martedì 17 dicembre 2013

Su "La grande magia" al Mambo di Bologna, (II PARTE l'artista alchemico e demiurgo )










L’artista alchemico,  “la canoa” di Zorio









L’alchimia secondo il sistema filosofico-esoterico tramandato segretamente per secoli è trasmutazione dei metalli in oro, del piombo in ciò che brilla e risplende nell’uomo come la ricerca della sua perfettibilità, d’una prolungazione infinita della sua vita per vincere la malattia, la corruttibilità della materia nel tempo attraverso la sua conversione immutabile in oro. Trasformazione della materia dal “vile piombo” all’ “oro filosofico” dunque ma anche psichica e spirituale dell’essere umano implicato nel processo. L’alchimia, in questo senso, diventa metafora dell’operare dell’artista, del processo di distillazione operato dal lavoro artistico partendo dai suoi coaguli di materia grezza, dalle scorie e le squame della sua esistenza sensibile, dalle aperture che gli offrono gli elementi come le cose del mondo, dunque il processo di sublimazione implicito che opera l’arte, in linguaggio in primo luogo nei suoi meccanismi costantemente partendo da presupposti o pretesti molto più bassi, primari, perlopiù inconsci.

La luce trattenuta tra le mani generatrice d’oro in Penone

Le isole fluttuanti del disegno a carboncino di Christo ricoprono a raso la superficie d’acqua, dischiuse come lettera aperta e poi ricucite nel collage su una missiva senza indirizzo.

Le “impronte di piedi” ( Richard Long) intrisi di fango generano un grande reticolo di forme d’ una pittura dell’accidentale, dell’azione estemporanea, dell’intervallo del corpo nell’impromptu musicale dell'improvvisazione.

 Calchi di figure in gesso fissamente si guardano nello spazio chiuso d’una “mise-en-scene” fittizia al centro della galleria: i loro occhi di vetro entrano in contatto in questo spazio ermeticamente blindato costruito dalle traiettorie dei loro sguardi entro un tempo sospeso, nell’avvenimento di qualcosa che pur accadendo di fronte a noi resta li' cripticamente estraneo .

La “canoa di Roma” di Zorio, rovesciata e sospesa al soffitto in resina poliestere e tubi d’acciaio accompagnata da un fischio premonitore si fa vettore d’infinite trasmutazioni dentro la materia.
E’ “luogo” perché raccoglie energia in uno spazio ristretto, fluorescente all’interno dello scafo e poi la riproietta in linee di forza attraversano l’intera galleria;
E'elemento simbolico perché come pochi altri in Zorio, giavellotti, stelle ecc., apre all’artista un passaggio verso una dimora originaria, un’energia primigenia della materia.
 E’ archetipo di viaggio e movimento, dunque portatore di memoria e, come linea che traccia nell’alto attraverso lo spazio, anello di ricongiungimento tra passato e futuro. In aria sospesa al contrario, sottile e rilucente nella sua resina oscura, saldata in sottili tubi d’acciaio ai lati si fa vettore d'una comunicazione che ricongiunge spazi, dimensioni e saperi provenienti da diverse temporalità e esistenze, oggetto alchemico per eccellenza.




Corpo sciamanico, corpo performativo

Le sciamano nella sua capacità di conoscere e contattare le forze della natura, delle piante, degli animali, di viaggiare nei mondi, di entrare in contatto con l’aldilà di questa realtà coinvolge il proprio corpo-spirito nell’espressione di gesti e rituali, nel ripetersi di formule, movimenti e suoni talvolta fino a riuscire a farsi tramite di un'altra dimensione.

Il corpo, ugualmente, nell’esperienza performativa contemporanea si fa vettore di pensiero e di senso, strumento espressivo altamente ritualizzato, spesso prestandosi al gioco simbolico delle sue molteplici interpretazioni. Non solo appare nell’evento visivo della performance ma anche nell’esperienza trasformativa, nell’accadimento che in esso esperisce vive o attraversa.

Shirin Neshat “speechless”

Il volto è visto nel dettaglio del metà-viso, simmetricamente guardato e espanso in questa solo esatta metà del suo emisfero sinistro da cui emergono occhi neri, intensi e brillanti, risolutamente gettati contro nell’atto del guardare, nell’azione di puntare gli occhi all’esterno , di soffermarsi e arrestare il proprio sguardo su qualcuno o qualcosa ed indagare la realtà attraverso esso: atto conoscitivo e desiderante, analitico e sensuale del farsi tramite al mondo attraverso la via d’accesso privilegiata dei propri occhi. Tuttavia, sempre, l’inviare è anche un ricevere di ritorno, l’indagare attraverso la soglia del proprio sguardo è anche un offrirsi, l’essere nudi in quello sguardo, nel dettaglio analitico del proprio auto-ritratto. Il volto dell’artista appare senza remore espanso, ingrandito e auto-esposto, completamente nudo in quel suo farsi tramite d’immagini al mondo, fotografiche o filmiche, solo frapponendo una leggera pellicola quasi invisibile tra lei e l'esterno, sottile e effimera quanto i simboli grafici che le ricoprono il viso.
Saturo di scrittura, di minuscoli caratteri amplificati, appare nel suo magico rivelarsi attraverso occhi grandi,attoniti, parlanti in sé.




Fotografia e magico



“Misterioso connubio tra tecnica e magia, tecnica che combina ottica e chimica” come sottende la mostra, la fotografia fissa l’immagine sensibile prodotta dalla luce in infinite tracce cartacee o digitali del mondo. Lo sguardo rivelatore del fotografo trasforma le forme del quotidiano, cattura immagini rubandole al flusso continuo e indeterminato dell’esistenza, degli avvenimenti più banali, dei dettagli o delle anomale apparenze, documenta ma anche dà corpo, dà voce alla propria interna visione alle cose. Come nel magico supera i confini apparenti di realtà qualche volta in favore di immagini fantomatiche nate dal fondo della propria esistenza cosciente, immemore o immaginativa.

Nella serie:

Mani femminili eleganti e nobili in primo piano, un volto di donna allo specchio in auto-ritratto d’inizio novecento, ancora il suo riflesso in dissolvenza malinconica,  
la forma epurata ed essenziale d'una madreperlacea conchiglia ingrandita su un fondale roccioso.
Manipolazioni di visi simili a maschere riplasmate in dagherrotipi di inizio xx secolo.

 “Self-portrait past, present”: ritagli inediti di collage fotografici estratti a caso dal flusso temporale d'un esistenza.
 I visi perduti, fossili e bucherellati di Ulisse e Ercolano, la magia rituale d'una danza di cerchi d’oro e corpi in onda continua.
La solitudine di luoghi essenziali assorti nel silenzio della preghiera, varchi e passaggi perturbanti di vicoli stretti e oscuri nel quartiere ebraico di Praga all'inizio del xx secolo.

Forme di piante e vegetazione sono trasposte attraverso il dettaglio, la deformazione e l’espansione,
piante morbosamente espanse divengono labirinti carnivori, forme fetali, spine affilate, cactus o leggere ali di farfalle.

Rocce gridando l’urlo di immigranti anonimi come bocche parlanti, come fauci su fondali oscuri, traslucidi e brillanti. Crateri urlano il canto di rocce vivide, animate di presenze allo sguardo.

 Rompere la parete del suono o del silenzio ed essere rigati, nelle immagini di Richter, soffocati o graffiati, incisi di baci espansi in striature violacee, in scarabocchi di pennelli impazziti su auto-ritratti di volti ordinari.




La figura dell'artista demiurgo o creatore riplasma come attraverso un rituale magico le apparenze del mondo in chiave immaginaria secondo leggi interne al micro-cosmo dell'opera là dove il mondo si offre come occasione di metamorfosi poetica, la materia, qualsiasi, la più marginale come la più rara, frammista, recuperata, mischiata o rivoltata, diviene potenziale in un processo combinatorio ogni volta inedito che darà vita all'opera.

“Urlo bianco”, Gunther Uecher



Sono chiodi neri e affilati, sottili e infiniti nel loro potenziale di distruzione e ricomposizione, nel loro gioco tra rigore e caos, forze centrifughe e nucleo volgendo all'esterno in un moto concentrico di ricomposizione e disintegrazione costante. E' l'incastro infinito di chiodi sottili e acuminati, ognuno in una distribuzione sapiente di punti dando origine a un vortice simile a fontana o cascata in espansione voluta,
nel disordine organizzato della propria forma dal centro alla periferia,
 nello smantellamento controllato della medesima in punti simultanei distanti e tuttavia ancora connessi.






“Simultaneo” di Matthias Weischer

E' questa grande ovazione del verde e del bianco distesi come pasta densa di cellulosa colorata aggiunta ad acqua su carta, data per simmetriche alternanze di forme astratte e poi in guizzi improvvisi e fluidi di colore, in onde riplasmate e lavorate direttamente sulla superficie immensa del quadro prima che la materia dissechi. Verde smeraldo giardino di cristalli di malachite,
verde città di forme e guizzi della memoria con rete bianca e cerchio a sfera al centro;
verde snodarsi di grandi linee rasserenanti alternante al bianco in energia calma e luminosa .
Verde del colore del mare visto dalla superficie terrestre, della densità piena dello spazio acquatico visto come massa tangibile di cose che sedimentano ma anche nel guizzo improvviso,
 nel movimento rapido e inatteso, nell'aspetto volatile e leggero dei pesci e delle creature d'acqua.




lunedì 16 dicembre 2013

Su “La grande magia”, esposizione collettiva al Mambo di Bologna (I PARTE, il rovesciamento del punto di vista, un mondo al contrario )








Una moltitudine di opere apparentemente estranee, o diversissime tra loro, distanti nel tempo e nello spazio, dal passato al presente, dalla pittura rinascimentale alla fotografia modernista, dagli albori del cinema alla scultura o installazione contemporanea sono state accidentalmente accostate, tenute insieme nell’ esposizione “La Grande Magia” al Mambo di Bologna secondo la logica del puro immaginativo o meglio rilette secondo categorie paradigmatiche desunte dal pensiero magico quale filone sotterraneo d’un sapere segreto, esoterico, dell’occulto o dell’irrazionale visibile tuttavia nelle sue manifestazioni tangibili ai margini della logica dominante del razionalismo occidentale a partire dal VIII secolo. Nel presente allestimento tali categorie desunte dal filone del pensiero magico/irrazionale vengono utilizzate come metafore per rileggere lavori tra loro più estranei e disparati, per pensare l’atto della creazione, la figura dell’artista, il rapporto tra arte e natura, arte e artificio. In particolare in tutte le opere scelte la magia viene vista in binomio indissolubile con l’arte attraverso una serie di figure del pensiero del “magico”: in primo luogo l’opera è pensata come trasformazione alchemica o “magica” della materia, d’una materia resa viva, vivente perché plasmata, manipolata, passata al vaglio dalla mente e delle mani dell’artista demiurgo. In secondo luogo, la capacità dell’arte di appropriare come nel rituale esoterico, di possedere la realtà attraverso le immagini: l’immagine fotografica nel suo potere di catturarla e trasmutarla visivamente, il cinema nel suo potere cinestetico di creare immagini in movimento riconnesse alla pellicola invisibile del sogno, della memoria o dell’immaginazione cosciente, infine l’immagine poetica generata dal linguaggio nel suo potere di simbolizzazione attraverso la parola.








                                 

Le opere qui riunite nel loro rapporto pur diverso e disparato al magico o all’irrazionale entrano in qualche modo in un rapporto differente al tempo, insinuano l’idea d’una temporalità percepita come flusso e continuo oltre la contingenza del singolo avvenimento, della singola esistenza e fuori dai limiti cronologici d’un tempo lineare misurato dagli orologi. Aprono alla percezione d’ un territorio di circolazione fluida delle forze e dei saperi tra l’uomo e la natura secondo un concetto di magia naturale o sciamanica che è l’essere in ascolto, in corrispondenza con tutte le forze del cosmo, vegetali, animali e minerali, animate o inanimate, del mondo visibile o invisibile, che è, ancora, un riconoscersi in questo insieme di similitudini e corrispondenze tra le parti e il tutto secondo una percezione espansa o poetica del mondo simile a quella del poeta.


Luogo obbligato di passaggio, in questo senso, appare il prologo a “La belle et la bete” di Jean Cocteau; parole proiettate su uno schermo traslucido e riflettente all’inizio della mostra invitano gli spettatori a varcare “le soglie della propria certezza razionale”, a lasciarsi portare in questo altro mondo incantato dell’infanzia trascinati dalle quattro parole magiche del “c’era una volta”, vero e proprio “apriti sesamo dell’immaginazione”, in quella dimensione dove si credono mille cose assurde: “che una rosa che si raccoglie in un giardino può’ attirare i drammi d’una famiglia, che le mani d’una bestia umana che uccide si mettano a fumare…”

La figura “del sortilegio”, incanto o incantesimo operato nel dominio del magico ritorna in queste riletture di artisti simbolisti o contemporanei come straniamento, sospensione, perdita dove l’anima smarrisce le proprie coordinate spazio-temporali restando imprigionata in un’altra realtà in seguito a furto o accidente, oppure perche' irretita e trattenuta da qualcuno. Perduta alla propria originaria dimora, inizia a galleggiare invano nel vuoto senza potersi ricongiungere al proprio corpo-destino, alla propria autentica esistenza. Di qui, i volti imprigionati di sirene o “pesci d’argento” di Klimt, la figura del “viandante” di Eline Brotherus o, ancora, la “sospensione aerea” di Clara Strand.

Gustav Klimt, “Pesci d’argento”









Sono due figure femminili ciascuna ravvolta in una lunga capigliatura che scende fino ai piedi in coda-strascico nero puntigliato di minuscoli diamanti simili a sirene su un fondale verde-oro. In alto onde di metallo discontinue come pesci d’argento sono frammiste a questi volti sospesi, acquatici e fluttuanti. Due profili, lo stesso ripetuto, uno più grande, espanso, irradiante quanto malinconico, l’altro più piccolo, brumoso, sulfureo verde ramato e privo di luce. Lo stesso volto è ravvolto in questa capigliatura fluida, espansa sino ai piedi in un’ondata morbida, allungata e argentea, liscia e rilucente come epidermide laminata di pesce d’acqua dolce, prigioniero forse in quella sua non-forma di corpo, a metà umano, a metà marino e da cui si staglia, netta, solo la chiarificazione singolare del volto.
 Il verde acquatico del fondale, delle alghe, dei molluschi e delle creature d’acqua, dello stato primigenio di natura si staglia contro l’oro risplendente della divinità. Avvolte, prigioniere dentro questi involucri-chiome i corpi diventano lucida scia amalgamandosi al loro involucro protettivo. Tale, il manto nero incastonato su verde-oro diamante che avvolge e riassorbe il corpo come brillante prigioniero.

“Wanderer” di Eline Brotherus riprende il dipinto del romantico Friedrich, “Viandante su mare di nebbia” lo stesso punto di vista di chi volgendo le spalle allo spettatore si perde nella contemplazione silenziosa del paesaggio ravvolto da una leggera bruma invernale. Qui è l’artista a mettersi in scena attraverso l’auto-scatto, a riprendere sé stessa nell’atto di guardare, immergersi, perdersi nella visione di vette alpine infuse di nebbia, irrigate dalla purezza dell’aria nei colori tenui,  nei contorni sfumati delle montagne ravvolti da una leggera, bianca foschia invernale. E il villaggio a distanza appare molto più in basso come una visione da cartolina, strana sospensione di realtà ripresa in questa tenue dissolvenza dei contorni come sotto il vago effetto d' un incantesimo, galleggianti in aria in questa meditazione silenziosa attraverso lo sguardo. Paesaggio dell’anima, , volto-paesaggio riflesso attraverso quello che lei vede all’esterno, sé stessa occultata al nostro sguardo.

“Aerial suspension”, Clare Strand






La fotografia si fa medium all’invisibile, rende tangibile la sospensione aerea, il volo, la levitazione da terra del corpo sollevato e come lasciato sospeso in aria nel vuoto.
Aspirazione al volo, all’assenza di gravità o di peso, alla sensazione leggiadra, leggera del divenire simili a uccelli o creature d’aria, o, invece, irretimento in aria in mezzo all’oscuro nulla come sotto l’effetto d’un incantamento, d’ un incantamento o d’una cattura.
E la levitazione dal suolo è questo restare nella sospensione dell’indeterminato, nella perdita di contatto con la terra, contro il nero vortice che risucchia dal fondo, nella lotta dell’anima per ritrovare il proprio corpo precipitato nel baratro del nulla, prigioniero nel mentre d’una qualche altra realtà per uno strano, bizzarro gioco del destino.
Nella stessa parte della galleria è l’illusione ottica del treno che corre incontro agli spettatori in una delle prime immagine prodotte dal cinematografo dei fratelli Lumière alla fine del XIX secolo, ancora una luna parlante che s’anima, grida e si tinge di giallo sullo sfondo d’una bruna gassosa e grigiastra in mezzo a una miriade di personaggi animati, infine l’illusione ottica d’un dispositivo di vetro e acciaio a specchio (Hein) che capovolge la visione statica dello spazio portando con sé lo spettatore nel rovesciamento. La superficie solida diventa mobile, pieghevole, ravvolta come un quadretto di terra dentro un fazzoletto ricamato di bianco che si porterebbe con sé nella propria tasca.

In “As time goes by” gli orologi girano al contrario, le loro lancette si muovono all’impazzata dentro quadranti esplosi in moto vorticante senza potersi arrestare contro l’apparente immobilità del tempo della futilità quotidiana. Percepiamo un mondo governato da altre logiche di trasmissione silenziosa, di flussi temporali e circolazioni energetiche, intravvediamo una realtà che sovverte il tempo logico, cronologico degli orologi, che spezza l’unità spazio-temporale del qui e ora, che apre alla percezione del sovra-sensibile, dell’irrazionale come del puro immaginativo.

Il linguaggio poetico o artistico afferma la propria indipendenza, la propria struttura “libera e arbitraria” secondo una logica propria che è più vicina a quella del magico e del rituale che non a quella del razionale. Così, la visione può triplicarsi come nell’installazione di Paolini o ridursi in un dettaglio espanso e significante come nelle fotografie di Penone, ribaltarsi in un mondo al contrario come nei quadri di Baselitz, creare un universo fittizio oppure lasciarci scorgere trasversalmente per un gioco di specchi e rimandi a un altro ordine di realtà come nelle immagini di Grazia Todari. Sempre si si tratta di varcare una soglia o aprire uno passaggio verso un altro ordine immaginativo intravvisto, percepito o convocato negli spiragli, nelle fessure aperte sul visibile o sul linguaggio ordinario.

Giuseppe Penone, “geometria nelle mani”

Sono solarizzazioni di mani su fondo oscuro, mani strette, serrate, sovrapposte l’una all’altra;
mani grandi racchiudendo questo fulcro di luce, qualcosa che si illumina, germoglia e cresce dall’interno, lucore tra le mani nella totale oscurità. Danza di mani, mani illuminate da un auto-generatore luminoso conducendo elettricità, mani irradiate di luce nella conversione della loro energia cinetica prima: trasmutazione, atto alchemico aprendo all’invibile.
Bagliore nell’oscurità: l’oro d’un abbraccio, racchiuso, avvolto, stretto nel gesto di mani generando questa fucina di energia luminosa sulla pellicola fotografica.





“Un mondo privato”, Grazia Toderi



E’ un castello o giardino fatato nella triplicazione dell’immagine alla luce diurna, al crepuscolo poi nell’oscurità della notte. Uno strano enneagramma di forme domina la simbologia complessa del giardino fatto d’una magica distribuzione di linee, di punti e circonferenze, fatto di pochi crocevia casuali e molte simmetrie di tratti proseguendo all’infinito su tracciati paralleli, ciascuno a sé eppure leggibili a distanza nell’insieme ad occhio nudo. Il loro punto di fuga luminoso porta al fondo di quel giardino verso un castello o dimora misteriosa avvolta tra gli alberi. Lo sguardo corre là verso quel luogo, dimora o luogo appena visibile, quasi non scorto.
Di fronte dall’altra parte del giardino, oltre il tracciato simmetrico, oltre il diagramma simbolico di linee e punti intrecciati dei quali difficilmente si scorgerebbe l’inizio e la fine del percorso si erge un lago e il suoi giochi d’acqua nel cui specchio si riflettono quel palazzo o castello al contrario. L’immagine si sdoppia e si si rifrange, si crea e si disfa, riverbera e si decompone nelle fluttuazioni scomposte delle correnti, nei lenti sciabordii delle acque, nei riflessi apparenti o illusori dei guizzi di sole su quelle. Un mondo alla rovescia compare, un tempo arrestato, specchi che catturano o sdoppiano immagini, effetti ottici illusori quanto persistenti, a volte disturbanti, ma qui quieti, luminosi facendoci intravvedere questa altra dimensione, questa visione di un mondo sottile, con le sue manifestazioni dell’invisibile oltre la materia apparente della nostra realtà .
Il giardino è anagramma, simbolizzazione d’uno spazio essenziale dato come grande metafora visiva, una simmetria perfetta di forme nell’enigma apparente lasciato alla geometria della loro visione; Tale “zona di mezzo” come uno spiazzo aperto tra la dimora e l’altro mondo increato è anello di congiunzione, di passaggio o di mediazione, verde distesa rasserenante, immobile e pacata di forme, calma quiete e apparente di un “mentre” tra il fondo e la scena. Il suo anagramma appare nella calma penombra del pomeriggio, poi nella completa oscurità della notte nell’ultima immagine.

Un bagliore luminescente sul fondo, lo specchio d’acqua e la dimora sono ora oscurate, il prato è ricoperto totalmente dall’ombra della notte e, solo quel punto di fuga luminoso sul fondo resta come una stella che conduce i viandanti ignari e senza direzione.


Georg Baselitz, "betulle,  pittura con le dita”

Mondo al contrario, deflagrazione di colore nel rovesciamento tra cielo e terra, il cielo in basso con le sue striature e filamenti colanti, i suoi raggi e tinture nere e rigature su fondo acquarellato chiaro, azzurro sfumato di bianco. Il cielo nel luogo della terra, arida e brulla, giallastra, ocra e attraversata da crepe irregolari, rigata di solchi e spaccature simili a tronchi spogli d’alberi nel rovesciamento delle forme, nel turbinio della rivolta dal loro interno ordinamento. A lato è invasa di cespugli verdi a macchia nell’effetto deformante d’un mondo esploso o dissolto nei suoi apparenti contorni, mandato in aria con tutte le sue parti dall’interno fodero del suo sentire. L’ego razionale ribaltato da una percezione espansa oltre la contingenza della sua singola esistenza raziocinante è poi ricondotto alla forma del rispecchiamento per assurdo.



sabato 23 novembre 2013

A proposito di contemporaneo, mosaico e leggerezza ( GAEM 2013, Giovani artisti e mosaico, al Mar di Ravenna)













La leggerezza nel senso calviniano del termine è sottrazione di peso come gravità esistenziale, si vuole come una risposta al vivere quotidiano nella ricerca d’una leggerezza pensante, consapevolmente ricercata, inseguita, indossata come un abito lieve quanto aderente alla forma del proprio interno sentire contro le rigide categorizzazioni delle leggi, ideologie o norma operante, dalle costrizioni pubbliche e private, dei singoli abusi di potere.

Si vuole come un modo di guardare il mondo con ironia, con levità o distacco, con l’agilità necessaria per sollevarsi dalle impalcature di pietra che possono schiacciare l’individuo nel suo rapporto alla società, alle istituzioni, agli spazi colonizzati del nostro vivere quotidiano. E' un togliere presenza, pesantezza reale alle figure, ai corpi, alle città in questo andando contro l’incenerimento, la morte apparente, la lenta pietrificazione degli esseri e delle cose sotto l’effetto della loro stessa inerzia o immobilità.


Molti dei lavori dei giovani artisti visti al Gaem di Ravenna sembrano in quest’ottica sottrarre il mosaico della sua stessa materia, renderlo assenza a sé stesso, presenza differita dal suo proprio luogo d’origine, costante rinvio dal piano reale a quello virtuale, dall’ oggetto al suo simulacro, dalla semplicità piena della materia al reticolo incorporeo d’immateriale. Producono operazioni di dematerializzazione sotto gli occhi dello spettatore come un togliere via pietra o supporto reale, eliminare o sostituire la tessera a una sua versione virtualizzata; o ancora, ricreano per via illusoria la medesima sotto forma di immagine ottica, di riflesso allo specchio, di proiezione del mosaico attraverso una video-performance oppure in una installazione che passando per lo svuotamento reale dello spazio ne fa una pura proiezione luminosa nell’ oscurità.











Andrea Poma: il suo mosaico sospeso, trasparente e leggero galleggia in aria nello spazio aperto. Evoca ciò che vi è di più lieve, inconsistente o impalpabile come l’aria, la sensazione del volo, il sottrarsi alle leggi di gravità, il vento che muove invisibilmente tra le foglie. Una tendina di vetro trasparente diviene simulacro d’una forma mosaicata dissolta di cui resta l’immagine catturata in uno specchio, un’impressione su vetro rinchiusa nel medesimo e lì arrestata partendo dalla griglia geometrica posizionata sul fondo.

Simile a una tastiera virtuale, a ciò che dal supporto concreto, cartaceo, materico, rinvia al digitale, all’elettronico, alla traslazione di presenza, alla comunicazione per bits, impulsi o segnali elettronici. E, nel gioco tra fondo e riflesso, è la griglia rigorosa a darsi come reticolo di pure linee, geometrica dissoluzione o svuotamento di quello che era l’oggetto originario in malta e mosaico svaporato gradualmente in duplicazione eterea, in impronta che ha perduto il proprio originale. Tale uno schermo ad effetto coprente eppure trasparente, senza polvere, senza peso.









In “Co-musivo” la performance video segue i due giovani artisti (Andrea Sala e Giulia Alecci) al centro d’un rituale lento e progressivo nell’atto di compiere questo gesto di “imprinting”, o stampa a caldo sulla pelle vista come reticolo o superficie inizialmente neutrale, incontaminata e, a poco a poco iscritta, rivestita di tanti piccoli bianchi tasselli fino a formare uno schermo lieve o nuova epidermide, una seconda pelle. Un abito incorporeo è disegnato su quella partendo da particelle elementari, da cellule-tassello viste liberamente sul corpo ora in nero trasparente ora in bianco lieve.

Etereo e impalpabile come una seconda pelle tale rivestimento illumina e invade le figure procedendo attraverso un corteggiamento tattile, in un dialogo a due dell’uno all’altro sulla pelle: dal torso alle spalle, dalle mani ai piedi, dal collo al viso.
E' il calmo imporsi d’un moto lento e continuo, l’avanzare come d’una chiarificazione visiva per il corpo, tale,
la squamatura brillante e argentea d’un pesce su una forma umana che a poco a poco assumerà gli attributi, la grazia e la tonalità d’una creatura d’acqua.






In “We are the 99 di Benedetta Galli la parete è ricoperta di novantanove punti colorati, simili a pixel, l’infinità di minuscoli punti invisibili a occhio nudo che compongono l’immagine digitale qui convocata visivamente sulla parete da piccoli nuclei colorati incollati serialmente l’uno accanto all’altro.

Dalla sequenza delle minuscole cellule colorate pensate come tessere d’un mosaico digitale nascono zone ad onde luminose dalla predominanza di colori freddi, ora caldi, fasce luminescenti dominate del blu, ora del rosso nettamente distinguibili come cromie fluide che si configurano e poi si disperdono allo sguardo dello spettatore a distanza.

Una sorta di immagine-video, fluida e virtuale, leggera e dematerializzata viene qui ricreata artificialmente dal semplice gioco ottico un po’ come accadeva nei quadri puntillisti di inizio novecento su un supporto di tela che svuotata e alleggerita, insieme evoca e toglie presenza al simulacro d’una forma tradizionale di mosaico.













“Breath” di Laura Carraron è respiro, pausa, tempo di mezzo, “del mezzo della cosa” di quello che non previsto, incongruo, non logicamente voluto si insinua “tra” due tessere, due spazi pieni con altro apporto, nuova emergenza. E’ l’intrusione che scaturisce nell’ “entre” dalla rottura della superficie piana, piatta della lastra compatta, di marmo ricoperta di pietruzze o lamelle auree.

La rottura della superficie avviene per intrusione o innesto estraneo che tuttavia si vuole qui come un respiro, l’ emergere d’altro dentro la pietra: una nota ritmica discordante, un’aritmia voluta , una dissimmetria convocata in un tempo musicale altro, un tempo di leggerezza. Il respiro si arrende alla sottrazione di gravità, all’intrusione di leggere forme nel passaggio dalla pietra alle cannucce in plastica pieghevoli.

Spuntano come funghi o erbe selvatiche in un campo raso, in alto alla fine della tavola mosaicata, spuntano come spighe, fusti di bambù, germogli nati a loro stessi.
Sorgono, saltano all’esterno, saltano agli occhi, , rifioriscono ma artificialmente su questo terreno artefatto, artificiale. Invadono, sorgono a fiotti come ammasso di spighe d'un raccolto, come cannucce disperse, qui e là, per caso auto-riproducendosi da un semplice intervallo ritmico.




Mozaizm , Gallaxim 
 



La luce tradizionalmente nei mosaici bizantini è spiritualità, aspirazione al divino, salvezza che viene dall’alto e insieme sguardo rivolto a dio come al ricongiungimento all’assoluto. Giunge a sublimare il soggetto rappresentato avvolgendolo nella sua aurea di luce-colore di cui l’oro rivela appunto il contatto con la divinità. L’installazione di Mozaim ritrova l’archi-traccia, la forma della struttura primaria a croce greca ripresa dal piccolo mausoleo di Galla Placidia ma la riproietta attraverso sfere specchianti in vetro appese al soffitto, come schegge di luce in uno spazio immerso nella totale oscurità. 
Nell’effetto ottico il mosaico dematerializza sotto gli occhi dello spettatore, per essere sostituito dalla pura proiezione luminosa sul fondo d’oscurità del firmamento,
 la stessa che dominava il fondale dell’originale con le sue volte stellate, motivi e geometrie decorative. 

L’universo appare convocato nella sua leggerezza e opacità di materia gassosa ancora una volta fatta di pulviscoli invisibili, polverizzazione di corpi solidi in una molteplicità di corpuscoli luminosi, di particelle fatte d’aria o di gas in continuo movimento nel passaggio ininterrotto dall’uno all’altro stato. Simili a pulviscoli di luce, particelle di materia incendiaria si illuminano in un cosmo immerso nell’oscurità i cui spostamenti quasi impercettibili daranno luogo, nel tempo, a maggiori, irreversibili cambiamenti ; così, galassie si auto-combustiranno o si costituiranno in nuova forma dalla loro stessa materia.

Improvvisa oscurità: pulviscoli incandescenti, indeterminati si illumineranno a tratti come il vorticare di particelle che andranno ad aggregarsi, il tempo di un istante, in nuove costellazioni; altre si disperderanno, romperanno i loro vincoli aggreganti in minuscoli frammenti precipitati nell’oscurità galattica del cosmo. 
Tali i moti continui d’astri e meteore tra creazione e distruzione: spostamenti infinitesimali, invisibili a occhio nudo porteranno nel tempo grandi trasformazioni di pianeti e galassie del sistema solare.




“Vene” di Takako Hirai
è questa massa d’energia che s’apre, si rivela dal fondo del marmo, è questa forma primordiale, rivelazione da “dentro la materia”, che s’apre dall’impasto di malta della base . E’ questa affermazione malgrado sé stessa, apertura all’indeterminato, vena o arteria di circolazione aperta in corpo, dal corpo,
organo vivente, macchia, granulosità apparente di sabbia e pietra agglomerate insieme come in una conchiglia dischiusa.
E’ questa rivelazione per l’artista da "dentro la materia" e contro il marmo della base,
dal colore o dall’interno delle rocce, dai muschi o dall’interno della creta, dalla sedimentazione interna dei suoi strati, dalle sue crepe, dalle sue primarie fessure visibili in trame che la esplodono e la portano alla luce in superficie.

E appare come per caso in questo suo auto-generarsi, prendere forma perfetta dall’informe substrato vivente che la abita.









Segnali dal Limite”, Andrej Koruza


Tutto cio’ che accade, segnali dal limite, qui il limite della superficie immobile, statica a due dimensioni della lastra marmorea, solida, mosaicata ora messa alla prova, spinta contro la sua stessa immobilità dal meccanismo tecnologico dell’installazione atta a renderla “mosaico in movimento”.

L’impressione che ne traiamo è una sorta di tela o fascia luminosa attraversata da sotterranei scorrimenti, puntellata di soggiacenti forze  di moti invisibili culminanti in punti di rilievo oltre il limite piano della tela. Forze dinamiche messe in tensione dal mosaico in movimento.


L’immobile, il movente, il mosso, tutto cio’ che accade appare come “ipoteticamente necessario” nella visione di Koruza, principio fondante che sottomette il mondo alla legge di trasformazione, alla metamorfosi infinita, pur nella distruzione, della continuità del vivente. Tutto ciò che accade, nell’installazione il rapporto tra la tela, il fondo e la meccanica che la muove, i meccanismi moventi e le forze d’azione e reazione che stanno dietro quelli. 
E' il rapporto ancora tra la superficie, le sue parti, le parti visibili dal retro della tela in legno e ferro componenti il sistema che lo rende dinamico e vivente, e gli iati di vuoto, di nulla, di non-presenza che inevitabilmente si intercalano, apparentemente si frappongono, visibilmente interrompono, si insinuano eppure permettono a quello d’essere.  Essi sottilmente agiscono nel libero alternarsi tra le parti dei pieni e dei vuoti, delle azioni e delle sospensioni in movimento spezzato o apparente immobilità.


Tutto cio’ che accade: gli spazi, i vuoti, le contraddizioni, gli attriti, le dinamiche di moto e inerzia, di instabilità e cambiamento, di salute e malattia divengono parte di questa legge cosmica, principio fondante d’una necessità essenziale. Il ripercuotersi d’eventi inutili, all’apparenza assurdi e dannosi, immobilizzanti, regressivi o distruttivi divengono parte d’una legge di trasformazione universale, d’una dinamica di necessità e divenire. Sono l’ infinito riaggiustamento tra la materia e l’anima, la forma e il fondo dell’essere, le forze agenti e reagenti nell’io, 
dal fondo domandando ascolto, coscienza, presa in carico della loro remota causalità.


Segnali dal limite: limite del mio mondo, della mia pelle, del mio minuscolo finito,
d’una superficie rettangolare e piatta, di chiodi e leve, di ferro e legno inerti se visti staticamente, di profilo;
d’un mondo rinchiuso in una cornice di metallo bianco e grigio e di parti dietro quella d'un meccanismo a propulsione, arrestato sul bordo di pietra.


Limite di non-attraversamento, quello della mente cosciente che percepisce, d’ uno sguardo che si impone e si soggettivizza, del mio sguardo assente sull’altro , ricercato voluto, rigettato o allontanato.

Camminare sul limite: limite è flusso, “entre”, scivolamento, qualcosa che scorre come libero gioco di parti in un sistema dove anche il vuoto è pieno, parte d’un altro movimento,
d'una dinamica da scoprire perché in essa sola è il potere di liberare dalla statica immobilità del non-vivente.








sabato 19 ottobre 2013

Arturo Martini, “Creature, Il sogno della terracotta”, Palazzo Fava, Bologna













Degli anni 1930-32 sono le grandi opere e i capolavori scultorei di Arturo Martini esposti attualmente a Palazzo Fava a Bologna, “Creature, il sogno della terracotta”,   opere che sanciscono la piena maturità artistica dello scultore, modellate a Vado Ligure dove lavora in solitario, in autonomia, in totale indipendenza da correnti e scuole usufruendo della piena disponibilità di materia  d’argilla messagli a disposizione da Ilva Refrattari e d’una fornace dove può modellare direttamente le terrecotte di grandi dimensioni senza dover incorrere nei rischi degli spostamenti; le medesime gli varranno il riconoscimento alla Quadriennale di Roma nel ’31, e nel ’32 alla Biennale di Venezia. Come ogni grande lavoro artistico le sue opere degli anni ‘30 toccando i vertici della  scultura europea del primo ‘900 travalicano i limiti d’un mondo, la contingenza d’un tempo e d’uno spazio, l’attualità d’un momento storico o d’una singola individualità per farsi veicolo d’una verità atemporale, per aprire la via verso una verità plastica auto-generaratasi, pare, dal suo proprio luogo d’esistenza.  

E’ energia intuitiva la scultura, nasce come in Martini da una materia prima spinta, sospinta, portata verso il suo limite ultimo di verità, d’una propria interna verità, stilistica o poetica; nasce dallo spazio informe d’una materia espressiva- la terracotta in primo luogo sentita come elemento originario per sua natura primigenia- che come la scultura si espande a contatto con il mondo dell’artista, si nutre dell’esperienza intrinseca del medesimo, è plasmata dai suoi sensi fino a quando riesce a rielaborarsi in una forma compiuta.  Intrinsecamente, dunque, essa intende posizionarsi al di là di un’arte decorativa, dell’accademismo d’una tradizione definita “lingua morta” da Martini agli inizi del ‘900 o del falso classicismo tramandato dall’epoca, perseguendo l’espressione d’una sua implicita autenticità. Si dà, come la creazione per ogni grande scultura, di un’ “immagine primaria” plasmata dal fondo della sua propria massa sensibile, definita dal rigore d’un preciso ordine plastico  e, capace, tuttavia, ancora da quella sua originaria oscurità di “ parlarci d’anima”. Lì asserita, inconfutabile passando dalla contingenza del momento presente a un fuori dal tempo, una scultura appunto a stretto contatto con l’esperienza interiore che aspiri o guardi attraverso la trasmutazione poetica a un’altra realtà, se così possiamo dire.
 Duplice l’influenza in questo senso riconosciuta nel suo stile personalissimo da parte delle avanguardie, elaborata attraverso l’adesione alla rivista “Valori plastici” negli anni ’30:  il rinnovamento formale e di pensiero proveniente dalla metafisica dechirichiana nel suo aspetto atemporale di scenari immobili fuori dal tempo come in un luogo d’assenza o d’attesa, in scenari completamente onirici abitati da presenze sospese, statue, manichini e lunghe ombre rinviando a un piano secondo di realtà. Dall’altro, appaiono ugualmente importanti le suggestioni che arrivano dalle sperimentazioni futuriste, soprattutto nei valori plastici di dinamismo,  in Boccioni l’esplorazione delle forme in movimento nello spazio, delle forze centripete o centrifughe in atto nella composizione scultorea, infine il rifiuto della tradizione e l’ispirazione proveniente da valori e immagini dalla modernità in atto.
Ne scaturisce uno stile dalla connotazione fortemente poetica, assimilato in qualche modo al versante alla poesia “pura”, aspra ed essenziale d’un cento ermetismo italiano del primo novecento (Ungaretti);   da una parte “aspro” sobrio ed epurato dall’aspetto decorativo, dal falso formalismo d’una certa scultura, dall’altro sintetico, essenziale ritornando a questa “immagine primaria” della creatura ritrovata attraverso la pietra. “Struggente”, infine, perché vibrante d’anima, avvicinandosi come è stato  detto alla ricerca d’una parola poetica scarna, pura ed essenziale come nei poeti ermetici italiani dello stesso periodo, Ungaretti per primo.

Le “creature” di Martini scaturite dal suo “sogno di terracotta” attraversano riferimenti che vanno dalla scultura etrusca alla statuaria classica greca tuttavia mantenendo ben presente l’intuizione che la figura deve essere riportata al suo valore ancestrale di “creatura”, primaria, incarnata, abitata d’anima, cioè del respiro di vita come d’una qualità del vivente, infine scaturire dall’incontro o meglio dall’esperienza interiore ricevuta rispetto alla medesima. E’ “creatura” perché aderendo profondamente alla materia impura e densa di vita dell’umano nella sua intensità quanto nella sua manchevolezza resta attraversata da una qualità d’anima  che deve trasmettersi attraverso la terracotta nel lavoro scultoreo. La funzione dell’artista non sarebbe altro, infine secondo Martini che “purificare una passione, distruggere una materia e portarla a Dio”, dunque trasformare senza sosta attraverso il lavoro scultoreo, vale a dire epurare l’aspetto contingente dell’esperienza fenomenologica portandola fuori dal momento presente in una sorta di dimensione fuori dal tempo, d’incontro con l’assoluto  nell’evento o il fulcro stesso della creazione.




 
“Gare invernali", (1931)

All’ingresso della mostra come su una soglia in attesa o forse in una qualche sospensione atemporale tra un prima e un dopo, un dentro e un fuori l’avvenimento,  in questo luogo enigmatico dell’apparire, restando in margine, in uno spazio in limine alla loro incarnazione, al loro prendere esistenza in figure compiute come nei successivi lavori. Simili a custodi o numi tutelari, tali delle presenze vigili tornate alla luce da una materia prima recalcitrante, refrattaria-  la creta nella terra rossiccia del corpo femminile, in quella ocra del maschile- si tengono a lato come apparizioni guardandoci, guardate da questa soglia che apre alla realtà onirica e insieme alla concretezza materica di tutte le altre creature d’argilla. 

“Chiaro di luna" (1932)


Lo sguardo è rivolto verso l’alto, al cielo stellato da parte di due figure appena delineate nei tratti del volto, portate verso l’alto in questo loro proiettarsi oltre i limiti del contingente in contemplazione silenziosa.  Non è evocazione o allegoria plastica d’un incontro con la notte stellata o con la divinità ad essa sottesa quanto cogliere la figura in quell’esperienza interiore:  coglierla nell’atto di volgere lo sguardo verso alto, nel momento forse epifanico o in attesa di tale esperienza per darne una visione essenziale, “non mediata”, epurata da ogni formalismo esteriore.     Protese su un balcone appaiono due  giovani donne, similari come sorelle, sfiorate appena dal vento nel tratteggio lieve degli abiti, protese verso l’alto nella contemplazione lunare. I volti appaiono già a metà cancellati dal moto che li tende verso il cielo stellato,  nel drappeggio lieve indotto dal vento, portati verso l’alto come in un’esperienza d' ascesi estetica o sacra.

“La Veglia” (1932)

Angolo della stanza, la camera è riprodotta in grandi dimensioni in terracotta, a sinistra un tendaggio discende fino al pavimento, a destra dall’apertura d’una finestra si sporge una figura volta alle nostre spalle, della quale non vediamo che il retro del corpo nudo proteso in avanti, la nuca e le punte dei capelli discendere sulle sue spalle. Non sappiamo quello che sta guardando dall’altra parte, non abbiamo accesso alla sua visione, la finestra mette in comunicazione con un altrove a noi precluso dove spazio e tempo si dilatano oltremisura, oltre lo scorrimento del tempo degli orologi, come sprofondando in un interno della psiche o della memoria attraverso  un varco sulla sua parte d’ombra, recesso del corpo-desiderio che s’apre oltre il panneggio occludente della tenda. Tale piccolo teatrino anatomico del corpo  si proietta in un’oscurità, suggerita, non visualizzabile se non in questa zona d’ombra che s’apre verso un’altra realtà, sogno o memoria, nei recessi non conoscibili d’un io razionale e cosciente.

“Il cielo, le stelle”, 1932)




Gruppo scultoreo dalle imponenti dimensioni ispirato al complesso ateniese di Fidia con Fiona e Afrodite dal pantheon greco; la plasticità dei corpi figura attraverso il loro trattamento espressionista, espressivamente dato come fossero danzatrici agli inizi del xx secolo. Modellate attraverso il panneggio grandioso delle vesti sui corpi immensi con una parvenza di morbidezza, di plasticità, di fluidità nel dare forma a queste figure estremamente presenti dalle dimensioni importanti, più importanti loro che non le teste, una mancante e l’altra assente, portata in contemplazione verso l’altro . Ci colpisce l’audacia espressiva, il potere di presenza, la predominanza plastica di queste figure più nelle vesti-corpi che non nei visi, nella carnalità dell’abito modellato da una creta resa fluida, plasmabile come cera, resa malleabile e poi fissata nella forma finita di corpi di danzatrici su scena. 

"Donna al sole", (1930)
 
Risalta il carattere melodico della sua linee, la sensualità sottile con cui è guardata la figura che possiede insieme la grazia d’una scultura settecentesca, bianca e levigata e la leggerezza della venatura ironica che la connota nella piena naturalezza delle sue forme. Colta nel sonno in piena luce meridiana nel sole della creta che la raccoglie e la riverbera la figura è intera, integra non mancante di parti, tali i tratti del viso spesso assenti nelle opere precedenti, e solare, nella piena luce del giorno simile a lucertola strisciante al sole, a bestiolina uscendo dalla terra umida, fredda e invernale per cercare il calore del sole all’esterno. Liquida nel corpo, allungata, distesa, poi semi-raccolta come disegnando una linea di danza in sé, con la possibilità o la consapevolezza di tale movimento sinuoso e continuo, è corpo della solarità alla ricerca di luce, inebriandosi, compiacendosi gratificata  al tiepido riflesso della medesima.
La massa plastica si allunga e si distende, s’avvolge e si crogiola al sole d’inverno come bestiolina uscita fuori dalla terra allo scoperto alla ricerca di un soffio caldo di vita contro il cemento livido e freddo degli edifici ad accerchiarla. A lato un piccolo nudo del 1930 sembra porsi ai suoi antipodi: assorta, ermeticamente chiusa, avvinta in un modellato aspro, vivo ed espressivo, la figura appare molto più piccola, reclinata su sé, appesantita da questo fardello che la fa tendere verso il basso, precipitare come gravata da un'invisibile macchia o peso sulle spalle; aspra, avvizzita nelle mammelle, avvinta al suolo dalla sua propria forza di gravità.

“Venere dei Porti”  (1930)

E' seduta in diagonale, protesa verso l’esterno, guarda fuori, lontano, oltre la finestra, dall’interno d’una bettola dando su un vicino porto all’attracco delle imbarcazioni, su una sedia in attesa di clienti, i tratti aspri del viso, la posa malinconica. Guarda lontano, fuori oltre la finestra, verso il mare. La figura è a tutto tondo,  pensata con un ampio respiro, espansa nella sua volumetria in piena presenza, e insieme, fortemente connotata d’un radicale espressionismo. Salta agli occhi il contrasto tra il corpo nudo, ghermito, intagliato e in qualche modo consunto dall’epidermide ruvida e scabra, dalle mammelle di pietra avvizzite, offerte all’uso o alla vendita e il volto dallo sguardo assente, lontano, d’ un indifferente distacco, d’una strana estraneità, proiettato oltre il qui e l’ora dell’abbozzo disfatto della figura, verso una temporalità altra. Nella fuga o perdita del proprio fulcro vitale, in una assenza del sé come d'un anima fuggita o imprigionata altrove,  al di là di quello sguardo.

 “La lupa” (1930-31)



Una freccia le trapassa la schiena e il costato bloccando  la lunga chioma alle sue spalle, i capelli tirati indietro, tesi, rimasti serrati attraverso quella . A carponi sulle proprie gambe e braccia simile a fiera ferita, in agonia, sul punto di lanciare il proprio grido, sotto di sé grandi pietre, massi della durezza implacabile di rocce refrattarie che non potrà lanciare. Il proprio grido tra le mani puntato su quello sguardo di morte. Il corpo scarno, in tensione, palpitante d’ira  o di vita arrestata al suo punto culminante è quello d’una creatura felina, selvaggia, quasi antropomorfa in contatto con le forze fisiche e istintuali d’un l’innato potere del femminile: passionale, indomito stadio d’una femminilità liberata quanto sottratta in quel punto di morte. Il volto è quello della ferita lancinante, del colpo alle spalle non visto, del grido a metà trattenuto o ancora non del tutto fuoriuscito. La potenza, l’agilità del corpo femminile visto nella linea scavata e tesa del profilo rinviano alla sensualità, all’aspetto felino del puma o ghepardo, il volto è quello della lacerazione, la bocca dischiusa, le membra in tensione, gli occhi semi-cancellati divenuti un tutt’uno con il moto delle chiome tese all’indietro in questa sferzata violenta. Il suo vortice d’energia tensiva, acuta e improvvisa trova il proprio contraccolpo nella retroversione di testa e schiena , il proprio culmine in questa punta di freccia avvelenata, lancinante, conficcata a morte nel petto fino a trapassarle il costato.
In agonia in quel dolore proveniente da un punto oscuro al di là del suo sguardo e del quale non vede l'origine, il corpo si erge scarno, sensuale sul volto di fiera rabbiosa, trafitta d'ira, indomita nel dolore.

"La convalescente", (1932)



Smagrita e pallida distesa su una sedia a sdraio d’ un pallido interno borghese, intenta nella lettura in una  veste quotidiana la figura appare agli esatti antipodi della precedente, la “lupa”fiera e selvaggia sensuale e ugualmente trafitta,  in agonia. In un ambiente asettico, il corpo femminile estenuato, inerte, semi-dormiente, è privato d’ogni forza vitale di passione o sensualità. La veste appare ugualmente svuotata nei tratti di presenza del drappeggio, il volto distaccato sotto l'affetto d’uno strano non-dolore, assente d’una assenza d’anima a sé stessa. E’ creatura d’anima fuggita, partita, andata via da qualche altra parte in seguito a un accidente, un incidente, un terrore, oppure irretita, catturata nella gabbia interiore dove da qualcun altro è trattenuta, anima rubata e nell’impossibilità di tornare. Qualunque la causa, l'anima ha disertato il suo  corpo e questa creatura martiniana senza più soffio vitale, senza più respiro a renderla pietra viva, vivente è lasciata in giacenza su una sedia a sdraio dove noi lo incontriamo, ceduta a questo limbo di non-memoria, nell’esilio dalla sua piena esistenza. L’argilla refrattaria di Marini risponde, aderisce al sentito incisivo, aspro ed essenziale della fragile età dell’adolescenza.

"L’aviatore", (1931)


Influenzato dall’aero-pittura futurista, agli antipodi della retorica celebrativa del regime fascista che utilizza ampiamente i mezzi dell’aviazione in un ottica di conquista durante la prima guerra, l’aviatore”” di Martini,è scultura sospesa nel vuoto poggiando in un sol punto invisibile a contatto con la terra, sospesa come per sovvertire in qualche modo i criteri di staticità, le basi stesse d’una linguaggio scultoreo spento e accademico guardando al passato. L’aviatore sfida con le proprie energie le forze di gravità riducendo in un sol punto il contatto con la terra; il corpo nudo, tensivo a un punto legato alla terra, a un altro puntando verso l’alto, verso la contemplazione dell’assoluto. Atletico, teso, scolpito in fasci muscolari di presenza, è l’energia assoluta, la potenza al massimo grado dalla fibra dell’essere, l’individuo nuovo che si auto-genera, si auto-erige, esiste nella piena affermazione di sé, dei propri interni valori, si libera del fardello dell’innata colpa, della materia morta del passato, dei vuoti simulacri della divinità sfidando la retorica celebrativa strumentalizzata dal regime. E’ l’uomo superiore, auto-generato che esiste ponendo fine alla condizione di schiavitù morale precedente, alla sua cecità o perdita di senso in un rovesciamento che è insieme elevazione e auto-affermazione della sua nuova esistenza. Con il costato trafitto come Cristo nel cammino della passione,  questo corpo performativo si auto-rappresenta, si mette in scena, parla in lui solo, si  scolpisce nelle sue membra d’anima-animale  volto al cielo. E’ fascio di nervi e anima con lo sguardo rivolto verso l’alto  simile a danzatore teso verso l’assoluto, sospeso con la terra che fa a lui leva in un sol punto. 


"La madre folle", (1929)


La figura umana in movimento della scultura classica si unisce alle potenzialità espressive della terracotta martiniana filtrando l'eredità etrusca  attraverso la tecnica di composizione detta “a sfoglia”. Concepita come fosse soffiata dall'interno in un disordine dirompente, sconvolta da una potente forza centrifuga inviata da un moto vorticante simile a vento di tempesta, la madre folle di Martini si erge improvvisa e coinvolgente come un'apparizione dai tratti arcaici  nelle suggestioni che rinviano dalla tradizione etrusca e , insieme, estremamente innovatori nel dar vita a una “creatura” di pietra oltre i limiti del naturalismo dell'epoca. Volto, braccia e busto  sono ricavati direttamente al tornio e poi modellati o intagliati, la parte della gonna  costituita ugualmente da un vaso centrale come un grande lenzuolo di creta a cui in seguito è stato aggiunto il panneggio. La figura è presa in questo vortice o forza centrifuga portando dall'interno verso l'esterno del corpo in un disordine atemporale o moto aspirante che conduce verso il sublime d'una martire o d'una furia indomita. Esiste forse solo in questo vorticare d'energia intorno al suo centro dove punto focale resta il busto della donna scolpito in una sola forma con addosso il  nuovo nato, piccolo involucro indeterminato, appendice di sé che la madre tiene stretto al petto, serrata alla vita con una delle due braccia. Lei preda, sembra, di questo vortice d'energia che la riporta all'archetipo o all’immagine prima della furia urlante, della martire ribelle o della madre folle o terrificante nel suo lato di abissale oscurità;  in  ogni caso all’esternazione teatrale d’un sé reso a figura lirica su scena. L'involucro del neonato stretto al petto, il moto vorticante che la porta in alto, fuori di sé, l'ascesi, infine, al sublime romantico rendono qui la pietra carne, la creta materia viva, espressiva.












1- Cfr Livia Velani, « La scultura come poesia » in Arturo Martini, Milano, Skira, 2006



lunedì 23 settembre 2013

Ram 2013, “Trasumanar e organizzar” Pratiche trasumananti, (al MAR di Ravenna)


(Vito Acconci, "Intersections", Venezia 2013)



Trasumanare, dall’uso dantesco del termine, è l’andare al di là dei limiti della natura umana, trapassarla, trascenderla facendo l’esperienza del divino: alterità assoluta, illuminante rivelatoria attraversata o vissuta come visione che a fatica e solo parzialmente si renderà al potere del linguaggio. Nel filone tematico di questa esposizione “trasumanar” si rovescia nell’estremo opposto della “trasumananza”, “trasumanante”: cio’ che è per sua natura l’erranza, lo spostamento periodico, la trasmigrazione da un luogo all’altro, da un’identità all’altra, all’origine nella pastorizia. Si è scelto di parlare di “pratiche trasumananti” nella duplice valenza di questi due termini per inquadrare il lavoro dei giovani artisti esposti al Ram 2013. In primo luogo “trasumanar” come movimento nomadico è l’essere viandanti del pensiero, dell’esperienza in un nomadismo strutturale che si rifà alla sensibilità di tutta una generazione, a un modo d’essere del presente: sinonimo d’ inter-connettività globale, d’una mobilità reale facilitata, di viaggi low-cost, connessioni rapide e senza fili rese possibili dal digitale espanso, a banda larga utilizzato senza limiti da una comunità virtualmente costruita sulla rete. Dall’altra nomadismo diviene sintomo di instabilità reale, il disagio della precarietà strutturale, sociale o lavorativa, e dunque la necessità di trovare alternative praticabili , di divenire creativi nel pensiero rispetto a tale limite costringente del reale, camaleontici nell’identità rispetto a tale condizione d’essere determinata dal bisogno e dalla sensibilità.





Un passaggio percorribile a duplice senso attraverso le opere ci porta dalla transumanza come condizione assunta o vissuta d’una generazione al trasumanar dantesco come un cambiare di segno nel venire in atto del lavoro artistico: metaforizzare l’esperienza, operare passaggi metonimici dal singolare all’universale, trovare queste aperture rivelatorie nel linguaggio, nel segno, nella materia come un rendersi divini, ricongiungersi al divino in loro.

(Luca Barberini, Folla n. 6, 2013)



Naghmeh Farahvash, (mosaico)                                     




Griglia primordiale, spinta nomadica delle cellule in configurazioni differenziali ripetute;
sono connessioni di punti in movimento dove quello che conta è il tragitto, “l’andare verso”, il mettere in relazione prima come erranza casuale di punti poi come aggregazione ordinata dei medesimi in un “andare insieme” che è anche un “andare verso”: ricongiungere elementi tra loro insieme tendendo verso qualcosa . Le tessere si aggregano in sequenze periodiche sempre più vaste, in composizioni equilibrate giocate visivamente attraverso i colori come un cucire insieme cellule in un campo d’azione, in un tessuto, sia esso organico o vegetale, d’un corpo o d’un tappeto. Le origini persiane dell’artista si ritrovano in questa paziente tessitura come di fili diversi giorno dopo giorno orditi insieme generando la purezza cromatica d’un disegno regolare e astratto dove tuttavia riemergono cellule viventi, punti di bianco rilievo che oltre l’apparente assenza di colore del tassello mancante appaiono risalire in superficie dal loro proprio campo magnetico come veri e propri fulcri luminosi. Ed è in quei punti che la luce vibra in intensità dal suo proprio nucleo espressivo, irradiante in lui solo.








“Infestanti””, Fabiana Guerrini





Infestanti, infestate maschere di animali-umani; “animali ibridi con la coscienza di semi-dei egizi”; nate dalla commistione dell’umano, dell’animale, del vegetale.

Sul retro contro la parete dove discendenti restano sospese come maschere sono le ceramiche dipinte a freddo dei loro supporti, impresse in filigrane di finissimi scheletri di foglie, in mappature trasparenti, semi-invisibili impresse in bianche nervature del micro-cosmo vegetale.
Sono identità in divenire, nomadiche e per questo ibride, perché riecheggianti come animali all’umano ma aprendo a lampi di coscienza sulla divinità. Trasumananti per condanna genetica, condannate a questo loro trasumanare incessante attraverso una serie di divenire,
nell’infra-umano, infra-genetico, nella zona fuori dal tempo catturate in questo loro stato di indeterminazione da uno stadio all’altro, da un regno all’altro e lì lasciate in tale sospensione o congelamento senza tempo.
Trasumanare è anche dal ritratto vivente, dall’ io identitario del luogo di realtà alla scultura come maschera lapidaria, marmorea, fuori dal tempo oppure all’icona come rappresentazione sacra trasfigurata, qui apparendo ormai lontana dal piano dell’incarnazione, più vicina nella maschera rituale d’un rito iniziatico.





Stefano Pezzi, (fotografie)




Volti situati a migliaia di kilometri di distanza interconnessi alla rete globale tramite Skype vengono ripresi e fotografati nel corso di conversazioni-video al computer. Il fotografo gioca con queste presenze differite, non esistenti se non in immagini video virtualmente date, simulazioni di presenza, presenti in sfocatura intenzionale come oggetti ottici costruiti dal medesimo.
Tale la misura in cui il digitale cambia la nostra percezione del mondo nel rapporto tra vicino-lontano, presente-assente, reale o virtuale, ricercato o temuto, desiderato o messo a distanza. Cinquanta scatti al minuto affidati più all’automatismo della macchina fotografica che non a una presenza autoriale fissano istantanee di questi volti in una imperfezione fotografica voluta, in una sfocatura intenzionale prodotta in maniera del tutto aleatoria. Le immagini-video di questi ritratti divengono i volti di un “l’ultra-umano prodotto dall’appendice tecnologica”[1], prodotte dal video come immagine elettronica in un suo proprio “trasumanare di segno”[2]. Rimpicciolite o ingrandite, inquadrate a lato o espanse sull’intero schermo, vicine o lontane, precise o più spesso sfuocate, trasposte dalla loro realtà immediata di soggetti. L’immagine subisce la metamorfosi del video, video che “genera una propria materia” nell’espressione di Jacques Rancière come se “ la forma troppo pura” o “l’avvenimento troppo carico di realtà” fossero “ messi fuori da loro stessi”[3] sostituendovi una logica discontinua dei caratteri discreti del digitale. Volti dell’alterità dell’immagine elettronica, dell’ultra-umano prodotto dall’appendice tecnologica.







“Figli dei figli”, Alessandro Camorani, (fotografie)






Panni stesi, case popolari, cemento grezzo e fumo di sigarette, laideur repandue sullo sfondo di giovani della marginalità nei sobborghi urbani italiani. Il nomadismo è qui quotidiano malessere esistenziale causato dalla mancanza di mezzi, dal disagio o l’insofferenza nei confronti di un presente rigettato o vissuto con difficoltà, con precarietà, di un passato che sfiora i limiti di droga e illegalità. La fotografia segue i trasumananti di queste periferie urbane, i reduci di questi naufragi moderni del presente, li fotografa da vicino nella loro realtà al quotidiano, esposti, in presa diretta, con un approccio quasi intimista, personale e insieme messo a distanza in sospensione di giudizio. Il nomadismo è sinonimo di scollamento totale dal tessuto sociale e lavorativo, il fardello dell’eredità genetica e famigliare a incidere sulle loro esistenze fino a farli abdicare dalle regole del gioco, del mondo,
della partita in atto senza saperne imporre o creare altre, le proprie contro l’improprio di cui sono imputati.
Tuttavia, la nascita della nuova nata nelle fotografie segna come lo spiraglio di luce, il desiderio di riscatto, il momento fuori dall’ordinario o "l'extra-ordinario” del suo “venire alla luce”. La piccola viene a noi di fronte all’obbiettivo nel suo etereo, indifeso arrivare nel mondo, all’improvviso, in questo suo bisogno estenuante di cure, di attenzione: minuscola, vulnerabile, indifesa quasi per la nascita prematura tra le braccia della giovane coppia.
L’immagine segue questo trasumanare come passaggio o trasmutazione verso un atto di grazia, un momento fuori dall’ordinario passando dal precario, indigente e sordido di quel presente subito più che scelto, sopportato più che vissuto, verso il gesto colto dall’immagine del “prendersi cura”.
Nell'abbracciare con tenerezza la piccola  sorge nel giovane padre la consapevolezza di dover centrare il proprio campo d’azione su di lei ora, di dover apprendere un’attenzione diversa e rimpicciolire il proprio punto di vista per prestarle una cura fuori dall’ordinario.
Sui volti dei protagonisti la meravigliosa scoperta, l’inaspettata meraviglia per l’evento del suo esserci come il senso rivelatorio d’un riscatto, d’una salvezza non prevista per loro.







Maria Ghetti,( installazione)


“Contro l’apparente dualità” come titola l’installazione qui, di categorie dicotomiche imposte dal pensiero occidentale, contro i binomi mai neutrali del nostro sistema epistemologico o sociale in atto volti a stabilire la supremazia d’un elemento su un altro, dominatore/dominato, mente/corpo, intelletto/intuito, uomo/donna, occidentale/non-occidentale, sorge il multiforme dell'immagine catturata e rifratta dalla mobilità di questa installazione di multipli specchi interagenti tra loro. L’instabilità dell’immagine spezzata, rifratta per molteplici punti di vista, per tagli diversi della medesima crea questo effetto prismatico come d’un raggio di luce che passando attraverso un prisma ottico diverge e dunque deriva dall’uno, dall’unico, in senso nomadico scomponendosi in diverse altre rifrazioni ottiche dell’intero spettro del visibile. Gli specchi sono posizionati al suolo, deposti di fronte a un tappeto, accostati l’uno all’altro, tra loro frammisti, incastonati insieme a pezzi di foggia antica, arrivando come schegge di un vecchio mobilio, pesante, in legno, d’altri tempi, pesantemente imponendosi allo sguardo di cui restano solo, tuttavia, frammenti dentro cornici, in pezzi di mobili oppure sparsi, qui ricomposti tra loro in questo montaggio di superfici riflettenti.

Da distanza il corpo si rende visibile solo per parti contro gli specchi appoggiati al suolo: qui i piedi, lì le gambe e le ginocchia, parti del bacino, sezioni date per tagli visivi e simultaneamente visibili tra loro. Ora sedendo in ginocchio sul tappetto si rifrange il viso insieme di profilo, frontale, in primo piano, a lato, più distante il corpo senza testa, ora solo la testa sorpresa da uno specchio posizionato sul retro della figura di fronte a un altro.
Scrutarsi non visti, guardarsi criticamente, frontalmente, ora solo attraverso mani affusolate, lunghe e nodose, serrate in diverse posture.
Ancora, l’installazione di specchi messa a sistema riflette e respinge, rimanda indietro la propria immagine, riproiettandola a distanza come scudo riflettente nel processo che la rifrange e la frantuma, la rinvia e la scompone in diverse altre rifrazioni ottiche possibili: io soggetto, sé inconscio, l’io attraverso tutte le sue posture o imposture d’essere, l’io attraverso tutti i suoi travestimenti e trasformazioni, temporanee posizioni identitarie che si rifrangono nell’instabilità di immagini catturate e riflesse.



Giovanni Lanzoni, “la grande fuga” (pittura) 



Una scena vuota forse in attesa dell’umano, sedie vuote sul fondale rosso d' un tappetto intessuto di colori.
Platea, teatro vuoto della fine o dell’inizio, sala di spettacolo o luogo di preghiera dopo che l'evento ha avuto luogo, dopo che il rituale sacro o profano, teatrale o religioso si è compiuto, è passato lasciando le sue tracce, scie di fumo, l’aria consunta dai respiri o bruciata dagli incensi,
sedie qua e la in disordine, il sentore dell’evento, la potenza del momento che è passato lì poco prima.

Ancora quella scena vuota lì visualizzata è il luogo dove tutto è già stato o tutto deve ancora compiersi, l’ancora possibile; rosso è il colore dominante, vivo, arancio e giallo i complementari andando a riempire gli spazi vuoti, i toni cupi della precedenti pitture-cartoline della serie come la fine di qualcosa che si sentiva cupo e grigio, di scenari squallidi e angoscianti, e d’un tratto la visione si anima, diviene immensa nel colore, vivente.

Sono sedie vuote, alcune sparpagliate qua e là, anarchicamente rovesciate,
trasumananti, trasposte su un palco vuoto:una scena di teatro, una platea, un’apparizione,
una cartolina.
Un disordine apparente, una pretesa incoscienza,
l’incipit d’una storia da raccontare, d’un dipinto da dipingere,
una serata danzante immersa in colori caldi, che invitano alla vita.




“Home”, Samantha Holmes (installazione)



 




































Casa-io-corpo, leggera, svuotata, sospesa eppure solida se non in volo;
anche se trasparente quasi, di impalpabili radici alla terra connessa e espansa, riproiettata tutto intorno attraverso lo spazio in forme altre, in nuove emergenze.
In espansione, esternazione, estroversione fantasiosa di sé, ciò che implica solidità, radicamento.
Aperta perché affonda le sue radici in questo denso, profondo sottosuolo che porta in sé ovunque dal suo primo nucleo vitale.

E, ancora, questa casa fantasiosa e aerea, è intessuta di fili fatti di vento.
E’ l’aperto che implica radice, è l’infanzia, è l’io-mutevole e giocoso in tutti i suoi lati;
è la tenda nomade della trasmigrazione, dell’andare verso l’altro, verso l’altrove,
è il bianco leggero del ritaglio, impalpabile, di carta tra le dita.

E’ la valenza immaginifica o metaforica dell’io, è lo spazio espanso che dal suo corpo diventa la sua seconda dimora;
 è lo svuotamento delle strutture reali di mattoni per dare spazio alle strutture effimere del pensiero, alle visualizzazioni creatrici dalle sue immagini.

Questa casa somma dei suoi infiniti ritagli è luogo di incidenze sottili,
di leggerezza calcolata, voluta, simile a costruzione di carta trasparente, effimera quasi,
sospesa a un filo eppure espandendosi nell’aperto delle sue impensate possibilità.












[1] Cfr. R.A.M 2013 Trasumanar e organizzar, p. 47
[2] Ibid., p. 47
[3] Jacques Rancière, « l’image pensive », p. 137, La Fabrique, 2009