Tappeto rosso fucsia vivo slavato di luce, irradiato da un riflesso assoluto, elettrico e opalescente proveniente dalla sfera dei colori freddi nel gioco contrastivo tra il rosso-violaceo del piano-superficie distanziante, il nero assoluto del fondo e l’essenzialità dei corpi stagliandosi in una quasi nudità, nella neutralità voluta di una quasi non-personalizzazione. Alonati di luce appaiono nell’ incarnato appena visibile dei costumi che li riporta a una forma essenziale, primaria, quasi elementare di vita.
Sei danzatrici nel “Preludio” su una composizione per violoncello
di Daniele Roccato si danno a noi nella nudità apparente, nella ricerca d’un
quasi “archi-gesto” o archi-traccia sul continuum fluido del movimento
coreografato; una moltitudine di micro- gesti appaiono, esplorati richiamati
alla memoria, riportati alla superficie da uno “sconosciuto del corpo”, poi la messa in tensione dei
medesimi attraverso un ascolto attento tra le danzatrici, in una trasmissione d’eco di singole frasi o partiture
dall’una all’altra, da un duo all’altro in un costante passaggio di testimone,
in un gioco tensivo e concentrato tra il dare e il ricevere. Il Preludio è atto
iniziale e propriamente voluto per entrare nell’universo coreografico di Sieni
quanto nel suo linguaggio, nell’atmosfera di questo Sacre che si distanzia tuttavia fortemente dalla dimensione rituale
e dionisiaca della tradizione nel balletto di Stravinskij. Sieni lo definisce una
vera e propria “iniziazione dei danzatori al gesto”, il tentativo quasi di tracciare
a ritroso un “primo atlante gestuale”, scavando indietro all’interno d’un sorta
di memoria cellulare del corpo come per risalire all’origine di un primo movimento,
di un primo passo, agli albori di quello che muove un corpo nel suo atto primo
d’esserci percettibilmente nel mondo; quasi si volesse rispondere alla domanda “da
dove sorge”, “come si inizia a camminare, a muovere un passo la prima volta, scoprendo
il corpo come “quel luogo dove non ero mai stato e mi accorgo d’esserci nato”. La
danza infatti per Sieni può solo situarsi oltre la destrutturazione della
figura o di un’abitudine codificata al linguaggio coreografato accogliendo quel “gesto
primo”, originario o imprescindibile che scaturisce dallo stare dentro il proprio
corpo, “dall’abitarlo sin nel lato più oscuro e sconosciuto di sé”, dal situarsi
in “quelle pieghe” della pelle dove si situa anche l’ incrinatura
dell’individuo in quanto costruzione e identità , del movimento in quanto forma
codificata, del danzatore in quanto figura formalmente data. Per arrivarci si
tratta, secondo il coreografo d’esplorare e ripercorrere la propria interna
“archeologia ossea”, del discendere nelle pieghe della pelle, dei tessuti,
nell’esplorazione delle proprie articolazioni, giunture e loro cedimenti, nella
messa in risonanza d’un movimento da un piano all’altro del corpo, dalla
circolarità all’ orizzontalità, dell’attingere infine a un bagaglio di gesti non-riflessi
che porteremmo in noi virtualmente come patologia, lì nelle fessure del
desiderio, nelle impulsioni primarie d’una corporalità inconscia, nella memoria
cellulare e attraverso le soglie e i livelli di scorrimento d’energia degli strati sottili che ci costituiscono.
In una nudità
essenziale dello spazio, in una quasi liquidità iniziale sei danzatrici danno
corpo nel “Preludio” a queste forme organiche, molecolari alla ricerca di quei
gesti primi che ci riportano a un luogo originario “dell’esserci”, tale il
fondale astratto e violaceo della scena, irradiante e atemporale attraverso i
riflettori dove un intrecciarsi di
movimenti nati dalla gratuità, dall’ascolto, dalla messa in risonanza reciproca
dei danzatori in scivolamenti e diffrazioni al suolo evocano un “luogo d’esserci” del corpo, una
sua inedita postura, un suo modo di “stare nel mondo” attraverso il
movimento.
Nella composizione de “La Sagra” che segue saranno vere e proprie “costellazioni di corpi” a disegnarsi su scena a partire da questa primaria asserzione , ad aggregarsi e disgregarsi in una complessa orchestrazione coreografica, in partiture simultanee e coesistenti di dodici interpreti che accadono e scorrono contemporaneamente in un caleidoscopio di immagini di fronte allo spettatore.
Corpi neutri, epurati d’ogni individualizzazione e resi quasi forme di vita primordiale si compongono e dissolvono in figure geometriche rapide e fugaci intessendosi l’una all’altra sull’onda della risonanza, nell’eco d’un movimento da corpo a corpo, in duetti o terzetti; altrove permangono in pose immobili arrestati nello spazio di pochi istanti come lasciandosi sorprendere da questi passaggi nel vuoto o momenti di sospensione, come rapiti da questa forza tensiva carica d’attesa, d’ascolto, prima di ripartire verso nuovi camminamenti.
Se l’immagine per Sieni è quella d’un “bosco popolato d’una moltitudine di gesti e movimenti”, la visione d’uno spazio scenico ordinato e prospettico allo sguardo, al limite tridimensionale si frammenta costantemente in un caleidoscopio di schegge o meteoriti in costellazione libera nello spazio, in un caos ordinato e ricomposto di astri e punti celesti un po’ come ci trovassimo di fronte a una scomposizione cubista del quadro in una serie di sfaccettature, di visioni simultanee e coesistenti accadendo insieme , scorrendo l’una nell’altra prima di ricomporsi in cerchio o in linea retta per poi tornare a scorrere e frammentarsi in una miriade di coaguli di punti, ammassi ordinati, contigui o paralleli.
La sola apertura estatica possibile per Sieni resta, infine, in questa sua rivisitazione del “rito della primavera”, quella che può scaturire dall’ instaurarsi d’un meccanismo gestuale inconscio, auto-generatosi in un automatismo “fuori dalla soggettività”, nelle pieghe del corpo molecolare come una forza che scaturisce da dentro un movimento puro, sprovvisto d’ogni interpretazione personale quanto legato all’instaurarsi d’una risonanza propria al gesto: la sua “messa in opera” nel corpo per quello che arriva a lui d’inatteso, dal quale vuole lasciarsi lui stesso sorprendere nel fare di un "gesto primo".
Perché, come nelle sospensioni e nelle pause immobili che costellano la coreografia di Sieni più importante resta questa “tensione al dono” all’attesa che si traduce in un “ascolto attento e concentrato”, in una qualità d’energia particolare alla sua danza, in una predisposizione mentale e spirituale al ricevere, all’accogliere nella gratuità di quello che arriverà a lui d’inatteso dal corpo, che non nel risultato a priori atteso o in sè stesso finalizzato alla composizione di un' opera.
( Bologna, Teatro Comunale, 12 marzo 2015)