sabato 31 ottobre 2015

TRACCE, INTRECCI E RITRATTI, a proposito di GAEM 2015 (giovani artisti e mosaico al MAR di Ravenna)






La traccia si iscrive, si imprime o si deposita, nella pietra o sulla tela, attraverso i tasselli e le lamine di mosaico, tra le schegge di vetro, i residui di calce o sui graffiti ai muri. Ricopre di smalto  i marmi, il grès e la ceramica, riempie con miriadi di sassolini e pietruzze incastonate l’una all’altra i solchi che l’acciaio lascia scoperti dentro la loro cornice vuota . Striatura intenzionale sulla materia del mondo, la traccia  assume ogni volta nuova forma, dando vita a una propria realtà nel linguaggio, qualsiasi sia la materia in cui viene iscritta. Allo stesso modo un’impressione si deposita, una parola si scrive, la traccia d’un esistenza manifesta il proprio segno vivo nel linguaggio, corpo scritto e scrivente sul mondo. Un filo si intreccia a un altro e trova la propria tessitura, la propria estensione nello spazio, tra l’io e il nostro piano dell'esperienza, tra la misura dell’intelletto e le fluttuazioni della nostra sensibilità. Nella messa in arte che il linguaggio produce l’interno si riversa nell’esterno e viceversa, ugualmente il tempo proprio, interiore assume una concretezza, un’estensione nello spazio; ogni vero istante diviene un punto preciso del firmamento mentre  il corso del tempo, tutto ciò che accade nella continuità dei giorni e delle ore è una linea sfumata, perduta e ritrovata come la trama vaga di un’esistenza- linea puramente spaziale o quella d’una pagina scritta. Può presentarsi come una linea dritta, tendente all’infinito oppure ondeggiare, avvolgersi a spirale, chiudendosi a cerchio perfetto su di sé: sfera che porta in sé la propria perfezione, auto-alimentandosi d’un energia propria in un micro-cosmo a sé.




Nell’allestimento GAEM 2015 al Mar di Ravenna il connubio tra giovani artisti e mosaico contemporaneo ha dato vita a opere d’una grande vitalità creativa dove il processo di sperimentazione sulla materia e sull’uso dei linguaggi è stato spinto ai limiti formali dell’arte contemporanea fino a non distinguersi veramente molto da questa oltre lo stretto dominio della tradizione e della tecnica consolidata dell’arte del mosaico oppure rifacendosi alla medesima per rileggerla alla luce d’una sensibilità del contemporaneo. Le opere appaiono affidarsi più alle pure possibilità della materia, al gioco del contingente o all’intrusione di un estetica dell’intempestivo, dell’attuale intrisa di elementi identitari e soggettivi che non a una intenzionalità a priori data dall'artista. In altri casi, si esplorano semplicemente forme e tecniche non convenzionali delle pratiche artistiche contemporanee; così la pietra si frantumata e i singoli tasselli o i frammenti di diversi materiali ricomposti in linee oblique, irregolari o interrotte divengono tracce che decostruiscono per loro stessa natura l’idea di composizione, di rappresentazione, di mosaico come forma decorativa vista in una costruzione unitaria. Minuscole lamelle colorate,schegge o pietruzze ritagliate, allo stesso modo, possono ricostruire l’apparenza di un panno morbido di nappa colorata evocando la qualità apparente o simulata della lana, del tessuto, della stoffa o del nylon, per caricarsi infine di tonalità sature, artificiali dalle vernici industriali al giallo elettrico o al violaceo magenta. Quasi che l’elemento esterno determinasse con la sua contingenza l’interiorità dell’artista mentre la mediazione della traccia, il mezzo materico inteso essere dall'inizio semplice strumento per raggiungere la vera forma d’espressione, divenga la sola interiorità o verità possibile. Il segno inerte, passivo e vuoto all’origine, allo stesso modo riemerge come un elemento pensante in sé, fulcro vitale dell’opera.




Matylda Tracewska"Aquarium" (di marmo madreperlaceo, vetro trasparente e opaco, colori minerali su malta).

 







In questo acquario guizzano frammenti di corpo, frammenti di sé. Guizzano pesci madreperlacei alla deriva, scintillanti in argentei tasselli, pezzi di sé alla deriva come scaglie dorate di manti di sirene e occhi puntati sul dorso_ guardarsi alle spalle_
Scarpe beige antico, il solo colore in evidenza di vecchi piedi stanchi e gambe gonfie ritagliate dal resto della figura.
Guizzano maschere linguacciute di qualcuno che sberleffa in volto, fluttuazioni di corpi e capelli alla deriva, liberi, mossi o espansi in trame ondeggianti sott’acqua.
Frammenti di corpi, frammenti di sé, ritratti di volti perduti o a metà cancellati e bocche dissimulate dai movimenti delle onde. Il volto di un bambino sfuocato riappare a tratti tra la nebbia di un’incerta memoria; ancora sulla porosità della pietra vediamo scintillanti squame di pesci diamantati e sirene in una danza sott’acqua dove verdi occhi smaglianti vi fissano dal fondo dei loro tratti.

Tra le fluttuazioni immaginate dei corpi alla deriva sono le immersioni senza ritorno a riva oppure i vaghi ri-affioramenti di sé in questo mondo acquatico e lunare fatto di distese grigie e indistinte perdendosi nell’ indeterminato. Punti madreperlacei vi si stagliano, nitidi e irripetibili come i tratti unici di un' immagine sulla linea indistinta del tempo e dall’interno della propria forma-memoria.
Dentro una bolla di sapone, sott’acqua, creature marine fluttuano a tratti in un acquario immaginario di volti riapparsi sulla porosità greve della pietra.




Sara Vasini, “Una stanza tutta per sé”





Una stanza di parole ha inizio da una filigrana di rosso inchiostro lievemente intessuta di segni, espansi e in continuità l’uno all’altro sulla carta, sgocciolanti ancora della traccia a vivo deposta dal loro tratto inciso. Ora si presentano arzigogolanti e intessuti, marcati a coagulo di inchiostro in qualche punto, ora espansi come trama di parole sulla superficie piana e bianca della parete. Divengono fogli attaccati l’uno dopo l’altro in un mosaico di pagine scritte, per una stanza che si costituisce da sé, foglio dopo foglio, appeso, appuntato alle pareti fino a riempire o ricoprirne completamente la loro immensità vuota. 
Metaforica stanza della scrittura, lì dove essa comincia delinearsi, dal corpo in primo luogo, dal segno tracciato d’una mano su una pagina bianca, lì dove comincia a imporsi, a essere ovunque, immensa e sconfinata, spoglia e viva, semplice e terribile insieme nell’atto primo della sua genesi.
Vuota immensità di fronte agli occhi nell’ implicito enigma del suo attraversamento.

Un mosaico virtuale si ricompone di mille possibili percorsi, di sentieri incrociati da seguire come foglietti di inchiostro rosso volanti, incollati insieme a caso sul fondo d’una parete beige lucida e riflettente fino a dare il senso d’una storia, d’un testo scritto o da raccontare, differentemente secondo come lo si legga, in quale direzione si scorrano le frasi, da quale lato le cartelle. Abbozzi di materia procedono per aggiunte e ricomposizioni casuali come passi su un sentiero che può perdersi in mezzo a un bosco di parole, nel nulla della pagina bianca oppure divenire significante d’un tratto per l’improvvisa alchimia del fare poetico nella foresta del linguaggio.

Raffaella Ceccarossi “ Innocent, ma tutto ciò che sei lentamente svanirà”




Si “naufraga” nella stanza del ricordo dopo aver attraversato quella della scrittura  nell’opera  "Innocent, ma tutto ciò che sei lentamente svanirà”. Là lo stato di innocenza è simulato o ritrovato, ricostruito o ricomposto in tasselli di mosaico partendo da una foto d’infanzia. 
Nella ricostruzione del volto le tessere appaiono perdersi nella disgregazione della figura sul retro della tela. Il ritratto tende a svanire sul fondo, a perdersi o disperdersi nella nebulosa indistinta della memoria oltre la sapiente ricostruzione del volto in primo piano. Il riaffioramento è incerto, fugace e effimero come la sensazione generata da un istante di memoria involontaria richiamata in vita da un’evenienza del presente, in questo caso dal riapparire d’una foto del passato. L’immagine emerge dal fondo, a fatica, riappare come questo stato di innocenza richiamato in vita dal volto della bambina in un’irradiazione improvvisa sgorgante di luce dal centro del ritratto. Un fulcro di luminosità intensa e improvvisa emana dal centro del petto nella zona del cuore prima che da quella degli occhi o del volto soggetto già al processo di scomposizione in atto nel resto del ritratto. Sul viso uno strano stato di stupore, la ri-emergenza fluida e alonata d’una luminosità compare come un istante di memoria percettiva, involontaria, un istante di sensazione ritrovata che si ri-presenta, viene a noi viva e materializza nel ritratto partendo dal centro della figura mentre il resto tende a scomparire in secondo piano. Lentamente disintegra nel lavorio della tessera, lasciandosi inghiottire come soggetta alla corrosione del tempo, alla disgregazione asincronica della singola particella. Come sfuggisse ai nostri occhi il ritratto appare lentamente  dileguare, gradualmente procedere verso un fondale reso sempre più etero e sfumato,   correre irreversibilmente verso la propria matrice o fondo immateriale. Lì, al contrario, al centro del ritratto, il volto rivive intensamente un istante: l’immagine nasce e muore nell’istante di quell’innocenza perduta e ritrovata.

Andrea Sala, “Luna”


Un tessuto argenteo e irradiante espanso da un centro crea un suolo lunare ricostruito in mosaico con schegge di pietra e vetro, trasparenti, incastonate l’una all’altra nel riverbero dell’acciaio.  Una forma circolare, quasi messianica appare evocando, pura e assoluta  nel suo darsi, quelle geometrie misteriose ridisegnate dalle correnti o dalle forze naturali dell’universo; grandi vortici si iscrivono in moto sferico sui campi di grano come sulle distese immense e sconfinate delle pianure spazzate dal vento dopo che i campi sono stati mietuti e i raccolti sottratti alla terra. Iscrivono in sé stesse forze sopranaturali, vortici di energia divina, spostamenti infinitesimali della mano di Dio sulla superficie terrestre. La forma circolare espansa su una pietra dura, granitica e incisa nella roccia d’ardesia chiude in sé il cerchio d’ordine cosmico, divino, tale che è ripreso in questo perfetto micro-cosmo a mosaico.




Marco de Santi, "Ultra-contemporary bodies"


Chi sono e come si re-inventano questi “corpi ultra-contemporanei” cui si ispira l’opera di Marco de Santi, corpi del post per antonomasia, post-industriale, post-moderno, post-virtuale, post-concettuale della figura? Tali corpi virtualizzati sono ricondotti semplicemente a una serie di segni ottici e visivi, segnali elettronici riconnettendosi a tratti  come puri indici astratti  distribuiti in una geometria rigorosa di linee e forme che incrociano a scacchiera,  a intermittenza, in connessione libera su un pannello di controllo cosmico ritagliato dal riquadro universo. I loro indici si illuminano come la materia grigia si illumina a tratti in fulminee messe in circuito di idee, immagini, rapide quanto fugaci connessioni neuronali di pensiero o accostamenti di flussi transitori di percezioni al limite del cosciente, infine in immagini e sensazioni di istanti di memoria involontaria. Pannello di controllo assolutamente astratto, sprovvisto di qualsivoglia forza superiore e divina unificante in controllo, il piano è dato, al contrario, da un’ascissa e un’ordina di elementi in composizione libera, in variazione calcolata nello spazio, simile a un pannello cosmico fatto di spie, bottoni, scintille e piccoli punti luccicanti d’acciaio, croci, sfere, teste o prismi in una sorta di reticolo ottico visto in visione prospettica. Un reticolo di corpi-segni astratti e indici elettronici a intermittenza disegna  un ordine cosmico simulato, ricondotto a punti e segni essenziali nello spazio.      


"Absence", Carla Passarelli

Colonne di fumo salgono verso l’alto, un palazzo reticolare in mosaico, un grattacielo, un edificio si eleva a vista attraverso lo spazio. Parte dei tasselli del reticolo spariscono d’un tratto e i grandi riquadri sulla presunta facciata dell’edificio mosaicato restano vuoti. Ampi spazi bianchi si aprono in mezzo a loro come grandi interstizi che prendono piede tra una tessera e l’altra e ridisegnano l’opera in tangibili  impronte vuote di materia, di non-presenza. Grandi riquadri svuotati appaiono nel processo di sottrazione in corso. Assenza di materia, d’idee, di tratti quasi riaffermando una non-presenza del soggetto, dell’opera reale o simulata di mosaico, della tangibile materia di marmo. Essere là con questa assenza in sé a tratti, in tale inevitabile vuoto d’assenza assunto come statuto o  modo d’essere, di dirsi nel mondo.

Mohamed Banawy, "Aerials 5"

Antenne satellitari, sistemi digitali si spingono in alto, proiettandosi senza fili oltre il limite del quadro in trompe-l’oeil a vivo sulla ceramica dal fondo rosso magenta, contro il blu oltremare alternato al grigio asfalto della base. Si spingono come captatori di presenza verso l’alto oltre le linee basse e squadrate del blu e del grigio, oltre i riquadri sordidi e cementificati di presunti edifici evocando profili di città medio-orientali. Riportano alla memoria immagini di paesaggi urbani calcificati e di costruzioni semi-distrutte o non-finite. Contro quelli le antenne paraboliche in un inedito skyline medio-orientale si stagliano verso l’alto sopra mari di cemento grezzo e sulla proliferazione disordinata di blocchi e di colonne squadrate, non-finite, contro il sudiciume di strade dove l’asfalto si imbratta di rifiuti e polvere. 
Torri di captazione in primo piano in “Aerial 5” si ergono, in ceramica mosaicata, su un fondale rosso magenta costellato di punti luccicanti e luminosi, argentei e aerei come intercettatori a vivo di presenze nello spazio. Divengono captatori di energie sottili, di idee o di aerei passaggi di testimoni attraverso i corpi, di trasmissioni e influenze dissimulate attraverso l’etere, di fluidi, o forze d’attrazione e repulsione attraverso lo spazio , captatori, anche di influenze o intrusioni multiple tra gli individui oppure intercettando linee di sensibilità comune, idee o cammini similari,  a tratti condivisi. Oltre il visibile. Oltre la cementificazione del grigio, oltre la linea bassa e appiattente d’un orizzonte finito il rosso satellitare si impone scintillante in punti di contatto argentei come nuclei rifrangenti: fulcri generatori di pensiero e sensibilità condivisa.  


Ritratti
     


Il celeberrimo mosaico di Galla Placidia_ colombe che s’abbeverano a una fonte d’acqua cristallina_ viene rivisitato da Andrea Besana nella voluta disgregazione del medesimo visto sbriciolarsi al suolo insieme a parte del suo supporto mentre le polveri e la calce appaiono depositati in un mucchietto contro la parete rossiccia rischiarata di luce sul fondo. Il messaggio politico in primo piano, denuncia ironicamente come titola l’opera, “No money troo”, l’assenza di risorse distribuite dall’amministrazione pubblica per la conservazione del patrimonio d’arte italiano. In controluce, d’altro lato, una revisione post-moderna della rappresentazione appare, un modo di figurare decostruendo, rileggendo l’evoluzione estetica dell’arte contemporanea partendo dal suo risvolto interno, dal rovescio dell’opera presa nel suo margine di non-figurazione, di implicito non-ritorno o ironica citazione rispetto all’illustre referente del passato. Se il mosaico originario è scomparso in frantumi di calce e polvere al suolo quello che resta è il palinsesto, l’impronta de-figurata di un originale che non è più, la rivisitazione ironica dell’opera in sbriciolamento voluto, infine un dialogo tra il visibile e il non visibile, tra quello che il mosaico è per sua tradizione  e il suo atto di differimento, di  traccia che ancora e ancora si iscrive, altra, di rinvio ad altro posizionamento nello spazio, ad altra forma nel tempo.


Allo stesso modo, i “ritratti” di Agnese Scultz  in smalti e mosaico appaiono nella loro ripetizione  esasperata come una serie tracce in variazione, atti di differimento e appropriazione dei tratti partendo dallo stesso volto, di sdoppiamento e coloritura su grigio a seconda dell’atmosfera dominante in ogni versione. Procedono per doppi, come qualcuno che guardandosi allo specchio si proiettasse ogni volta differentemente in una nuova rivelazione di sé, alla luce o alle tenebre del proprio esserci, ora intaccato da aloni, macchie oscuranti sul volto fino ad appesantirlo e rimuoverne i tratti, marcatamente inciderli o defigurarli, ora alonato di smalti verdi e ocra,  rischiarato in precise zone del volto conferendogli una diversa intensità, una marcatura d’intenzione, d’espressione. Sempre, in ogni caso, è la tessera piuttosto che la composizione su supporto a dominare, l’interstizio aperto dal singolo tassello piuttosto che l’unità della figura nel ritratto tradizionale. 
In Clement Miteran, ugualmente, le “contingences” portano il ritratto della figura mosaicata a scomporsi, a infrangersi in pezzi e ricomporsi in nuova forma non perfettamente ricostruita dove le rifiniture in oro sono frammiste alle fessure aperte sulla superficie. Vediamo apporti o intrusioni d’altri materiali, pezzi di corteccia, tessere d’oro intersecate alla superficie malamente ricomposta del volto poi, iati, interstizi, spazi vuoti lasciati volutamente aperti  in una forma ibrida, post-moderna, la sola attuabile qui come ritratto in questa “ricomposizione per assurdo” della figura.

"ESTRUSIONI, ENTANGLEMENT"




Queste opere dalle tecniche più svariate e eterogenee, dai materiali in sperimentazione libera e non convenzionale possiamo anche leggerle come una serie di tracce scritte che ispirandosi al mosaico si rifanno solo metaforicamente alla sua estetica partendo dalla tessera come particella minimale, unità minima che compone e decostruisce la tessitura d’insieme dell’opera. Una serie di tracce scritte sul marmo o la pietra, sul legno, lo smalto, la resina o attraverso i pixel dell’immagine digitale circuiscono nei suoi limiti la tradizione musiva, ne mostrano le possibilità differendo il concetto stesso di tessera in un idiosincratico uso della medesima: tassello come pixel di immagine elettronica, come lettera a inchiostro rosso scritta su carta, come vernice, smalto o resina industriale su ceramica, oppure calce e detriti di cemento al suolo. Tali opere del contemporaneo mettono in tensione l’estetica del mosaico e la sua tecnica, la forzano, la allungano, la tendono come il tessuto elastico composto da fibre ottiche messe in movimento fino a generare nuove forme nel  video conclusivo della mostra. “Entanglement  ” mobilita il concetto di tessera che da particella minima vista nella staticità di un materiale solido come la pietra, l’oro, il piombo o il vetro intagliato diviene tessuto ottico soggetto a una serie di mutazioni infinite come dentro una danza d’acqua. Il suo ordito di fibre visto nella rifrazione elettrica di un blu oltremare si allunga, si deforma o tramuta visibilmente nella mobilità di linee divenendo altre e altre ancora. Già nell’opera di Barbara Crevatin  ad essa adiacente“Optical #1 Estrusioni” assistevamo a una messa in movimento puramente ottica dei quadrati statici in marmo decorati in smalti su ceramica  dove l’effetto e la luminosità del mosaico produceva rifrazione e interno eco ai riquadri moltiplicandone la potenza cromatica del bianco, del grigio, del beige e del nero. 
In una virtuale messa in movimento del quadro precedente “Entanglement”(Dora Bartolomei) è intreccio: tessuto ottico in metamorfosi video, intreccio di cellule, la doppia catena a spirale di un qualche DNA fotografato, nastro di Mobius a un solo lato e bordo ininterrotto o, ancora fascio muscolare. 
E' un corpo muovendosi in una simulazione di movimento, è l’idea della danza organicamente pensata come continuità e flusso, è la visione di un corpo elastico in espansione e restringimento.
 E sono ancora fiamme mosse dal vento, reticolo blu di fili intrecciati alla sua corrente, blu elettrico, nero incendio, tessuti aerei, fili reticolari, intrecci di vite.




domenica 4 ottobre 2015

Quaranta mila passi (liberamente da Claudia Catarzi, "40.000 cm2 " assolo ad Ammutinamenti 2015 Ravenna)



Jean Degottex




Jean Degottex








Cammina in uno spazio esiguo, ristretto come un fazzoletto di terra, circoscritto come un riquadro luminoso al suolo, dentro una cornice di linoleum lucida ritagliata sul vuoto circostante. Vestita con abiti comodi, quotidiani, appare d’un tratto su scena, per caso quasi, indossando un paio di pantaloni in morbida flanella, una maglia a scacchi grigi, rossi e neri e mocassini di cuoio dal tacco massiccio, risuonante al suolo. Comincia a muoversi lentamente, a fatica come fosse dentro uno spazio estraneo, ostile e dovesse renderlo proprio, sancirne la presenza con un gesto, misurarne la profondità o la piattezza, la ristrettezza o l’estensione attraverso i suoi passi al suolo, l’impronta e la misura dei propri piedi. Come fosse dentro una scatola cranica espansa e esplosa, una figura ingigantita e schiacciata con la testa voluminosa, enorme dentro quel minuscolo riquadro.

Con movimenti controllati, riprodotti al rallentatore, dettati da regole ferree, da un’interna rigorosa disciplina inizia a camminare, s’arresta, tenta qualche passo, abbozza un arabesque mentre le ombre al suolo ingigantiscono ancora nello spazio mostrandolo come un riquadro minuscolo e luminoso ritagliato sull’oscurità indeterminata del fondo. Si muove con stridore di passi, con la rigidità insita in un manichino ricondotto a una meccanica rigorosa, mentre rumori cigolanti si odono in sottofondo come di porte che girano a fatica sui loro cardini, serrature arrugginite o arti scricchiolanti per la lunga assenza di movimento o intirizziti all’arrivo dei primi freddi. Scarpe nere di cuoio, militari pesantemente battono il suolo in un rumore stridente, come di strappo o improvviso scollamento di carta adesiva d’un muro misurando a larghi passi il riquadro. L’eco di battiti sordi attraverso l’aria al peso del singolo colpo del piede al suolo. Dentro una scatola cranica il corpo si muove, macchinino, irrigidito mentre avanza e poi retrocede al battito ritmico d’un tacco, allo strappo improvviso d’un adesivo al suolo.

Un arresto inaspettato, un’interruzione imprevista e una ripresa completamente altra, differente, in una rinata atmosfera. La musica è ora violino mixato con altre sonorità elettroniche e una voce registrata fuori campo la accompagna ipnotica e ripetitiva, avvolgente e monotona a tratti parlando alla danzatrice in una lingua sconosciuta, in parole incomprensibili, scollate l’una dall’altra incongruenti ma dalla messa in risonanza avvolgente, dalla portata vibratoria giusta, in accordo o in risposta all’involucro interno della sua più essenziale presenza. Come se i suoi gesti ora, il vocabolario dei suoi movimenti ripetuti e ritmici, delle sue ondulazioni di braccia e abbandoni di gambe al suolo, delle sue oscillazioni di busto e bacino o ripiegamenti a terra in continue circonvoluzioni e rotazione sul morbido involucro terra volessero liquidare gli angoli, fluidificare i solidi, smussare gli spigoli, lottare contro gli spazi esigui fatti di punte acuminate e di varchi taglienti e estinguerli, deformarli fino a renderli morbidi, fino a vederli circolare su un piano infinito e continuo dell’universo. Pedana mobile, è una forza articolata e duttile quella che proviene o emana da questo involucro-corpo ricongiungendosi alla memoria fluida dell’acqua, dei liquidi, della continuità sottile e impalpabile del tutto cosmico.

Quattro passi nel riquadro divengono quaranta mila centimetri quadrati di spazio, di possibilità, di vie percorribili nell’invenzione o reinvenzione costante di sé. Scopre il continuo del suo corpo al suolo in una ritmica ineluttabile, dentro un mantra ipnotico e ripetitivo che entra in vibrazione con la radice innata e sotterranea del suo movimento. La scena è vuota, ciò che è acquisito, dato, appreso nell’esercizio della danza vuole essere dimenticato, sospeso o messo a tacere in un non-chiedersi e insieme “ri-chiedersi cosa risiede ancora all’origine del primo passo, nell’essenzialità del primo gesto, di un corpo al suolo cercando il suo proprio movimento avendo sottratto tutto il resto”. E il tempo fluisce, ciclico e monotono in un camminare avanti e indietro confondendo le coordinate e le direzioni, in un perdersi nel caos di passi che si muovono in mille sensi e in grande quantità fino a rintracciare un ritmo, nella nudità di sé una vibrazione sotterranea, un movimento d’onde che ci ricongiunge, infine, alla radice prima e intatta del nostro più autentico essere nel mondo.

Jean Degottex


Jean Degottex



Jean Degottex