martedì 28 gennaio 2014

Da Forsythe a Inger, visioni coreografiche a confronto
























“Workwithinwork” , di William Forsythe, portato recentemente in scena in Italia e in tournee' a Ravenna da Aterballetto appare, dal titolo stesso, come un “lavoro dentro il lavoro”, lavoro che sottilmente sposta le linee portanti degli antecedenti da dentro una partitura classicamente scritta, tecnicamente costruita nella sua vicinanza al codice-balletto del quale tuttavia giunge a far evolvere, o meglio a far divergere alcune linee essenziali di composizione coreografica. Ne manipola gli elementi dall’interno della cornice d'un obbligato riferimento classico, dall’interno del frame esistente, secondo un modo di percepire il movimento risolutamente contemporaneo: ipercinetico nei suoi slanci improvvisi in un vorticare di movimento, fluidissimo nel suo continuum di legati, incisivo infine perché costruito su un tempo musicale imprescindibile. Da dentro il lavoro sottilmente Forsythe scompone, scompagina i suoi canoni compositivi affidandosi alle logiche interne dell’”essere in movimento”, d’un “pensiero in movimento” su un corpo universalmente dato, astrattamente e globalmente visto. Tale corpo, dunque, in quanto portato all’astrazione della sua forma fisica e cinetica, diviene modello di transizione universale da un stadio di movimento a un altro, da una soglia energetica a un’altra, immaginabile nello spazio del suo muoversi ora fluido, continuo, ora stilizzato, spezzato o interrotto. “ Quasi fosse mosso da un’interna visione” del coreografo, quasi fosse visto in una dilatazione dello spazio e disegnato su una tela mentale virtualmente espandendosi all’infinito forse nella sua reale impossibilità ad essere tale.


Come scrive William Forsythe1 : “La coreografia richiama l’azione, un’azione seguita da un’altra come una serie di regole sintattiche governate da eccezioni. Le molteplici incarnazioni della coreografia non esistono in un singolo cammino di “forma-pensiero”, persistono, tuttavia, nella speranza d’essere senza poter durare”. Esse testimoniano della plasticità e della ricchezza di un corpo preso nello snodarsi intuitivo d’un movimento come “forma di pensiero” tangibile, fisico e quasi innato, e, ancora, preso nella sua abilità a ripensare se stesso costantemente divenendo altro sull’onda delle sue virtuali potenzialità all’agire alla sola condizione che accetti di allontanarsi dalle proprie posizioni di certezza, dal proprio sapere d’un movimento acquisito.


“L’oggetto coreografico” è pensato da Forsythe come un modello autonomo d’espressione distaccato dalla sua incarnazione in un corpo fisico reale divenendo un modo per astrarre tale “pensiero fisico” che è la coreografia dal suo più diretto manifestarsi o incarnarsi che è il corpo. Vuole essere un modo per astrarre, per rivelare i principi organizzativi della coreografia_ quelli che sottendono un corpo o un oggetto in movimento allo stesso modo delle leve che generano o inducono quel movimento all’origine_ per poi applicarli o trasporli su altre campi artistici come l’installazione o la performance.

“L’oggetto coreografico” sarebbe dunque questo “modello di transizione potenziale da uno stato all’altro immaginabile in ogni spazio”, come il passaggio che avverrebbe, mediato dalla percezione corporea, dal livello visivo a quello uditivo nell’esecuzione d’uno spartito musicale. Cosi’ “Workwithinwork” di Forsythe, sembra potersi ricongiungere a questo pensiero coreografico che vede il corpo come strumento dalle infinite potenzialità, come assetto fisico ed energetico nel quale si incarna attraverso la danza una certa visione o esperienza del “essere nel movimento” piuttosto che una reale presenza fisica abitata di carne e sangue su scena.


In questo senso “Workwithinwork” è concepito come un dispositivo coreografico autonomo con le sue dinamiche e le sue leve all’azione, i suoi slanci inattesi, plasticamente espandendosi, liberandosi in intere frasi melodiche per poi consumarsi in altrettante improvvise sospensioni, infine sempre ricettivo agli impulsi che gli vengono dallo spazio esterno nel suo configurarsi plasticamente in esso. Non è il corpo abitato di tanto teatro-danza contemporaneo, non è il corpo attraversato da liquidi e liquori di carne, fatto di carne e sangue, non è il corpo che traspira e soffre, suda e grida, non è il corpo animale o sessuato che vive nella materia ma è corpo figurale, iconico, svuotandosi d’una reale presenza, simulacro di sé stesso, è il corpo d’un pensiero coreografico incarnandosi attraverso la danza in un “physical thinking”2 , in un pensiero del movimento articolato da una precisa e complessa sintassi coreografica.






Nel processo, inevitabilmente, le logiche convenzionali della scrittura classica, del dettame del balletto si infrangono trascinandoci, sulle musiche di Luciano Berio, attraverso una serie di linee melodiche di danza, di traiettorie dai ritmi incalzanti, incisivi, imprescindibili nei duetti per violino che poi si interrompono all’improvviso arrestandosi in apici o punti di intervallo inattesi. La composizione musicale, ugualmente, si sposta costantemente dal continuo fluido del suono, alle sue vibrazioni interiori, l’eco risvegliato dal medesimo come quell’”entre” che scorre tra la partitura scritta dei singoli passi, infine al silenzio, all’inatteso, alle pause che ad esso si frappongono. Silenzi passano come questi luoghi d’assenza, intervalli d’essere e pause quasi oniriche su scena contro la forza cinetica, la concatenazione incalzante delle sequenze nei passaggi corali.

Il Silenzio, come scrive Gillo Dorfles “non è solo cessazione di rumore, del suono, d’ogni attività esplicita ma è, anche, presenza di qualcosa che non è definibile. Silenzio come pausa, come intervallo tra due suoni, pausa nella quale attingere ad ancora inespresse forze”. 3Gli intervalli, dunque, sono queste deviazioni e interruzioni d’un percorso tracciato che proprio in virtù di tale rottura si fanno propulsori d’una nuova carica inventiva, d’un nuovo potenziale espressivo trasformandone alla base il precedente dettame. I duetti sono abitati in questa alternanza tra slanci e pause interiori mentre punte e “tendus” si smussano in linee morbide e vorticanti intercalate da pause e interruzioni, poi di nuovo scorrono in un’onda fluida alternandosi a pause e saltelli codificati del classico.

Affascinanti linee continue e angoli smussati di nuove linee sono tracciate nel continuo del corpo in movimento, gesti ampi e avvolgenti di braccia e torsi accolgono, si espandono, si liberano su busti come curve guizzanti- come afferma una delle sue danzatrici “sorprendente quello che può far emergere un corpo”- intercalati da salti dai ritmi velocissimi di piedi qui fatti evolvere in rapidi passaggi dall' en dedans, all' en dehors.


Passi a due, duetti molteplici su scena si lanciano in questa corsa vertiginosa e fluida per poi arrestarsi all’improvviso e lasciar vedere i due o più danzatori uscire, allontanarsi dal palco, partire verso l’altrove. Improvvise pause, la scena si svuota, nuove disposizioni silenziose dei danzatori su una scacchiera virtualmente immaginata e altrettante improvvise riprese. Movimenti ondeggianti delle spalle e delle braccia trascinano progressivamente busti, bacini e posizioni statiche di piedi nel passaggio rapido tra en dedans, en dehors. Le braccia e le spalle si lanciano, saettano, volteggiano, le gambe dai loro passi statici seguono. Circolarità, plasticità dei corpi, movimenti rotatori facendo volgere la figura al loro ritmo, trascinandola nel loro tracciato plastico.Come afferma ancora una danzatrice di Forsythe:

“ E’ una lotta tra passi statici e, invece, urgenti, attacchi ritmici al movimento…Non c’è giusto o sbagliato ma diversi modi di muoversi, il mio corpo usato differentemente. Continuo ad aggiungere fino all’ultimo, fino alla versione definitiva. Con tutti i miei sensi cerco di divenire consapevole, di sentire ogni parte implicata nel movimento. Sorprendente quello che si puoi trovare, trarre da un corpo.” 4

Tracce lasciate, circolari, ruotanti o spiraliformi, una corrente fluida plasma traiettorie sul palco.









Sul fondale nero, sgombro ed essenziale d’una scena vista come cornice astratta al movimento il “lavoro dentro il lavoro” di Forsythe si delinea incentrandosi sulla forma di duetti che più tardi si moltiplicheranno in scene corali progressivamente raddoppiando il numero dei danzatori; sempre, nel processo di tenue deriva, di smantellamento da dentro la cornice la scrittura scivola dall’apparente neo-classicismo del codice allo scavarsi d’una libertà e necessità espressiva ritrovata a partire dal medesimo. Si passa così dalla stilizzazione classica di passi e piedi a punte, di tendus e jetées, alla fluidità di un legato che trascina, spalle, braccia e busto facendosi linee portanti di tale sottile stravolgimento, da sequenze rapide e iper-tecniche di passi disciplinati sulle punte a momenti di stasi, irreale, onirica quasi, dove è il dialogo silenzioso tra i corpi a imporsi. 

Tre dimensioni allora costruiscono l’assoluta astrazione del lavoro: la linea ritmica della scrittura musicale che si distende e s’arresta nel tempo in improvvise cesure, lo spazio che permette fisicamente a tale durata di prendere forma visibilmente nella danza, infine il modo in cui la partitura coreografica è concepita nell’insieme, dall’esterno, in una logica rigorosa ed essenziale, estremamente chiara nelle entrate e nelle uscite, nei duetti alternati ai gruppi, nelle pause e nelle riprese dei danzatori, nelle interruzioni iscritte sulla musica, nelle linee disegnate sulle spazio o nelle direzioni scelte, in definitiva nell’estremo rigore formale con cui la composizione si offre visualmente nella sua interna struttura al pubblico.











 "Rain Dogs”, coreografia di Johan Inger, musiche di Tom Waits





“Cani sciolti si inseguono, combattono e si seducono attraverso una coreografia di passi essenziali, asciutti e chiarissimi, con humor dal sapore surrealista”.

Fumo d’una metropoli nebbiosa di notte, forse d’ispirazione newyorchese, dal sentore d’alcol e di locali fumosi, echeggianti di blues fino alle prime luci dell’alba sullo sfondo di musiche seducenti delle sonorità sperimentali, elettriche, ora euforiche ora venate di malinconiche tonalità nel jazz-blues di Tom Waits. 

Gesti ironici, dissacranti d’una coreografia di gruppo gridano alla ricerca di libertà, dal fondo d’un atmosfera surreale di nebbioso smarrimento all’invocazione d’una disperante leggerezza, d’una ironica affermazione di sé. Dalla verticale formata dai danzatori è il gioco di rompere le linee, fare un passo indietro o in avanti, gettarsi fuori, a lato, uscire dalla fila, rotolarsi a terra, disegnarsi un proprio frammento di spazio, il piccolo infinito d’uno spazio rinchiuso in un gesto. 

Cercare una propria libertà espressiva, poi tornare sulla linea, coinvolgere gli altri nel gioco, ridere come folli, gettarsi fuori insieme agli altri. Buttarsi al suolo, rotolare a terra e tornare su in piedi ancora in un salto, mani e braccia invocando apertamente il gesto teatrale, sovversivo d’apertura o di dissacrazione verso la danza stessa: rincorse, rotolate, cadute, afferrare, arraffare, appropriare con movimenti di mani, "fare il verso a” con ondulazioni di braccia e bacino, e spalle e gomiti sollevati per cercare la propria libertà verso l’alto. 

Nella notte , insinua la canzone dallo stesso titolo di Tom Waits , ”un orologio rotto”, l’odore forte e intenso del rum a inebriarci e fumo d’alcool a impregnare le pareti.
Tra le note cadute come pioggia abbiamo ballato e oscillato tutta la notte, era una notte carica di sogni, di sogni caduti come pioggia al suolo. Siamo cani randagi... abbiamo danzato lontano da tutte le luci della città, fuori dalla mente, al ritmo della musica. "Siamo cani randagi", sciolti, naufraghi in una notte senza porto, abbiamo ballato e ballato tutta la notte per non tornare più a casa.
















Pioggia di neve e pulviscoli bianchi, pioggia di coriandoli sullo sfondo d’una musica sensuale, corpi femminili si snodano qui nelle loro forme visibili di anche, natiche e negli ondeggiamenti del bacino. Oscillazioni di corpi sensualmente dati in forme sinuose scivolano sotto le vesti di seta aderenti e lucide in un’ambientazione notturna surreale dove si disegnano probabili incontri amorosi, scene di seduzione tra uomini e donne accennati in abbozzi di movimenti semplici e invitanti all’incontro.
 Come nel testo della canzone di Waits: “Salgono in pista, ballano il tango fino a notte fonda, si muovono esperti nei passi, ballano su quelle musiche di tango fino allo sfinimento, fino all’alba quasi e ancora quando la musica è finita, quasi per mettere da parte i loro incubi , per chiudendoli fuori, dietro, oltre la porta”.




Coriandoli tra i capelli volano dalle finestre, nell’aria dipingono come il loro argenteo scintillio nella notte ombre sulle panche o sulle pareti promettendogli che suoneranno tutta la notte per loro. 

Oscillano al suono della musica, si lasciano cullare dal fumo e dall’alcol, sussurrano frasi dolci all’orecchio, si crogiolano dondolandosi al ritmo degli ultimi blues. Si sfiorano, respirano il sentore, l’odore della pelle, il sudore scivola attraverso gli abiti, attraverso le mani, gocce d’acqua passano dall’uno all’altro. Ondeggiano, si baciano, le labbra si sfiorano, restano, s’arrestano, sono ancora stretti, assorti nell’ abbraccio quando la musica è finita.
















1 William Forsythe, “Choreographic Objects”, articolo on line su www.theforsythecompany.com
2 Ibid. Forsythe
3Cfr. Gillo Dorfles, Elogio della disarmonia, Garzanti, 1986, p.85
4 Workwithinawork, Intervista on line http://www.youtube.com/watch?v=9uMDC10EEaE

martedì 7 gennaio 2014

Eron, dalla street-art ai paesaggi dell'anima..(visto a criticainarte, Mar di Ravenna)










“Forever ever…nei secoli dei secoli” (video) per la prima volta nella storia la street art entra nel tempio dove l’arte trascende il tempo da secoli, la chiesa”.


L’evento performativo del video realizzato  dall’artista riminese affrescando il soffitto d’una chiesa a spray painting  si snoda nella lentezza, nella musicalità, nell’attenzione data all’emergere del dettaglio, il contorno sottile d’una colomba che svolazzante prende forma nella linea di bianco vaporizzata da un uomo con grandi ali d’angelo su un’impalcatura mobile del soffitto.
 Il fondale blu denso, materico d’un cielo affrescato e espanso in nebulose grigiastre si materializza in ampi passaggi di spatola come un flusso di coscienza rivelandosi a stretto contatto con il fondale materico, nel rispecchiamento attraverso il medesimo, sensibilmente. Le architetture o le pareti del soffitto che lo circondano proiettano l’azione o l’happening pittorico nel mezzo della materia, nell’atto della pittura,
nella pulsazione del colore, in un disegno che prende forma a partire da poche vernici, spatole e bombolette spray sul soffitto spoglio d’una chiesa decorata a bianchi stucchi.
Quasi che nel mezzo dello spazio echeggiante, vuoto e tendente all’alto della cupola attraversata da fittizie impalcature si volesse lasciare il tempo ai visitatori di fermarsi, guardare, seguire l’affioramento d’un limpido fondale, di nuvole grigiastre e linee svolazzanti emergendo sul soffitto come flussi di sensazioni, paesaggi mentali, onirici che prendono forma seguendo il fluire delle nostre interne percezioni.






 Incursioni urbane, notturne in luoghi all’apparenza spaventosi, aggredenti di passaggi stridenti d’auto e camion nella notte, di fari accesi d’un tratto nell’oscurità, di rumori come sibili e boati, di paesaggi urbani delle grandi arterie trafficate, delle circonvallazioni esterne alle città illuminate di luci elettriche o da fari anonimi sorpresi nella notte. 
Strade deserte e bande d’asfalto aprendosi iridescenti, nere e luccicanti come feretri di morte. La solitudine del singolo, dell’individuo colto nella trappola d’un mondo onnivoro, d’un sistema atto a fagocitarlo e rigettarlo ai suoi margini nelle giungle urbane del capitalismo moderno, ai bordi della mente come delle città o dello spazio abitato, dominato dalle leggi del mercato quanto da un vago, impalpabile senso di inesistenza, di annientamento.

Il paesaggio metropolitano  notturno si erge contro l’imporsi d’un segno, l'incidere d’una traccia personale, significante o espressiva come un “dare colore” al pensiero, all’utopia all’imprimersi dell’interiorità dei sensi nell’esteriorità del mondo. 
 Con lo spray l’artista trasgredisce, lavora sullo spazio, interviene o incide con la forza istintiva, primordiale del segno, d’ un segno che diventa  pittura in quanto azione, movimento esperienziale attraversato dal corpo nell’affiorare d’una sintassi di tracce, graffiti o immagini che agiscono o interferiscono sul reale sensibilmente.

Lavora in luoghi periferici, di notte, ai margini delle città, clandestinamente, su edifici anomali, senza proprietà, negli spazi abusivi, occupati, “squattati” o disertati delle periferie urbane, in luoghi marginali o sui “bordi” come su ponti, treni, nei sottopassaggi e sulle facciate non-viste degli edifici.   Con l’energia ribelle d’un quindicenne Eron lascia la propria impronta sulla città, la propria firma singolare, distintiva come un “visual writer”, come uno scrittore su una pagina bianca farebbe, sui muri costruendo le proprie fittizie, apparenti narrative di segni.


Colore spray contro il cemento d’un viadotto in periferia vicino a una strada trafficata nel video.
Bus, macchine scorrono, luci feriscono nell’oscurità.
 Spray, colore e disegno appaiono, ruggine rossiccia d’un volto appena delineato nella notte per dissolvere a coagulo, a macchia, a colatura intenzionale di vernice sul cemento umido della colonna contro l’insegna rugginosa dei caratteri. 
Alba, luce chiara del giorno: un affresco compare, un volto dissolve nella nebulosa sfuocata a ruggine della memoria.

Mattina: nella piena luminosità del giorno sono filmati sulle strade graffiti con acronimi, ritratti di volti, caratteri dati a vernice liquida sui treni, sulle pareti dei palazzi, sui balconi delle case popolari, agli angoli nascosti delle strade, sulle pareti spoglie in cemento degli edifici, nei crocevia, infine in restauro dentro una chiesa tra una cupola decorata in oro e gli stucchi maestosi del suo bianco soffitto.
Mentre il lavoro prosegue Eron è filmato sulle impalcature mobili a ridosso degli edifici d’un quartiere popolare, i passanti osservando incuriositi l'affiorare d’un sogno, d’una visione che si disegna sotto i loro occhi. E la città diventa d’un tratto animata, vivida di colori, di linee che si profilano, si modellano nella forma di grandi uccelli svolazzanti, aironi e scale rovesciante o volanti, simili alla visione oniriche dipinte da Chagall  con le figure in volo su Parigi. Tanto gli edifici urbani apparivano anonimi, grigi, spenti, immersi in questa solitudine e desolazione dell’uomo contemporaneo nella grande città, tanto le tag colorate divengono macchie di colore, incisioni di anonimi “scrittori visivi”, acronimi che si riflettono come “Eron” metallici vividi e brillanti:  il segno d’un giallo ocra incandescente, d’un blu elettrico, d’una vernice rossa e corposa, d’un raggio ultra-violetto e riflettente.  




Dare e sottrarre spazio, spazio liberato e spazio occupato,
dare spazio al sogno, all’utopia, a ogni “presa di potere” immaginativa, democratica e comunitaria sulle nostre città, 
sottrarre spazio alle occlusioni del pensiero, ai meccanismi fagocitanti dei sistemi di potere in atto,alle prigionie delle nostre solitudini, all’occlusione d’un mondo di ferro e cemento
Dare spazio alle periferie e alle zone marginali,
a un airone e un bambino su una spiaggia, a un sogno d’infanzia, irradiante luminescenza di riflessi e guizzi dorati tra le onde perdendosi, rifrangendosi immancabilmente. 

Dare spazio ai margini, agli spazi disertati, disinvestiti d’una reale funzione sociale,
alla luce che passa attraverso, alla forma d’un vortice oscurante, labirinto di cerchioni neri gommati riassobendo, riavvolgendo l'individuo al suo centro,
alle vernici, alle strade, al rosso dei graffiti, alle vaporizzazioni di colore sulle superfici di periferie degradate,
ai mondi che si disegnano sui soffitti d’una chiesa affrescata,
a bianche ali di colomba, a una linea dorata appena tratteggiata facendosi messaggero dall'invisibile.

Dare spazio alle ali della fantasia, del pensiero, da dentro la gabbia dell’impalcatura sui ponteggi d’una chiesa,
allo scorrere delle acque d’un fiume sotto le barricate  d’una diga,
al tracciato d’un sentiero d’acqua sotto bianchi ponti di pietra , sontuosi,  marmorei forse d’epoca antica.

Nel video ancora “Forver ever” l’utopia come emergenza dai margini  è una scala posta contro un muro nella notte, una scatola di aerosol a pressione,
gesti, movimenti nell’oscurità e disegni o abbozzi sui muri, una colata di rosso ruggine discendendo come nuova insorgenza su un cartello di “messa in vendita”.
E’ chi dall’alto d’un monta-carichi gettando il proprio sguardo sull’insieme della basilica immagina la prospettiva d’una cupola da ricreare come l’architettura  di nuovo cielo per dare spazio a una città più solare, più armoniosa se vista attraverso gli occhi stupiti di sguardi volti verso l’alto . L’ingresso d’una chiesa, d’un luogo sacro dove entrare con le proprie vernici, poi una massa d'indaco comparendo insieme ad ali d’angelo messaggere, sul corpo d’un uomo qualunque.
Il profilo d’una rondine, una maschera che puntata contro il viso impedisce di respirare ma permette a chi la porta di aprire questo varco verso l’utopia, la visione.
Nell’ultima immagine del video un corso d’acqua chiara, limpida è vista tra le grate di ferro d’una barricata, diga o barriera, un angelo, gabbiano con lunghe ali o colomba di pace affiora allo stesso modo a poco a poco su una parete grigiastra di nuvole bianche e spumose, lievi e frammiste d’azzurro al prendere consistenza d’un sogno.  




“Tell me I am not dreaming”



L’infanzia e il suo potere di credere che tutto sia possibile anche le cose più assurde,
l’infanzia e il suo immediato tentativo di guardare, di comprendere la realtà e racchiudere in quello sguardo il senso della vastità che la circonda. Tale paesaggio onirico, in riva al mare su una spiaggia deserta, la serie che l’artista definisce  “mindscapes” visioni nate come materializzazioni di memoria o frammenti d’un pensiero inconscio incarnandosi attraverso un segno immediato in un preciso punto di realtà- assume qui la forma del rispecchiamento dell’infanzia. Sono soprattutto paesaggi, luoghi famigliari rivisitati dalla vaporizzazione della pittura come le spiagge della riviera riminese, fatte di vaghe maree, di nebbia, d’acqua, di paesaggi silenziosi e di improvvise luminescenze.
Una bambina su una spiaggia deserta in contatto, tendendo la mano a un airone che forse diventerà, che potrebbe trasmutarsi in un essere alato, una creatura fatata, un animale dotato di poteri magici, propiziatori come nelle favole o nella percezione dell’infanzia. Acqua tutt’intorno ovunque o meglio la barriera che separa il mare  dalla terra, barriera quasi invisibile cancellata da questa irradiazione espansa tutt’intorno in guizzi e onde luminescenti, intermittenti, nella linea sfuocata a metà impercettibile dove l’acqua si ricongiunge e si separa dalla terra.   Come se quest’immagine venisse da un luogo molto lontano, dentro di noi il posto dove proviene, si situa e prende forma tutto l’universo fatato, irraggiungibile e perduto dell’infanzia. 




“Eron to Fellini”
















Un tunnel oscuro, un bosco che può spaventare, il labirinto intricato della mente o della memoria dove la luce si insinua in modo innaturale, diffusa e accentuata su alcuni dettagli, su un oggetto o una figura marcatamente realista, riconoscibile nel forte chiaro-scuro dell’arancio su fondo grigio carboncino, ora, sfuocata, dileguata, tutt’intorno sul paesaggio onirico circostante.
Il vortice, il labirinto, il groviglio dai tratti inestricabili è segnato dalle forme circolari e incisive, marcatamente oscuranti della mente che attraversa e volge o si rivolge invano a spirale occludente su sé stessa in un  punto marcante del tempo, in uno spazio incidente della propria esistenza.
Cerchioni neri e isolanti, circolari e ancorati al suolo divengono a poco a poco nella serie sempre più oppressivi e angoscianti al loro ispessirsi a terra come le gomme nere d’un percorso attraversato, al limite esperito o subito aggrovigliandosi intorno all’individuo a vortice, a catena completamente riavvolgendolo al suo centro attraverso una voragine profonda, oscura e senza fine.

Sullo sfondo l’immagine sfuocata, ingrandita ora dileguata dai suoi confini, ora portata fuori dai suoi contorni del volto del regista riminese Fellini forse baluardo o lume di fondo smarrito, ora percettibile a tratti, ora deformato dal vortice invasivo del grigio circostante. La figura dell’individuo è al centro, alla ricerca, in cammino di fronte al groviglio, al labirinto del linguaggio o della propria esperienza, di quel segno che ha preso lì materialmente forma, consistenza  come nugolo di linee insieme a lui perdendosi in tale riavvolgimento del proprio destino. Lui, nell’atto di incamminarsi e perdersi attraverso o forse solo in quello di cercare uno spiraglio e tracciare come un varco luminoso, attraverso la chiarezza della luce dal centro dell’oscurità più devastante.