giovedì 26 giugno 2014

A partire da "1914 Strettamente Confidenziale" (gruppo Nanou visto a Ravenna Festival 2014)









Atmosfera ipnotica, oscurante, sinistramente avvolgente al discendere della notte nel palazzo dai marmi purpurei e bianchi, freddi e glaciali come sepolcri al tatto ,
nel palazzo austero di antica foggia nobiliare lasciato a grandi stanze e corridoi spogli, di stucchi bianchi e affreschi rivestito, e grandi colonnati, lasciato all’austerità inumana della morte o di tutti i luoghi disertati del passato. Cosi e' immerso nel basso continuo d’un suono elettrico, ripetitivo, d’una singola nota dai mille eco diffusa nello spazio del labirinto scenico.
Qui, figure in livrea e maschere, sinistre figure attraversano e dissolvono inghiottite dalla luce oltre la linea d’ombra dei corridoi: metafisici maggiordomi, servitori in uniforme di morte, freddi arbitri d’una partita a scacchi giocata altrove, gendarmi dell’assoluto, kafkiani emissari in cilindro nero d’una sentenza d’esecuzione rinviata all’indeterminato. Aleggiano, passano, si manifestano e poi svaniscono attraverso il labirinto di azioni coreografiche lasciato agli spazi delle varie stanze-dimore. Presenze inquietanti si aggirano, anche, preannunciando l’arrivo imminente, il profilarsi all’orizzonte d’una grande deflagrazione; l’evento della Guerra, 1914 Strettamente confidenziale, nel titolo del lavoro aleggia sopra di loro non-visto, invisibile eppure focalmente presente nell’atmosfera, nelle sembianze, nelle intrusioni e negli attraversamenti delle figure metaforiche .




1914 Strettamente Confidenziale del gruppo Nanou è percorso, viaggio entro questo labirinto attraversato di figure, apparizioni, maschere e intermittenze che si animano nell’oscurità. L’ avanguardia, di cui il 1914 appare nel lavoro dei Nanou come anno simbolico e punto focale, è vista come la distruzione violenta di codici obsoleti, estetici e non solo dall’interno dei salotti borghesi: l’impeto di forze innovanti e sovversive capaci di decostruire dall’interno una certa visione oggettuale della realtà di cui il cubismo produce un’immagine multiforme e frammentaria, sfaccettata e analitica dell’oggetto. Corridoi e antri oscuri si susseguono come visti attraverso una camera mobile al discendere dell’oscurità simili a cunicoli d'un labirinto e stanze aprendosi allo spettatore come installazioni visive o di danza; poi, sono le entrate e le uscite, le soglie, i passaggi, i movimenti subliminali dei danzatori-attori che, come figure astratte e impersonali incarnano le leggi proprie dell' eros o d’una realtà psichica a loro interiore.

Un presenza impersonale, immota in uniforme e guanti bianchi si avvicina ricoprendosi d’una testa d’orso, d’una veste di animalità incarnata nel profilo dell’animale per eclissarsi in una delle stanze del palazzo. Porte si aprono, spiragli di luce e corridoi si disegnano attraverso l’oscurità del palazzo nobiliare; figure si aggirano spettrali, entrano ed escono dalle stanze-installazioni attraverso i loro accadimenti scenici.


In un antro luminoso di porta o varco aperto dall’oscurità pervasiva del fondo, antro di coscienza irradiante di luce, accecante quasi, i danzatori compaiono, tracciano il loro piccolo segmento di cammino, iscrivono i loro segni e, insieme, il loro svanire o eclissarsi riassorbiti dal candore incandescente dell’effetto a vivo della luce, dal circuito elettrico cortocircuitando in quel punto. Figure si stagliano, e profili impersonali si disegnano, nel passaggio, nell’attraversamento, nell’indugiare su quella soglia luminosa di coscienza.
Danzano a passi lievi di tango la partitura d’un incontro, d’un dialogo o d’un passo a due con un partner invisibile; danzano con passi lievi, eleganti, leggeri e appena accennati. Entrano nel varco luminoso disegnati dal controluce tagliente del loro profilo in linee nette, nitide, di bianco su nero incise fino a scomparire riportati dentro l’effetto lucido e dissolvente d’una sorta di magnetico plenilunio .
Il profilo d’un corpo maschile in ombra contro uno schermo riflettente; una figura solitaria e elegante volge a noi le spalle, danza con passi lievi e raccolti disegnando cerchi, ellissi, invisibili figure concentriche in aria con le braccia o al suolo, aprendosi in questa ipnotica partitura musicale come farfalla imprigionata dietro un vetro traslucido e trasparente.




Perché nelle installazioni di 1914 tutta e' questione di cilindri, specchi, antri romboidali simili a boudoir o piccoli studi che divengono scatole cinesi aperte entro altre scatole–stanze, spazi segreti e arcani aperti entro quelli designati dai salotti borghesi o semplicemente tracciati dal cerchio di luce di un riflettore al suolo. Séparé in vetro divengono gabbie di vetro trasparenti. Questioni di teche o piccoli teatrini che si aprono dentro lo spazio dell’installazione-dimora e teatrini anatomici del corpo dentro lo spazio-teatro. E ancora, è questione di specchi, cristalli e rifrazioni dei medesimi, di lampadari, di marmi lapidari e interni di palazzi marmorei, di riflessi e figure allo specchio, di passaggi dall’interno all’esterno della psiche individuale, d’una parvenza, infine, di realtà oggettuale, esterna là data e decostruita insieme dalle intrusioni o presenze di corpi mossi da altre leve. Pulsioni primarie o esistenziali più antiche, precedenti o innate appaiono investite e messe a nudo come il risvolto interno dell’individuo nel suo margine inconscio e pulsionale; tale, la figura è decostruita nelle avanguardie all’inizio del xx secolo da forze che la spingono al limite del figurale, che la scompongono, la deturpano, la de-figurano nella propria linea e contorno, oppure la mostrano nella simultaneità, nella frammentazione, nella sintesi cubista della medesima.



“Un anno dopo scoppiò la guerra e depredò il mondo della sua bellezza. E non distrusse soltanto la bellezza dei luoghi in cui passò e le opere d’arte nelle quali incorse sul suo cammino. Infranse anche il nostro orgoglio per le conquiste dalla nostra civiltà…insozzò l’alta imparzialità della nostra scienza, mise a nudo la nostra vita pulsionale, scatenò gli spiriti malvagi dentro di noi che credevamo di aver debellato per sempre grazie all’educazione impartita dai nostri spiriti più eletti nel corso dei secoli. Ci depredò di molte cose che avevamo amato e ci mostrò la precarietà di altre che avevamo considerato durevoli”1





Labirinto di azioni coreografiche attraverso le stanze.
Nel cerchio disegnato dalla luce elettrica d’un rosso vivo e sanguineo sul nero circostante, nel cerchio di luce elettrico stagliandosi violentemente, indaco nel controluce pervasivo del nero, una maschera femminile dal volto coperto appare; lugubre posizionandosi seduta al centro della scena, contempla in silenzio, immobile e muta la realtà circostante. La maschera in questa sua istanza altamente simbolica come immota presenza, preannuncia sinistramente la fine di un mondo, l’avvenimento imminente dell’esplodere della guerra, lo specchio infranto o la frattura aperta sulla superficie liscia e immota di quella realtà borghese e, insieme, l’avvento d’una coscienza mutata, lacerata, divisa di cui la Grande Guerra costituirà il sanguinoso rito di passaggio. Azioni sceniche cominciano a delinearsi intorno al cerchio tracciato dalla luce purpureo-elettrica: figure di uomini e donne entrano in pochi passi di danza, allungate, distese al suolo, ora raggomitolandosi a terra, ora rialzandosi all’improvviso. Escono, altre entrano in una partizione geometrica e rigorosa di azioni identiche ripetendosi fino allo svuotamento delle medesime. Al centro della scena un individuo in livrea comincia a scivolare dal seggio-poltrona, la sua figura scomposta come fosse mossa da interne forze destrutturanti appare rovesciarsi pesantemente al suolo deflagrata, esplosa, i piedi al posto della testa. E’ manichino immoto di parti disgiunte- busto, anche e cosce- insieme al mobilio capovolto, immerso in un rosso allucinante, violento e intrusivo.

Più tardi una maschera nera, nero emissario di morte, si imporrà al centro di quella scena quale prefigurazione d’una grande entità del male avventandosi come le guerre e la distruzione, l’olocausto e l’ annientamento dell’umano nel xx secolo; illuminata d’un rosso elettrico e infernale sara' la' a immagine d’una grande ombra oscurante dilagata sui ruderi smantellati della società positivista, razionale e borghese di fine xix secolo.




Dal cerchio magico, illusorio e ideale d’un interno fatto di marmi e rilievi di pietra, una lampada è puntata su un tavolinetto in vetro trasparente nel quadro immobile d’un divano e d’un tappeto con scarpe a tacchi alti lasciate ai suoi margini. E’ puntata su un interno nudo, sprovvisto di presenze umane, annunciato da una voce fuori campo ugualmente descrivendo l’equazione matematica d’una perdita in un labirinto senza via d’uscita. Scena di inquisizione o interrogatorio d’un tribunale immaginario, la forma è messa sotto accusa- imputato invisibile nel salotto- mentre il riflettore è puntato sul dettaglio d’un disegno astratto dove linee tangenti tracciate su un triangolo e altre forme geometriche ad esso intersecate disegnano il “percorso più lungo per accompagnare Ofelia dall’ufficio a casa ” , strategia annotata in margine da Fernando Pessoa.

Il percorso più lungo per non arrivare, per non-voler arrivare dove si era presunti dover arrivare, il percorso più lungo per volutamente smarrirsi, perdere le proprie certezze razionali e uscire da una percezione scontata di realtà tale che essa appare come dato di fatto razionale e incontestabile. Il percorso più lungo per attraversare dal cerchio illusorio d’un mondo borghese dall’ordine e l’ideologia costituita all’altro lato della specchio, nella fessura aperta attraverso la superficie, nel lato estraneo dell’io, a un altro livello di realtà, di coscienza o meglio nell’intuizione della sua parte inconscia di sogno e sintomo.



Manichini immobili di fronte a un televisore a onde magnetiche disturbate, nessuna trasmissione, intermittenze, frequenze interrotte e passi solitari di danza, d’una danza invisibile e lieve nei passaggi brevi, illusori di figure stilizzate nel controluce dello spazio immerso nell’oscurità.
 Scatole sceniche, antri si aprono dentro le stanze, l’io è visto costantemente su questa soglia tra la sua veste oggettuale, sociale e reale e il suo darsi nel risveglio istintuale di forze e pulsioni dell’eros, d' una psiche perlopiù inconscia. Dentro il silenzio di questo grande albergo-dimora, il senso delle proporzioni perdute, l'attore si annuncia nel curioso progetto di “sognarsi e rendere percettibile un sogno che ridiventerà sogno in altre teste, nella mente di altre persone differentemente”2. Il senso del tempo oltre la sua nozione apparente di tempo storico e oggettivo appare dilatato e condensato enormemente come spazio mentale oppure portato all’esterno come puro spazio scenico, intimo e onirico nelle installazioni-danza. 




Una danzatrice ingigantita nelle proporzioni appare dentro questa gabbia-scena o minuscola scatola cinese compressa, deformata e espansa nello spazio stringente della gabbia sociale, benpensante e borghese in cui si trova contenuta. Una scatola scenica è aperta dentro una stanza di impronta decadente, un lampadario di cristallo al soffitto, un grammofono solitario di inizio novecento unico oggetto su un tavolinetto . La figura si offre a noi travalicando il confine tra sogno e realtà, in un attraversamento costante tra esperienza reale e spazio onirico della medesima, nel risveglio delle forze e delle pulsioni più vitali all’umano, in questa frattura aperta tra interno e esterno della psiche e rispetto al modello razionalista dominante. La sua danza appare come un paesaggio mentale attraversato dalle sue interne linee di cesura e, ancora, in questo rovesciamento tra corpo e mente, in questo corpo “acefano”, privato di testa e dato per pezzi, per parti disconnesse: cosce e busto, gambe e bacino. E’ corpo del desiderio mostrato attraverso le sue soglie di attraversamento e rimozione, corpo della pulsione inconscia, del risveglio dell’eros contro la gabbia del soggetto razionale e cosciente. La figura nella sua frammentazione e scomposizione, è corpo come riserva illimitata d’un potenziale energetico liberato, corpo come campo di forze contrastanti e campo di battaglia di tensioni opposte e sovrapposte: coscienza e inconscio, io e altro, forze di aggregazione e di distruzione esposte e esplorate dal lavoro performativo.




Ancora negli interni di stanze vuote, nella plasticità delle linee dei divani su cui la luce rifrange nitida e tagliente, tra i tappeti e la luce soffusa delle lampade, tra i marmi e i camini di pietra sono queste immagini di specchi dove manichini e pezzi di corpi sono mostrati sulla suggestione di Hans Bellmer: divelti, senza più testa, ricomposti e sovrapposti in una grammatica astratta di segni e parti, di pezzi smembrati in desideri esposti. Una danzatrice discinta appare, rovesciandosi insieme alla forma plastica del divano, offrendosi nella sua sensualità esposta,progressivamente denudandosi, la camicetta e i capelli disciolti prima di scomparire. Gli specchi appaiono come metafore essenziali quali luoghi dell’unità infranta tra interno e esterno dell’io: specchi incrinati da cesure sulla superficie o finiti in frantumi in seguito a violente esplosioni storiche, una sola data il 1914; specchi visti per mettere a nudo la distorsione della figura nelle avanguardie o la frammentazio"ne della percezione, per fissare l’autoritratto dell’estraneo, del lato sconosciuto dell’io, la fessura sulla superficie, l’alienazione o l’interrogativo esistenziale della coscienza moderna. Ci mostrano, ancora il risvolto interno del desiderio quale forza agente nell’uomo, in inizio xx secolo scoprendosi mosso da pulsioni esistenziali più antiche, innate o perlopiù inconsce.




In un altro salotto ricostruito con perfezione plastica e formale, la distruzione agisce in modo sottile attraverso un dipinto di Egon Schiele cui fanno eco le azioni performative dei danzatori. Accostato al caminetto di marmo è posto là quasi a dischiudere una soglia altra della figura oltre il limite della barriera realista, nella sensualita' esposta, nel disagio esistenziale messo a nudo dal pittore attraverso l’intensità espressiva del ritratto femminile. Nella stanza dentro uno spazio trasparente e romboidale quale antro dischiuso del corpo,  ugualmente, varie figure femminili compaiono, si muovono, misurano quello spazio felinamente attraverso pochi passi. Un corpo si mostra di schiena nella sensualità della sua forma nuda, esposta al pubblico muovendosi in essenziali movenze espressioniste, illuminato dai sensi entro la teca trasparente del salotto borghese. Intensità espressiva, restrizione della figura e disagio esistenziale ad essa connessa, il corpo femminile è esposto come in Schiele nei suoi tratti taglienti, nella sua intensità esacerbata e contenuta entro uno spazio scenico ristretto, ritagliato e per questo tanto più investito di espressività.




Nel paradigma di distruzione e creazione quali termini intorno ai quali si esplica l’avanguardia dei primi anni del xx secolo, il labirinto di azioni coreografiche e installazioni pensato per Intimamente Confidenziale agisce come percorso facendoci attraversare, ipnoticamente trattenendoci attraverso l’immobilità del marmo in questa dimora regale, deserta, dove aleggia l’atmosfera immota del tempo passato e una strana aurea di morte. Eppure, attraverso il percorso libero delle stanze, al suono ipnotico e ripetitivo del suo basso continuo, assistiamo, anche, al disgregarsi di quelle superfici formali, siamo come messi di fronte ad intermittenze ed intrusioni di presenze individuali, siamo come attirati e catturati dall’irrompere sulla superficie di questi spazi segreti del corpo, della psiche e dell’eros incarnati dai danzatori. Tali antri si fanno rivelatori di un’altra storia dell’io, di un’altra verità di quell’oggetto e soggetto insieme, li messo a nudo esponendosi e, ancora, lasciano udire il mormorio o il grido appena udibile dai ruderi infranti del mondo borghese.

Qualcosa dissolve sottilmente, qualcos’altro si crea simultaneamente, una crepa aperta su un muro ma anche l’immagine d’una porta o d’un antro luminoso alla fine d’un lungo corridoio. Una figura leggera si muove a passi lievi di danza mimando in un passo a due con un partner invisibile, metafisico messaggero dell’altrove, una qualche verità a noi sconosciuta dell’altro lato dello specchio per scomparire infine ed essere riassorbito dall’irradiazione luminosa della luce.








1 Sigmund Freud, « Caducità » p. 118 in 1914 L'anno che ha cambiato il mondo, E. Ravenna Festival

2 Cfr Nanou, « Strettamente confidenziale » video su www.grupponanou.it/video

mercoledì 11 giugno 2014

da Axel Hütte, “fantasmi e realtà” Retrospettiva, ( Fondazione fotografia, Modena)










La contemplazione silenziosa d'una natura estraniata d'ogni presenza umana si impone attraverso lo sguardo apparentemente neutrale di Axel Hutte  in visioni o squarci della medesima guidando lo spettatore in un passaggio costante tra il reale e la sua trasfigurazione poetica. Differenti serie si alternano, dalle atmosfere rarefatte e nebulose dei paesaggi alpini di cui volutamente fumi e vapori confondono lo sguardo, alle vette innevate sovrastate di nebbie al confine tra Germania, Austria e Italia o, ancora, agli scorci dell’Appennino modenese. Seguono le immagini degli sterminati ghiacciai artici, i riflessi d’acqua vibranti dei grandi fiumi come il Rio Negro, le foreste equatoriali, i deserti ghiacciati e ancora gli interni delle grotte carsiche e la loro sedimentazione rocciosa negli Stati Uniti.

Di fronte a una natura svuotata d’ogni presenza umana percepita come sublime e smisurata, aprendo a un infinito di bellezza e solitudine attraverso la sua contemplazione silenziosa, lo sguardo fotografico amplifica e trasforma il reale, plasma e configura uno materia prima ritrovata nel suo stadio originario e incontaminato. Lo scorcio o il dettaglio vengono sottoposti ad alteranti punti di vista, esposti all’incidenza irradiante della luce o all’intrusione perturbante delle nebbie, degli agenti atmosferici o ad altri effetti distorcenti alla percezione. La visione fotografica non solo registra ma crea, trasforma e plasma, altera o precorre il reale in immagine mentale, illusione onirica o suggestione poetica, attraverso la mediazione di una espansione della coscienza creatrice, d’una messa in immagine fotografica sola in grado di precorrere la visione e ricrearla in pure sembianze poetiche.



“Water Reflections” (Venezuela 2007)

La grande espansione del verde, agata, smeraldo o malachite d’acqua ascensionale attraverso questi riflessi liquidi nella visione della foresta, del suolo coperto di sassi e terra radicati in grandi tronchi secolari che si impongono e si elevano verso l’alto. Foresta pluviale, riflessi d’un paesaggio del sogno , d’un flusso o vortice d’acqua che si eleva, diparte, dalla melma fangosa del sottosuolo, da una palude baluginante di scintille luminose; E' questa grande espansione acquatica vista al contrario simile a un vortice che sale dalla selva verso il cielo portando l’acqua a fluire in un movimento di ispirazione verso l’alto. La foresta diviene un scintillio di punti luminosi, un’impressione al rifrangere della luce attraverso le sue fronde, simile a una veduta impressionista di ninfee galleggianti sulle acque indolenti degli stagni nella pittura di Monet. Anche il cielo appare completamente ricoperto da questo vortice acquatico d’un verde intenso portato, aspirato verso l’alto fino a occupare l’intero spazio del visibile. Riflessi d’acqua, lucido rifrangersi di superfici brillanti, giada, oro o smeraldo d’un tappetto traslucido e punti e tracce tendenti verso l’alto mentre i grandi tronchi secolari restano immersi nella terra, in espansione luminosa dei verdi e degli oro.





































Dalla serie “Mountains” e "New Mountains", (Austria, Svizzera, 2011-2013)


Cime di mondi sommersi, appena visibili, compaiono da rocciose vette alpine della durezza della pietra, d’una pietra millenaria, calcarea, granitica digradante verso il basso al margine dell’immagine che è qui completamente lasciata all’inondazione o all’afflato di nebbia: materia densa e nebulosa, della densità d’una sostanza grigia, espansa e rarefatta insieme, imponderabile imponendosi tuttavia, presente a massa, a nugolo, a densità intangibile, implacabile fino a espandersi per offuscare i sensi, l’immaginazione lasciando solo qualche rara impronta di luminosità retrostante. Là a sommergere come una cascata, una perturbazione o un’intrusione d’ordine cosmico, inspiegabile, disturbando la percezione netta, chiara e nitida delle cose fino a produrre uno smarrimento dei sensi, una patina coprente alla realtà, insidiosa infiltrandosi tra le vette e le rocce delle montagne. Nelle loro interne scavature o corrosioni le rocce appaiono ricoperte d'una cascata di materia gassosa, di nebbia cosmica oltre i limiti d’una visione tutta umana per aprire al terrore e al sublime di forze incontenibili della natura.
Attraverso lo specchio del reale la nebbia si fa volutamente tramite a tale slittamento onirico. Le visioni di cime alpine al confine con l’Austria appaiono ora grigie e bianche leggermente ricoperte di questa condensazione leggera, sulla quale si distinguono ancora le abetaie innevate nell’atmosfera immobile del paesaggio, ora lo stesso è completamente ricoperto dalla discesa implacabile, lenta e divorante d'una massa nebbiosa, coprente e occludente all’ immaginazione. Un fiume di lava o di materia evaporata e condensata si deposita come una patina densa e grigiastra sul paesaggio per impedire allo sguardo di attraversare, all'oggetto d’essere scorto, alla mente cosciente di andare oltre quella cortina di nebbia e neve condensata. Eppure, in virtù di tale invisibilità o schermo coprente altre forme affiorano come effimere impronte, giochi di espansione o emergenza della luce, qualcosa che fluisce o confluisce malgrado sé stesso dalla mente di chi guarda, e aleggia indistinto forse solo per essere percepito e catturato, catalizzato e trasformato da un irrisorio piccolo io individuale per dare nuove immagini al mondo, e nuova vita a quella materia sedimentata e spenta, e parole d'una lingua nuova a partire da una minuscola evenienza.


In Totenkopf la vetta è una strada che sale verso l’alto, una scalinata aperta verso il cielo, un graduale passaggio verso un altro livello di comprensione del vivente,
un dirupo scosceso che si eleva aprendosi al contrario contro la forza di gravità occludente del basso, contro l’ossatura interna delle rocce, contro le venature delle pietre e le interne circonduzioni dei suoi arti e delle sue arterie, delle sue incisioni e iscrizioni profonde. Sale verso l'alto al progressivo contatto con il biancore limpido della neve fino al rendere l’immagine della montagna doppia e ancora intrisa di cerchi e effusioni brumose nel suo tendere all’infinito oltre la neve. In Raucheck .la massa densa e plasmatica, solidificante e impenetrabile allo sguardo ha invaso ogni altra forma sulla vetta della montagna lasciando il paesaggio abbandonarsi all’infinità del suo moto sublime e perturbante di possibili affioramenti onirici.





“Underworld”, (USA, 2008)

Underworld: sotto-terra, sotto-mondo, mondo di mezzo tra la terra e il cielo. L’interno d’una grotta scavata nella roccia diviene l’immagine d’una cavità sottomarina, una barriera corallina tappezzata di lapislazzuli, coralli, minuscoli diademi assimilandosi a parete di pietruzze incandescenti, rosso acceso, rosato o bianco viste nel contro-luce d’ombra dall’interno buio, illuminate a giorno, ritagliate in questa visione da sogno. Sottomondo o mondo di mezzo rischiarato d’un tratto, la luce endogena arriva direttamente da dentro la pietra, questa pietra che s’anima come fosse in sé regno del fuoco apparso dall’oltre-mondo del nero. La sua barriera di cristalli di roccia si dispiega in campi di colore digradanti e luminosi, caldi e luminescenti sulla sinistra, rosso vibrazionali di fuoco e roccia sulla destra, in espansione gioiosa d’un bagliore a macchia luminescente al centro, poi d’un verde smeraldo che come onda vitale propaga luce verso il rame-argenteo dello stagno sottostante celato tra i massi e i dirupi del sottosuolo. Echeggia di risonanze e voci, di possibili affioramenti di forme e segni, la visione d’un mondo apparso dal sottosuolo rifrangendosi in falde acquifere sotterranee, celato tra le oscurità imperanti dell’oltre-nero come un “regno di mezzo” tra la terra e il cielo. Simile sembrerebbe a una montagna purgatoriale quale passaggio obbligato verso l’alto una volta usciti dalla cavità infernale. Dall’antro oscuro della perdizione, da quell’oscurità che è in noi alle origini, da un oltretomba immerso nel nero infernale un palazzo luminoso appare tra le rocce nel suo limite esterno di parete o barriera, irradiazione della trascendenza del bianco, del verde argenteo-stagno depositato tra le rocce e del fuoco sacro tra quelle illuminato. Come per caso prende forma attraverso le tenebre nel riflesso d’uno sguardo.


Portrait 19 “Water Reflections”, (1998)





Sé stesso minuscolo seduto su un tronco dimezzato galleggia sull’acqua, su una roccia andando alla deriva; sé stesso minuscola, irrisoria presenza contro l’afflato cosmico dell’acqua attraverso i suoi infiniti punti luminosi . Teatro d’acqua, l’attore in scena è immerso in un effluvio di riflessi smeraldo-elettrici in una distesa d’acqua-schermo coprente verde e nera. Nero puntigliato d’una miriade di impulsi luminosi, di linee e tratti brillanti del firmamento. L’attore è in scena, luminescente là in mezzo, immedesimato, perduto o a metà rapito dall’evento scenico nel suo esserci, teatrale in unione con lo spazio, nel momento performativo del sé, d’un sé prima minuscolo, sfuocato, invisibile ora espanso in una grande presenza. Sullo sfondo appare come un profilo ingigantito delineandosi nel controluce d’ombra della figura alle sue spalle. E’ sguardo dall’alto includendo tutto il visibile, filmandosi filmato, come un grande occhio esterno puntato sul suo interno apparire su scena.





Rio Negro, (1998)

Foresta pluviale, la distesa d’alberi d’una laguna d’acqua occupa tutta l’immagine: siamo dentro la foresta, tra gli alberi, attraverso le fronde in mille arti espanse aprendoci un varco tra le foglie, serpeggiando tra tronchi e a stretto contatto con il sentore della terra. Sentiamo l’esalazione delle selva, la natura nella totalità di un grande respiro cosmico, all’ennesima potenza nella sua propria sublimazione ma vista attraverso uno sguardo estraniante dall’interno della corteccia, delle foglie, dei tronchi resi univocamente presenti al centro senza altra misura di riferimento esterna. Siamo perduti nella contemplazione silenziosa della foresta da dentro la materia organica delle sue foglie. Lo sguardo dello spettatore fluttua dentro questo lago lucido di acqua e di fronde, dentro questo sogno di vegetazione impregnata d’acqua, tra gli spiragli di luce aperti, tra le foglie svolazzanti come forme eteree, d’aria, ninfee, macchie di colore rosso, ocra, terra, immedesimandosi da dentro la selva intrisa di pioggia, infiltrata di luce tra le fronde.

Senti le corse e le grida dell’infanzia, gioiosa, di bambini dentro quella foresta irradiata di luce vista a distanza attraverso i riflessi d’una camera mobile. Attraverso le acqua d’un lago vedi la gioia di forme in movimento, assisti alle fluttuazioni d’uno sguardo inseguendo, tracciando il proprio filo poetico attraverso le cose e, insieme, nello slittamento costante del suo punto di vista filmando oltre la città, ai limiti dello spazio abitato.






“Glaciers de Bossons”; (Francia, 1997)

Ghiacciai sui quali puoi camminare come su una distesa lucida di materia gelata dissestata e ricoperta dei suoi interni dossi, cumuli e insenature. E’ solo e ovunque nell’immagine questa strada avallata di ghiacci non uniforme e piatta no, presentandosi invece come una somma di pietre e piedi che l’hanno attraversata lasciando sul loro percorso i loro solchi e aperture in assenza d’ogni presenza umana. Eppure ci sono queste tracce imponenti, incavi e insenature talmente presenti nell’immagine, ci sono impronte indelebili, marchiate come fuoco su ghiaccio, segni forse di forze incontenibili della natura di cui la terra si rende essa stessa preda; non solo tracce di cammini e passaggi ma anche lasciti di lotte antecedenti, di scontri violenti, e incisioni di forze oscure, come se questo ghiaccio parlasse nella sua interna tessitura e fosse stato lì teatro d’uno scontro, d’una lotta, d’una violenta prevaricazione, dell’imporsi di moti soggettivi a leggi superiori dell’evidenza dell’universale. E’ visto così, pervasivamente occupando l’intero spazio dell’immagine, grigio argenteo ovunque sull’intera superficie a un passo dal cielo, dall’orizzonte, strato su strato ovunque densificato in interni slittamenti e insenature.


Bayerischer Wald, (Germania)

Si entra attraverso una foresta oscura, simile a una spaventosa selva dantesca e si procede avanzando attraverso quella distesa di tronchi e liane, dalle linee verticali dei tronchi che affondano su un suolo disomogeneo alle linee incidenti , agli incisi di liane frapponendosi attraverso il paesaggio boschivo una volta valicato il bordo esterno della foresta. Eppure la luce passa attraverso, infiltra e crea questo varco aperto, questo spiraglio luminoso che partendo dal basso appare delineare come una scia, un tracciato semi-nascosto, a metà cancellato o non visto, tuttavia inequivocabilmente là come una sorta di fluire necessario, della luce endogena all’oggetto o allo spirito di vita che abita quel luogo , luce che viene dall’alto, delle profondità dell’anima universale e vibra attraverso tutti i gradi della materia sulla terra fino ad aprirsi in tale passaggio luminoso tra i tronchi; in alto la nebbia resta diffusa, effusa in circonduzioni lievi attraverso la selva. Quella luce aprendo un cammino trasforma e sposta l’immagine nel luogo del segreto, in un regno misterioso attendendo dall’altro lato una volta compiuto l’attraversamento.






“Glaciers”, (Norvegia, 2000)

Qui il paesaggio è ampio, limpido, netto allo sguardo tuttavia arso, completamente raso al suolo dal gelo, mentre sulle lastre di ghiaccio immobili la luce scivola conducendo a un diffuso bagliore su una strada libera che procede all’infinito oltre i limiti del nostro sguardo. Volutamente svuotato d’ogni presenza umana, la strada o il paesaggio immobile di ghiaccio bluastro si apre come un cerchio ellittico disegnandosi in una strana circonferenza sferica, non-finita oltre la nostra possibilità di comprensione o visione. La bianchezza immobile e atona della distesa di lava gelata, poi la cortina immobile e grigia del cielo atono ricongiungendosi all'orizzonte; solo qualche riflesso bluastro argenteo e metallico vibra ancora leggermente in primo piano. Eppure lo sguardo è sereno, aperto e calmo, conduce a un’idea di stabilità, a una natura percepita come immobile e lieve, non aggredente ma che riassorbe nella sua immensità, nei suoi silenzi, nella sua eternità fuori dal tempo e dalla storia.