante, disfacendosi a tratti fino a penetrare in onde percuotenti, discontinue in sé per potersi tradurre pitturalmente oltre la sola mediazione razionale.

“Solo la forma plastica ha vero valore: la bellezza del quadro proveniente dalla lotta dell’artista contro i propri mezzi limitati d’espressione”.
Trovare uno spazio plastico attraverso il colore uscendo da una pittura dell’intimo, uscendo da un’imitazione della luce esteriore.
Provocare la luce, trovare accordi di colore come fossero accordi musicali.

 “La maggior parte dei pittori hanno bisogno del contatto diretto con gli oggetti per sentire che esistono e poterne riprodurre le loro condizioni fisiche, cercando una luce esteriore per vedere chiaro in essi. L’artista o il poeta posseggono una luce interiore che trasforma gli oggetti in un mondo sensibile proprio, in un mondo vivente,
in sé stesso  un segno infallibile della divinità, del riflesso della divinità."






sabato 7 aprile 2012

Immagini da "La casa della fuerza", di Angelica Liddell ( Odeon Teatro dell'Europa, Parigi)










Si scambiano confessioni d’una banalità lacerante, sedute a un tavolo di bar o d' osteria sullo sfondo di canti popolari messicani, un gruppo di musicisti sorti  dal nulla ad accompagnarle. 
Le loro parole crude, crudeli, scandite a tratti si interrompono in pause riempite dal fumo di sigarette aspirate, di liquidi caldi d’alcol attraverso le vene. Il dialogo riprende come un fiume, un flusso, una lava di parole e fango, poi di voci rauche, rabbiose, inesauste quasi cantando dal fondo dei visceri, danzatrici, baccanti o semplici donne in preda a uno strano furore dionisiaco. Attraverso un proprio rituale raccontano la ricerca inesausta d'amore posto di fronte alla propria deriva, la solitudine esistenziale e la rabbia che esplode improvvisa come una forza di vita contro implacabile l’imposizione di violenza nel rapporto all'altro. La violenza della società nella politica messicana come quella fatta alle donne in un mondo ancora dominato da strutture misogine e machiste. Sullo sfondo sono i canti d’amore e di rabbia, di vitalità e di resistenza, dalla carica vitale esplosiva, rabbiosa, bacchica quasi , arrivano dai visceri dell’ebbrezza o della disperazione nelle voci delle tre donne.

Tra loro e' il personaggio autobiografico della regista,Angelica Liddell, con la sua forza di vita là fuori nell’eccesso, nella rivalsa, nell’estromissione al limite del sè; la sua voce si scaglia contro quella barriera di pudore che, come la nomina Liddell, una volta oltrepassata, simile a un muro del suono, lascia posto all’emergenza di un'altra voce,  d’un corpo come pura presenza scenica, auto-finzione, verità poetica del sè.  


 Teatro dei corpi
E' un teatro profondamente fisico, coreografato in un senso pur senza essere danzato, primariamente visivo, teatro d’immagini lasciate agire nel loro potere segnico, nel loro peso di presenza.
Essere là,  darsi prima d’ogni comprensione, un mostrarsi che parla facendo parlare, gridare, espellere, sudare o sanguinare questo eccesso di vita, di materia direttamente dai corpi in esubero, andando a cercare nel loro grido ultimo, irreversibile , nella nudità, nell’eccesso, nell’”impudore” del sé come veicolo libertario d'espressione. Sono nell’estromissione della propria bile nera, collerica, ora bruciante come fuoco ora malinconica come acqua, materia di vita, sintomi e scorie nelle parole che si riversano attraverso la vitalità frammentaria delle voci raccontandosi.


Una donna prende l’altra per i capelli, la trascina per la forza dei capelli dall’altro lato del tavolo, al bordo quasi, in questo faccia a faccia tensivo, violento tra le due fino a farla precipitare dopo che questa si é accasciata, dormente sotto effetto dell’alcool.
Bevono e fumano al tavolo in pause silenziose. Le accarezza la testa poi la trascina, la costringe a sollevarsi  a lottare sopra il tavolo, rovesciando sedie a terra nell’atto. Sullo sfondo ritmico invasivo di cantari popolari messicani gridano il dolore di vivere, la solitudine e la rinuncia a  sé.


Due donne trascinano una terza di peso, gli occhi chiusi, a metà denudata sull’ ampio abito lungo, la depongono al suolo al centro della scena, la musica pervasiva di pianoforte, questa volta è nell'esecuzione di Glenn Gould.


Cespugli di fiori enormi, smisurati dalle tonalità vivide a circoscrivere lo spazio. 
I fiori ritornano  a più riprese nel corso dello spettacolo: mazzi di fiori sullo sfondo di  corpi nudi offrendosi agli occhi degli spettatori, fiori tra i capelli, fiori per adornarsi, o deposti al bordo del tavolo nella conversazione intima. Più tardi saranno bouquet di fiori gettati con violenza al suolo, fatti a pezzi per "rompere quello che resta", infine un’auto riempita di vasi fioriti per commemorare le giovani donne vittime delle stragi di Chihuahua.

Si espongono seni nudi su abiti lunghi, tradizionalmente  messicani. Si denudano metaforicamente, letteralmente raccontano o meglio lasciano affiorare frammenti delle loro esistenze, voci di corpi.
 “ All’interno esplodo; all’interno mi guardo ed è come se avessi vent’anni”
“Vivrete, fotterete, morirete e niente di quello che potrete fare cambierà l’idea dell’uomo.”
“Come se fossi una cosa minuscola con un’ impressione di solitudine immensa . Come se non avessi alcuna importanza, come se non fossi una persona, e si calpestasse qualcosa di molto piccolo”.

Sputano il sangue e l'anima, vomitano fuori la collera e le parole, la violenza e la solitudine. Sono  in questo “impudore” o nudità aggredente d’un corpo proclamato, estromesso, assunto fino al limite, lavorando giustamente sui limiti di quello che si puo’ riuscire a espellere, a gettare fuori partendo “dalle proprie notti”, come afferma la Liddell.
Si spostano su “una linea sottile tra costruzione e sentimento reale” perché il male deve essere attraversato ai suoi vari livelli d’esistenza, mostrato in tutti i suoi risvolti, dal volto intimo, individuale, autobiografico per la regista a quello collettivo della società messicana,
guardato in faccia, gridato, forse infine esorcizzato attraverso le cinque ore di spettacolo. 









II parte

 A. Liddell: “la casa della forza é la casa della solitudine. E’ un luogo dove si compensa la disfatta spirituale con lo sfinimento fisico. Il luogo dove non si é amati,
 dove si esercita un non-sentire, un non-sentimento per compensare il troppo pieno del sentimento. E’ Il luogo dell’umiliazione e della frustrazione. “

“La solitudine e la forza si sono date qui battaglia senza respiro. La forza mi ha permesso di scavare al più profondo della debolezza e della vulnerabilità. La superficie (la violenza, il sesso, la ferita) é diventata un modo di svelare le convulsioni più spaventose dell’intimo. La superficie rivela il segreto”.

La casa della forza é forse il lavoro nel quale ho voluto cercare più ardentemente il senso d’un esistenza,un modo di sopravvivermi. Ho lavorato con il dolore, senza mediazioni in una messa a nudo dell’anima, in una sorta di pornografia spirituale. Bisognava assolutamente uscire da quel tunnel.”

 “La vita é un luogo dove si lascia per traccia poco più che un laccio schiacciato sull’asfalto; l’amore é destinato al fallimento, l’intelligenza al fallimento, ci distruggiamo gli un gli altri per codardia, umiliamo e siamo umiliati fino alla fine.”


Sono distese, i corpi nudi, aperti, il sesso esposto e si confessano, parlano di dis-amore, di  derive esistenziali macchiate di violenza, di sangue, lasciate alla sola forza fisica in azione. Scorrono dietro di loro immagini di guerra dai media, il conflitto israeliano-palestinese che osservano indifferenti attraverso lo schermo del televisione. Nel montaggio i titoli dai giornali sono lasciati alla loro letterarietà là dove il linguaggio, messo di fronte al proprio limite, cede il posto a questi incontri casuali di voci , eco di notizie alle loro orecchie, ai volti anonimi d'altre donne scorrendo sullo schermo televisivo.



Ci sono divani, molti divani, un’armata di divani perché come afferma la narratrice“sono i nostri letti di bambini o di boia”; sono divani logori, laceri, divani di appartamenti solitari la sera, divani dove si resta per ore di fronte a un  televisore o a un computer in rapporti virtuali all’altro, qui perfino nel sesso virtuale all’altro.
Sono divani che si prende il tempo di spostare uno dopo l’altro, di spingere di peso per riempire la scena,
si iscrive il terrore, la paura gridata dalla voce femminile affermando: “ mi fa spaventosamente male il tempo che passa”;
là si pratica “il non-sentimento”,  “la non-intelligenza”, “una ginnastica psicopatica dell'anima” fatta di sollevamenti di pesi all’infinito, allo spossamento sullo sfondo d’una musica lancinante di pianoforte.
Sono divani dove si resta distesi, allungati, ravvolti in camice da notte bianche macchiate di sangue oppure stretti all’altro in sospensione dolorosa, in omissione di sentire,“omissione d’amore” come ripete il monologo.

Sono divani tra i quali si inizia a correre come in un labirinto senza fine,
sui quali le tre donne come folli saltano entrando e uscendo di scena,
vi si precipitano senza direzione;
sono divani fatti per disintegrare gli ultimi mazzi di fiori, per gettarli contro violentemente nella pioggia di polvere e bozzoli che lasciano cadere ai loro piedi, 
 gli steli rimasti nelle loro mani vuote. 



Gettano terra o detriti di carbone al suolo, riempiono la scena di terra, sacco dopo sacco, la trasportano di peso con il sudore. 
Prendono il tempo, fisicamente, di estenuare l’atto, pagare il dovuto, sfinire i corpi, fino a costruire questo spazio, distesa sopraelevata, zona oscura rilucente dove  essere lì, su quella terra di brace nera-rilucente, e emettere l’ultimo grido, semplicemente. La terra, dunque, per riempire e svuotare la scena, per scavare al fondo dei corpi, toccare la ferita, sfinirli fisicamente, metterli in condizioni di lanciare quell’unico grido, lancinante, e poi ancora spazzare via tutto, ripulire, svuotare a colpi di pala la scena.
Il movimento di riempire e svuotare ripetutamente nello spettacolo.




Terza parte


“ Il mio paese mi fa male. Mi fa male vedere giovani legati al traffico di droga farsi uccidere, vederli uccidersi gli un gli altri come fosse un gioco”.

“ Fa ormai parte del nostro quotidiano, della nostra vita di tutti i giorni qui. Credo di poter dire senza sbagliarmi che ogni famiglia di Chihuahua ha almeno un cugino, uno zio, un fratello, un parente prossimo o lontano, un vicino o una conoscenza che è stato testimone d’una fucilata, che si è fatto aggredire o che è stato ucciso”.

“In quanto donna sei molto più vulnerabile, più esposta. A Ciudad Juarez siamo tutte state segnate da queste storie di ragazze rapite e violate. La città è coperta di manifesti con il loro volto. Sono belle, talmente belle, si direbbe che sono state scelte per questo, perché erano giovani e d’una tale bellezza”.

Tre giovani messicane raccontano la storia di Ciudad Juarez, descrivono i crimini che accadono in questa città divenuta “zona di non diritto”, rendendo omaggio alle giovani vittime di tale genocidio.


Sono queste croci rosse deposte, auto-piantate, cimitero di croci con abiti appesi sopra e fiori commemorativi d’un auto ricoperta, più tardi rovesciata.
Sono tre corpi di giovani donne dal volto celato da una cascata di capelli neri fittizi.
Corpi messianici di giovani messicane violate, abiti appesi di donne senza corpo, corpi morti di giovani trucidate, corpi distesi al suolo o allungati  attraverso le croci.
Dopo il rito di purificazione, si lavano i piedi togliendosi le capigliature rilucenti- gli stessi corpi si sollevano in ribellione, pieni di rabbia, in rivolta percuotente nel fiume irreversibile del loro monologo urlato, implacabile.
 Lq musica di violoncelloè di Bach questa volta; la simulazione parodica della forza bruta ne“l’uomo più potente di Spagna” é qui infine messa a tacere, ricoperta come la sua massa di piccole figurine di cera poste dal coro delle donne su scena , questi prototipi di “uomini fragili”, inutili, gentili,
 altro modello d’essere contro la misoginia e il machismo dominanti nell’ordinamento  tradizionale di tale società.