sabato 23 maggio 2009

"Sullo Spirituale nell'arte" di Kandinsky


































"Ogni quadro contiene misteriosamente tutta una vita con le sue sofferenze e i suoi dubbi, le sue ore d´entusiasmo e di luce". 

Kandinsky di fronte al Lohengrin di Wagner scrive:
" vedevo mentalmente tutti i colori, erano li' d´avanti agli occhi. Delle linee selvagge, quasi folli si disegnavano di fronte a me. Mi apparve, in generale, come l´arte possiede una potenza, una forza molto maggiore di quello che può sembrare in apparenza."

"Bello e ‘quello che procede da una necessità interiore dell´anima; bello e´ quello che è bello interiormente".

"Sapere che ciascuno dei nostri atti, delle nostre sensazioni e pensieri e´ materia densa e sensibile dalla quale possono nascere altre realizzazioni; per questo non si è liberi nella vita ma soltanto nell´arte. La nostra sensibilità assorbe l´atmosfera spirituale di un´epoca e a sua volta la influenza, la impronta".

Astrazione e musica: " da qualche secolo la musica è l´arte che utilizza i propri mezzi non per rappresentare i fenomeni della natura ma per esprimere un mondo interiore e creare una vita propria di suoni musicali". Questo significa che un´arte può guardare a un´altra, utilizzando in seguito i propri mezzi secondo gli stessi principi. I colori divengono l´equivalente plastico della musica. I quadri per Kandinsky sono "composizioni sinfoniche" dove ognuna procede secondo un ritmo proprio , non necessariamente melodico. Sono forme che esistono in quanto tali, in maniera autonoma, procedendo da una necessità interiore e formando per tale via il tutto che chiamiamo quadro.

Impressioni: “espressioni dirette della natura esteriore rese in forma grafica e pitturale”.
Improvvisazioni: “espressioni principalmente incoscienti e in gran parte scaturite d´avvenimenti interiori, non più ispirate alle forme esterne della natura".
Composizioni: “espressioni nate allo stesso modo ma dove la ragione, il cosciente o l´intenzionale giocano un ruolo fondamentale. Il sentimento sempre, infine, le porta”.


"La contemplazione del colore provoca una vibrazione sull`anima" scrive Kandinsky in Sullo Spirituale nell´arte. La sua vibrazione fisica elementare raggiunge la natura psichica del soggetto, facendosi portatrice di una risonanza interiore. Il sentire é del corpo, luogo dove l`emozione fisica si libera in associazione a una risonanza psichica profonda. Cosi´, il rosso, colore caldo, vivo, bruciante, dell`eccitazione simile a quella prodotta da una fiamma, può risvegliare una sensazione dolorosa se associato all`immagine di sangue che scorre.

Colori caldi, freddi, chiari o scuri; colori che si arricchiscono di risonanze, d'eco o di vibrazioni quando si avvicinano ad altri , quando sono assorbiti, trascinati da una presenza più forte oppure quando la compensano ritrovandosi in complementarietà con quella.
Colori tendenti al caldo o al freddo, si fanno portatori di un movimento eccentrico o concentrico come due cerchi identici, uno giallo e l`altro blu, il primo irradiando verso l`esterno, il secondo ritraendosi verso il proprio centro.
Il giallo schiarendosi domanda luce, irradiazione luminosa, forza vibrante .
Il blu percorre, al contrario, il cammino della profondità, della densità interiore, della concentrazione su se` stesso fino a toccare una tonalità malinconica, saturnina quasi.
Il primo movimento del giallo è quello verso l`uomo, e s`accompagna, allo stesso modo, a un secondo movimento verso il mondo come ciò che precipita e si diffonde senza misura in una dispersione di forze nello spazio . Risvegliato agisce sull`anima come un`eccitazione nervosa, violenta, insostenibile quasi . E` un colore tipicamente terrestre che non conosce profondità. Vive completamente sulla superficie e quando subisce l`influenza troppo ravvicinata del blu si raffredda fino ad assumere un tonalità malaticcia, inautentica ed estranea alla sua natura.
Tale è la forza di ripercussione del giallo, colore della solarità, dell`eccesso di rabbia, di delirio o di follia furiosa secondo Kandinsky. E' anche la follia gioiosa dell`infanzia quando si versa nel gioco, quando dissipa e rovescia le proprie energie senza controllo sugli esseri e le cose abbandonandosi al puro principio di piacere.

Il verde assoluto e ‘il colore più riposante che esista: non si muove verso alcuna direzione, non ha alcuna risonanza di gioia,  tristezza o di passione, non reclama nulla, non attira nulla. L´assenza permanente di movimento e la passività sono le caratteristiche prime del verde , elemento immobile di per se´ statico su tutti i versanti. Eppure, quando esce dal proprio equilibrio, e si muove verso il giallo diventa un colore vivente, giovane e felice; quando approfondisce per una predominanza del blu appare, invece, serio e pensoso.

Il bianco lo si considera come un non-colore, simbolo di un mondo dove tutte le sfumature vitali sarebbero scomparse. Il bianco agisce sulla nostra anima come un grande silenzio, assoluto per tutti. Risuona interiormente come un non-suono, uno di quei silenzi musicali che interrompono momentaneamente lo sviluppo di una frase senza segnarne la conclusione definitiva. Un silenzio non spento ma pieno di possibilità´, uno spazio che potrebbe essere un giorno compreso.
Un niente prima dell´inizio, prima della nascita, dunque pieno di potenzialità,
forse l’immagine della terra alle origini.

Il blu è un colore tipicamente celeste nella visione di Kandinsky, costantemente volgendosi verso il proprio centro. Più è profondo, più " attira l`uomo verso l`infinito risvegliando in noi la nostalgia del puro e del soprasensibile".

Colore degli spazi illimitati, assolo di violoncello capace di toccare le corde più sottili dell`anima, la sonorità interna al blu porta in se` un desiderio di purezza, di superamento di se, della finitudine dell`umano. E` il colore del cielo, degli orizzonti infiniti ma anche delle onde fluide del sentire, delle modulazioni fluttuanti del pensare.
La natura cristallina dell`acqua, la trasparenza delle cose quando si rivelano ai sensi in maniera inattesa, un istante. Sarebbe forse il  cielo come lo percepiamo attraverso uno sguardo,  in un istante unico, come non l`avevamo mai visto prima.

Kandinsky attraverso le sue sperimentazioni astratte e antropomorfe ispirate alla musica   apre la via nell'arte moderna a un linguaggio pittorico che, parlando ai sensi e all’immaginazione, si ricongiunge a una dimensione spirituale dell'arte cui sottende la forma astratta nei suoi rapporti di superficie. Tale scrittura  del colore e della linea ricreata dall'immaginazione e re-investita d'un pensiero spirituale da vita alle sue innumerevoli impressioni, improvvisazioni o composizioni pittoriche. 




sabato 16 maggio 2009

Gesto e improvvisazione II











Ritrovare un’immagine del passato attraverso il più semplice dei gesti: ritrovarla dentro un atto o una parola che riscopro casualmente all’incrocio di azioni e percezioni risvegliate, lasciate affiorare in superficie attraverso un'esercizio di improvvisazione danzata.

Trasfiguro l’esperienza ordinaria; strappo al mondo gesti e atti apparentemente insignificanti.
La poesia la si trova anche nello spazio di un passo, di un cammino, oppure nell’immobilità di in uno sguardo, nella non-azione di un gesto trattenuto.
Approfondire , andare a vedere dove parte, dove esso mi conduce. Essere lì completamente, infinitamente dentro il momento.

Improvvisazione danzata

Peso in abbandono del corpo, inerte, ripiegato su sé stesso, addormentato o come avesse perso ogni segno di una precedente individuazione. Radiazione luminosa sul volto. La testa si risveglia per prima, si solleva come ricordasse d’un tratto, apre gli occhi poi ripiomba in una sorta di sonno ipnotico: letargia, o incomprensibile perdita di sensi. Le dita intirizzite incominciano a muoversi, si risvegliano uno a una, la vibrazione lentamente passa dalle mani, ai polsi, alle braccia che si distendono, si allungano, si protraggono nel vuoto disegnando, tracciando lo spazio come lo riscoprissero, l' inventassero per la prima volta. L’onda vibratoria si propaga, attraversa le spalle, la spina dorsale, il torso, la colonna per arrivare al bacino. I piedi e le gambe restano ancora immobili, la voce inudibile ancora, solo il respiro.
La tensione, l'allungamento estremo delle braccia e del torso attraversati da un’onda fluida, energetica e vitale contro l’oblio immobilizzante della base. I momenti d’arresto improvviso, l’amnesia dove il corpo è rigettato in una sorta d'immobilità si alternano ai gesti d’apertura violenti, avvolgenti, ai movimenti ampi, ondulatori del bacino, delle braccia, del busto.

Linee curve, volutamente morbide: lotta appassionata di forze contrarie, quelle che si ergono in altezza, quelle che ci riportano al suolo, quelle che si disperdono verso l’esterno, quelle che ritornano al centro.
Composizione fatta di forze antagoniste; tensioni che animano le forme inerti. Lentamente, mangrado il loro volere, aprendosi lo spazio come in uno slancio inatteso,
aprendosi un cammino, scavando il vuoto come ne disegnassero un percorso improbabile o incerto, allucinatorio forse, avanzando e retrocedendo a tratti, con gli occhi chiusi poi aperti, con le braccia e le bambe che si protraggono e si ritirano, lentamente portate dall’onda primordiale del movimento. Qualcosa si libera nel fare come per un intervento del caso .

“E’ questa coscienza acuta del movimento, questa concentrazione assoluta sul gesto che permette di introdurre una verità, una dimensione personale nel lavoro senza cadere nel patetico. Canalizzato dal lavoro fisico”[1] e distaccato dalla dimensione psicologica pura e semplice- cito Pippo Delbono- diventa un segno poetico, accede alla dimensione danzata. Un linguaggio personale si elabora cosi’ a poco a poco.

“Un attore cammina su una scena vuota; non fa nient’altro che camminare ma lo fa con una tale precisione, una tale forza nel suo cammino che attira l’attenzione come camminasse su un filo”[2]. (Presenza)
Poi, d’un tratto apre un ventaglio, niente di più che quel piccolo gesto d’aprire un ventaglio, ma lo fa al momento giusto, drammaticamente giusto. (Sente i ritmi del teatro naturalmente).
Esso si prolunga nel tempo, assume la consistenza, una densità, una presenza nello spazio.
Non è più il sentimento, la sensazione psicologica presso l’attore ma l’impulso organico che agisce. Intuitivamente sente che quello è il momento giusto. “E’ il corpo che risponde, non la testa.”[3]Sviluppare una coscienza, una concentrazione prima su ogni istante del movimento.
La danza di tutto il corpo fa sorgere la drammaticità. Mantenendo una tensione, anche nell’immobilità.

Lavorare sulla poesia insita nel movimento produce sulla scena non una storia ma una “poetic vision” come la definisce Carolyn Carlson. La terra, l’acqua, le forze che muovono il cosmo, ogni gesto che inventiamo per un nostro intimo bisogno di espressione nasce da un’interna idea o “visione”. All’inizio non ne abbiamo che una nozione imprecisa, un abbozzo sfuocato di materia inerte che comincia a emergere dalla massa oscura, dai tentativi vaghi di improvvisazione, li’ dove ci gettiamo a corpo perso, con gli occhi chiusi, letteralmente alla cieca senza sapere esattamente dove ci porti, in quale logica più ampia di composizione andrà a iscriversi.

Un’energia mi fa attraversare, prende corpo nello spazio per raggiungere qualcuno che è pronto a riceverla dall’altra parte, attraverso la potenza del suo darsi,
vale a dire la sua intrinseca presenza e precisione.

La pienezza e il vuoto al cuore della scena: questa economia del vuoto è una ritmica fondamentale che agisce in teatro come nella vita.
Il vuoto come il tempo dell’attesa, dell’oblio o della sospensione dolorosa si contrappone al tempo dell’azione, della passione, dell’istante vissuto e fino in fondo abitato:
l’euforia fulminea del momento, l’avventura gioiosa o estemporanea dell’attuale.






[1] Cfr Pippo Belbono, Il corpo dell’ attore
[2] Ibid.
[3] Ibid.

sabato 9 maggio 2009

Gesto e improvvisazione I


Quale intensità può prodursi attraverso un gesto semplicissimo, il più semplice dei gesti liberato in uno spazio dato, donato in un ritmo giusto ?
Esiste una relazione tra gesto e emozione, vale a dire, si inscrivono in maniera proporzionale oppure è necessario, al contrario, una depersonalizzazione- il vuoto nell’io- per lasciar venire nello spazio di un istante, quell’istante preciso, unico, abitato, da non mancare- l’inatteso che non sapevamo di possedere.
L’esercizio dell’ improvvisazione sarebbe, allora, l’ essere pronti a cogliere quell’istante quando si presenterà, “restando aperti”[1] al suo ascolto. L’essere dentro il momento infinitamente, sensibilmente, fino in fondo e senza pensare ad altro.





Un momento di verità su scena: danzare, improvvisare, con le parole anche,
su questa densità conflittuale che è essere umani, viventi, sentire;
su questo contrasto potente che è volere e non riuscire,
non poter uscire dalle proprie gabbie interiori, circoli imperfetti di senso.
La nostra immagine ideale, quello che ci attendiamo da noi stessi, tutto lo sforzo che mettiamo per costruire una figura solida, stabile dell’io,
poi le forze irrazionali, le reazioni incontrollate, i silenzi, i blocchi emotivi, le raffiche nervose, l’essere nella sua parte di incomprensibilità, d’estraneità, d’imprevedibilità,
l’umano preso al laccio della propria vulnerabilità, li’ dove ci scopriamo deboli, piegati su noi stessi, malati o folli di quello che non sappiamo.


L’identità attraversata dalla lacerazione intima alla ricerca di sé
tra dissoluzione e individuazione;
Un lavoro fisico e astratto in ogni caso: non c’è narrazione.
Un lavoro sull’energia: energia del gruppo, del singolo, dell’uno in opposizione o alla ricerca di comunicazione rispetto agli altri (come rompere una linea, disperderla, riassemblarla diversamente, passare da uno stato di mobilità a uno di stasi, come creare contrasti d’intensità che rendano la situazione interessante, esplosiva).
Lavorare sull’impulso che genera il movimento, sulla precipitazione, la fuga, la caduta, lo slancio, l’attesa, la sospensione, il vuoto, l’aggressione o la difesa. Infine sull’onda primordiale generatrice del movimento… Stati fisici precisi. Poi cercare di dare un valore drammatico ai singoli movimenti scoperti. Quando il movimento non è semplicemente “bello esteticamente ma raggiunge un valore di segno”[2] per usare l’espressione di Delbono.
Faccio segno, traccio lo spazio: lo incido, lo contamino, lo approprio, lo sporco anche con la mia presenza. Non può più essere neutrale allora dal momento in cui sono lì e agisco, diffondo un’aurea nel luogo.
Sono un corpo, una parola, un segno nello spazio.




[1] Cfr Peter Brook, Lo spazio vuoto
[2] Pippo Belbono, Il corpo dell’ attore

sabato 2 maggio 2009

Gesto e improvvisazione

































Il gesto nello spazio
non é semplicemente un fare, ripetere o rifare qualcosa che già esiste come l’atto codificato di una pratica teatrale oppure nell’infinità di gesti che compongono la nostra vita quotidiana. Posso partire dalla cosa più semplice, un dettaglio insignificante o un’azione banale che ritrovo sotto la pelle scolpita delle mie abitudini, nei micro-movimenti incontrollati che compongono la trama del mio fare quotidiano: sussulti, scosse o reazioni nervose appena percettibili sotto l’apparente controllo in cui ogni corpo si regolarizza, si costiutisce, si autocensura. Posso osservare questi miei gesti di insofferenza, di impazienza o di rabbia, questo modo di guardare quando sposto il mio centro mobile d’attenzione non solo con gli occhi ma anche con la testa, un braccio, un gomito, una gamba. Come stabilisco il contatto con chi si trova a distanza ravvicinata da me, contatto di corpi che si ascoltano, si parlano, e si ripetono, riprendendo, rubando l’uno dall’altro. Sono entrati in una zona di influenza, di commistione, nella sovraposizione invisibile di frammenti, di lembi di pelle, nella prossimità dei loro campi magnetici uniformatosi l’uno all’altro. Per esempio: “ti scruto, ti guardo, sono guardato, mi avvicino, temo, esito, avanzo, retrocedo, rido, fingo indifferenza; mi ignori, riprendi il discorso, la parola scivola da qualche parte, ne riprendi il controllo in extremis. C’é come una sospensione dolorosa, minimale, il silenzio ora. Qualcosa é passato, un vuoto spinto, la cosa non detta, poi un cambio repentino di soggetto. Come entriamo in comunicazione, come siamo consapevoli l’uno dell’altro, come diciamo delle cose a parole ma, poi, il corpo si muove in un’infinità di altri messaggi subliminali: passaggio fluttuante, richiesta inconsapevole, silenziosa dall'uno all'altro e ancora, l’anello mancante della catena, per questa cosa che é li’ e non si lascia dire, tacere neppure. L’attenzione é mobile, flebile, segue l’andamento delle rotture, i vai-e-vieni, l’ondata, la marea, il vago percorso delle energie mobili nello spazio.


Esattamente é quello che entra in gioco sulla scena potenziata di una improvvisazione : la questione del’energia, del plasmare fisicamente un tempo e uno spazio, di inciderlo, modificarlo, abitarlo, comprometterlo con la mia presenza. In questo uso particolare del linguaggio corporeo non é più semplicemente quello che faccio ma la concentrazione estrema, la lentezza insopportabile, la tensione saturante con la quale imprimo ogni movimento come se fosse appunto, non più qualcosa di puramente esteriore, ma un mobilitare il corpo virtuale che si nasconde dietro a quello apparente.

Attraverso soglie di sentire, passaggi di intensità, vuoti e pieni, estremi di inconsitenza, di leggerezza oppure di una pesantezza tragica e devastante. Passaggi fluidi non più di materia ma della potenza stessa- virtuale, mobile, energetica- che é il mio corpo, che esso porta in sé non come ideale statico ma preso in questo spazio-tempo disegnato dalle mie energie in atto.

Sono piegato a terra, accovacciato sulle ginocchia oppure contratto in uno spazio ristretto con la schiena volta all’interno e le spalle ripiegate di dentro.
Sono una conchiglia, una nuvola, un bozzolo, un fiore, una larva, una lumaca;
sono allungato, teso, disteso, un’ammasso di pelle e d’ossa senza forma;
una macchia di colore che si allarga senza più dimensioni oppure un arco teso,
una maschera irrigidita, la parodia di un me stesso ideale, unificato, irragiungibile ora.
Uso la lentezza, la concentrazione estrema dei gesti perché assumano una pregnanza fisica nello spazio, perché vadano a risvegliare delle energie inutilizzate, addormentate nel corpo,
perché vadano a modificare la mai relazione all’esterno,
il mio rapporto a uno spazio-tempo unitario dove sono immerso e che chiamo esistenza.