giovedì 17 settembre 2009

Gesto, teatro, improvvisazione


























U
n gesto lascia un’impronta invisibile. Amo l’idea che si possa lasciare nello spazio una successione di segni come se il movimento si cancellasse nell’atto stesso di prodursi ma lasciasse un solco, una traccia anche se invisibile.
Rendere un gesto significante, caricarlo di un movimento di senso, “farne un vettore per suscitare un sentimento o risvegliare in noi un frammento di incosciente1

Un gesto deve in primo luogo trovare un proprio posto nello spazio, deve essere purificato, sbarazzato del superfluo. Più semplice e diretto sarà più apparirà naturale. Perché in sé il movimento non é che un “involucro, una conchiglia vuota ”.
Il lavoro é quello di riempirlo, di nutrirlo di senso, restituirlo come materia sensibile, imprimerlo, infine, della densità stessa dell’esistenza. Difficile ingannare qui, evitare di mettersi a rischio, in gioco, in pericolo fino al fondo di sé anche e là soprattutto dove non abbiamo voglia di discendere.
“ Il nodo della questione é il dono”. E’ l’essere umano che si svela dietro il costume, attraverso la maschera e al di là della forma: una maschera neutra, la maschera di quello che puo’ divenire un viso investito di un’insistenza interiore , un corpo proiettato nell’altro di sé, nell’altrove di una visione o di un’immagine ricorrente che ritorna.
E’ l’anima delle cose, degli esseri, la complessità del vissuto individuale di ciascuno di noi,
lo spessore, la densità dell’esistenza che vogliamo vedere non solo i movimenti ben fatti
il prolungamento del corpo nell’anima, il malessere, la distruzione anche
la grazia e l’eleganza che é la non si vede, che si esprime come un sapere innato,
un intuizione che s’apre in noi in modo incosciente, improvvisamente,
il senso di bellezza che ci sfiora in qualche raro istante.






Non potrei immaginare un lavoro che sia perfetto da un punto di vista formale, vale a dire nel dominio assoluto del linguaggio, della composizione e dell'esecuzione, ma che sia sprovvisto di un’ investimento nell’ordine dell’umano, d’un umanesimo che si carica implicitamente d’un valore politico senza tuttavia voler divenire un’aperta presa di posizione ideologica.
Mettersi a rischio, in discussione, in gioco in ogni caso, cosi' immagino il senso del teatro intuitivamente; usare la propria esperienza, umanità o intelligenza nel senso di una comprensione profonda delle cose per non restare imprigionati nelle gabbie dell’accademismo, dell’estetismo puro o al servizio della rentabilità del mercato,
del divertissement finalizzato a sé stesso.
L’ironia che salva, il riso che libera e non risparmia nulla e nessuno, l’intelligenza di un umorismo che distrugge le false apparenze e corrode i luoghi comuni vestendosi di un'insostenibile leggerezza d’essere. Ma anche questa sorta di sesto senso o visione a tre dimensioni: momento in cui si tocca all'essenziale, attingendo al vuoto denso e abitato che é in noi come alla radice di ogni creazione.




Più di ogni altra arte la danza puo' esprimere il disequilibrio: un corpo disincarnato che é là senza esserci veramente, che é là senza crederci veramente, che perde una parte di sé stesso come fosse trasparente,
che sente il vuoto come lo ingoiasse fino a divorarlo
che si irrigidisce, si blocca, rifiuta di muoversi
preso in un gesto di prostrazione, nella follia aperta del corpo , oppure in un atto assurdo, estraneo, improvvisamente disconnesso dal contesto dell'attuale.
La danza come arte del sensibile risveglia in noi una storia che non ci appartiene ma che é iscritta al fondo del nostro corpo come una stigmate. “ Come gli avvenimenti si iscrivono nella nostra carne e ci trasformano, questo é il filo conduttore del lavoro. Lo chiamiamo teatro del corpo perché consideriamo il corpo come rivelatore dei sogni, dell’immaginario, della memoria e dell’incosciente di ciascuno di noi”
[1].

[1] Pietragalla, Simmonet, La femme qui danse , Seuil 2008, p. 175
2 Ibid.,


giovedì 10 settembre 2009

Teatro-danza, estratti





Bausch: “ ci sono momenti in cui si resta senza voce, completamente persi o disorientati senza sapere cosa fare. E’ la` che si comincia a danzare per ragioni diverse da ogni vanità, da ogni mostrare, mostrarsi”[1].





























Presi dentro un’immagine del sé fluttuante, mutevole, instabile, presi dentro l’immagine di un corpo che imbarazza, che non risponde ad alcun canone formale se non la densità o la brutalità dell’essere in vita. Rivela il non-conforme dell’individuo serrato nelle trappole sociali, ideologiche o in quelle interne alla propria personalità. Rivela il non-incontro tra uomini e donne, il malinteso totale tra gli individui, l'inadeguatezza fisica del sé rispetto all’altro. Al di là della più grande politesse sulla scena, vedere questi corpi alla prova quando si fanno male, quando sbagliano, quando si storcono una caviglia, sudano, si bloccano o rifiutano di muoversi. Quando sono privati della parola, imprigionati dentro un corpo che rigettano, questo corpo che pesta i piedi inutilmente, questa specie di cosa con la quale sbattono da ogni parte, si scontrano al mondo invano, si rivoltano in silenzio senza poter essere uditi nella rabbia sorda che li divora.

“Se l’attore sulla scena , si maschera, gioca con l’identità, il danzatore si mette a nudo, si offre completamente aspirando al sublime”.

Nella vita le parole spesso alienano, falsano, violano l’individuo. Quando i danzatori iniziano a parlare é come un sudore; anche quando parlano in modo ripetitivo un linguaggio che volge a vuoto, che gira inutilmente su sé stesso, che non significa nulla. Esiste una violenza incredibile eppure sottile, quasi impercettibile a occhio nudo, che a un certo momento rende la situazione intensa, esplosiva. Il mutismo della gente é interessante perché racconta ancora di più la chiusura di un corpo, l’estremo di un dolore e come questo prende forma sulla scena attraverso atti semplicissimi: rovesciare sedie, sbattere contro un muro, chiudere gli occhi quando qualcuno vi parla, vi grida contro. E poi come in certi momenti, all’improvviso, qualcosa si libera, semplicemente toccati dalla bellezza di un gesto, di un respiro.


Pina Bausch, « Entretiens réalisés par Philippe Noisette », Paris, Van Dien 1997