sabato 9 maggio 2009

Gesto e improvvisazione I


Quale intensità può prodursi attraverso un gesto semplicissimo, il più semplice dei gesti liberato in uno spazio dato, donato in un ritmo giusto ?
Esiste una relazione tra gesto e emozione, vale a dire, si inscrivono in maniera proporzionale oppure è necessario, al contrario, una depersonalizzazione- il vuoto nell’io- per lasciar venire nello spazio di un istante, quell’istante preciso, unico, abitato, da non mancare- l’inatteso che non sapevamo di possedere.
L’esercizio dell’ improvvisazione sarebbe, allora, l’ essere pronti a cogliere quell’istante quando si presenterà, “restando aperti”[1] al suo ascolto. L’essere dentro il momento infinitamente, sensibilmente, fino in fondo e senza pensare ad altro.





Un momento di verità su scena: danzare, improvvisare, con le parole anche,
su questa densità conflittuale che è essere umani, viventi, sentire;
su questo contrasto potente che è volere e non riuscire,
non poter uscire dalle proprie gabbie interiori, circoli imperfetti di senso.
La nostra immagine ideale, quello che ci attendiamo da noi stessi, tutto lo sforzo che mettiamo per costruire una figura solida, stabile dell’io,
poi le forze irrazionali, le reazioni incontrollate, i silenzi, i blocchi emotivi, le raffiche nervose, l’essere nella sua parte di incomprensibilità, d’estraneità, d’imprevedibilità,
l’umano preso al laccio della propria vulnerabilità, li’ dove ci scopriamo deboli, piegati su noi stessi, malati o folli di quello che non sappiamo.


L’identità attraversata dalla lacerazione intima alla ricerca di sé
tra dissoluzione e individuazione;
Un lavoro fisico e astratto in ogni caso: non c’è narrazione.
Un lavoro sull’energia: energia del gruppo, del singolo, dell’uno in opposizione o alla ricerca di comunicazione rispetto agli altri (come rompere una linea, disperderla, riassemblarla diversamente, passare da uno stato di mobilità a uno di stasi, come creare contrasti d’intensità che rendano la situazione interessante, esplosiva).
Lavorare sull’impulso che genera il movimento, sulla precipitazione, la fuga, la caduta, lo slancio, l’attesa, la sospensione, il vuoto, l’aggressione o la difesa. Infine sull’onda primordiale generatrice del movimento… Stati fisici precisi. Poi cercare di dare un valore drammatico ai singoli movimenti scoperti. Quando il movimento non è semplicemente “bello esteticamente ma raggiunge un valore di segno”[2] per usare l’espressione di Delbono.
Faccio segno, traccio lo spazio: lo incido, lo contamino, lo approprio, lo sporco anche con la mia presenza. Non può più essere neutrale allora dal momento in cui sono lì e agisco, diffondo un’aurea nel luogo.
Sono un corpo, una parola, un segno nello spazio.




[1] Cfr Peter Brook, Lo spazio vuoto
[2] Pippo Belbono, Il corpo dell’ attore

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