domenica 25 dicembre 2011

A proposito di Gutai, performance e arte corporea



“Se dobbiamo lasciare accadere qualcosa, che é la base a partire dalla quale gli happening sono stati creati- vale a dire in un happening tutto puo’ accadere - questo deve essere perché non abbiamo nè idea nè sentimento a esprimere ma siamo disposti a rinunciare a tutto questo e a passare a una situazione nella quale non si cerca di esprimere qualcosa ad ogni costo ma di aprire la propria coscienza e curiosità. Se si é dunque animati da una coscienza espansa e da una curiosità totale allora si creeranno le condizioni complesse nelle quali qualcosa puo’ avere luogo_non la cosa alla quale si pensava ma precisamente quella alla quale non si era ancora pensato.” 


 “Amo che l’arte rimanga misteriosa. Fino a quando non comprendo fino in fondo un libro, un quadro o un brano di musica posso applicarmi per espandervi le mie facoltà. Se capisco una cosa la ordino in uno scaffale e li’ la lascio. La mia idea é che la vita al quotidiano é più interessante di ogni forma di celebrazione quando ne prendiamo coscienza. Questo ‘quando’ é il momento in cui le nostre intenzioni sono ricondotte a zero. E’ la che ci si rende conto d’un tratto della magia del mondo”. John Cage





Su un immenso foglio di carta Kazuo Shiraga depone un ammasso di pittura e la distende violentemente con i piedi.    Non  é la manipolazione della materia nell’ottica di un’ intenzionalità concettuale predefinita ma  ritrovare, in condizioni spontanee, la sintesi organica che si instaura tra il supporto materico, l’azione e lo stato psichico dell’artista.
“ In che modo il mio atto che é corpo vivente puo’ resistere alla materia inerte? Prendere supporti totalmente opposti alla vita perché sussista su essi,  primariamente, la traccia delle mie azioni”. Negli anni cinquanta in Giappone, uno degli esponenti principali del movimento Gutai, sviluppa una pratica pittorica che si ricongiunge all’azione corporea come sintesi tra il materiale pitturale e l’automatismo psichico dell’azione, nell’aleatorio lasciato al processo di composizione, nella ricerca, infine, d’una astrazione direttamente generata dalla materia.

Sospeso a una corda, i piedi lanciati su una superficie bianca, neutralmente data,  Shiraga lascia affiorare una serie di tracce,  strana coreografia di segni apparentemente insensati, tanto casualmente apparsi  quanto rapidamente scomparsi, ricoperti, in parte cancellati  da altri venendosi a sovrapporre, ad aggiungere ad essi:  impronte, pigmenti, zone di densità colorata, colature intenzionali di vernice, grumi o amalgame e la loro altrettanto rapida involuzione, disfacimento o metamorfosi. La tela diviene campo d’azione, d’emanazione, di battaglia, campo aperto, minato, dilazionato,  dilazione d’azioni vaganti pronte a esplodere da un momento all’altro, zona ad alta tensione di  attraversamento reale o metaforico del corpo ma, anche, confronto con l’assoluto che ne trapela, malgrado e nella non-volontà individuale, di fronte agli occhi increduli dell’artista.

Su una materia oleosa dentro la pasta distesa a strati del colore ad olio, le piante dei piedi affondano come spatole o pennelli nella continuità intermittente e prolungata dei tratti.
Pittura a macchia fatta di scivolate, cadute, passaggi gravitari del corpo al suolo, spinte, affondi e riprese , passi in avanti e all’indietro. Una danza dai movimenti rapidi, ritmati, precisi, ritmici piuttosto che melodici, in continuità interrotta, discreta, discontinua.
Dipingere con i piedi, nell'imperfezione che tale atto implica, nell'insorgenza d' un io  rivoltato dalla sua posizione logocentrica essenziale é, in qualche modo, la danza d'un corpo alla rovescia materializzato dalla pittura, un corpo fatto di flussi, correnti, deflussi, deformazioni plastiche rovesciandosi in formazioni/deformazioni di pigmenti colorati, in nodi, grumi o strati di pasta malleabile. La pittura é, infine, lascito residuale del corpo, bruciante come sigillo impresso di cera al suolo. L'aspetto oleoso, denso, palpabile ad occhio nudo del rosso impronta-colore, materializza l’identità svaporata dell’io, dilazionata nel lascito impersonale delle sue estremità corporee.










Negli anni cinquanta, sono le simulazioni di lotta nel fango un’altra celebre azione performativa di Shiraga.

“Lottare nel fango”: la lotta contro la vischiosità dell’argilla liquida,

la superficie intesa ancora come limite, quadro o cornice iscrivente lo spazio in una gabbia prospettica lotta contro l’istante effimero, fugace e irripetibile dell’azione pronta a lacerarla, distruggerla, farla a pezzi lasciando tracce del processo nel passaggio. “Dipingere come si corresse in tutti i sensi in un campo di battaglia, spingendosi fino alla fine, fino allo sfinimento. ”
L’immersione, l’affondamento e la risalita nella materia bruta della terra liquida impastata all’acqua riporta allo stadio d’una amalgama viscerale, mota, fanghiglia o limo disciolto dove il corpo é riassorbito, affondato per reimprimersi in tracce laviche,  labili quanto l’apparenza mobile dell’argilla  che lo ricopre e lo avvolge.
E’ anche la memoria dei corpi larvali, contratti o convulsi, affondati al suolo o immobilizzati dallo strato di colore bianco di cui il butoh si serve per compiere lo stesso moto a ritroso,  o ancora, l’aleggiare di ombre dei corpi inceneriti, carbonizzati, ricoperti delle polveri spente di Nagashi e Hiroshima.


 





 Partendo dal Manifesto dell’ arte Gutai

“La magia dei materiali: pigmenti, tela, metalli, terra o marmo”;
“La riconciliazione dello spirito umano e della materia che rivelata si metterà a parlare e perfino a gridare.”
La bellezza che percepiamo, anche nelle alterazioni causate da disastri e oltraggi del tempo, o da fattori esterni agenti sulle cose, corrosivi o corrompenti. 
Le fessure, le crepe come  processo di ritorno a uno stadio precedente dell'oggetto, come lotta per ritrovare la trasparenza delle cose nel loro stadio originario e non separato.



Pollock, Mathieu : “Provocare il  grido dalla materia, dai pigmenti, dalle vernici in una straordinaria simbiosi con la loro interna struttura ”.

Astrazione “concreta”:  spazio autonomo di creazione, astratto poiché non limitato dalla rappresentazione, ma ugualmente lasciato all’automatismo di un processo psichico che trascende la soggettività dell’artista in una messa in spazio inconsapevole tra la materia e il processo di sintesi creativa.

Deporre sostanze chimiche su una carta-filtro e attendere il risultato della reazione  per dilazione, 
per accadimento rinviato, costantemente riportato a un momento successivo nel tempo o al suo mancato avverarsi.
Rompere un flacone di vetro contenente smalto su un supporto-superficie e ottenere cosi' una pittura risultante da schegge in vetro e schizzi di  vernice partiti in tutte le direzioni.
Provocare per mezzo di gas acetilene l’esplosione d’una piccola macchina bellica riempita di pigmenti colorati che si diffonderanno, il tempo d’un istante, in un’esplosione colorata.
Camminare su un ponte affondato, farne un campo lungo con vista sull’orizzonte;
l’elasticità tessile di vecchi sacchi di corda o tela iuta,       un costume fatto di lampadine intermittenti , calligrafie lievi d’acqua o di fumo ricondotte a un singolo tratto.

La traccia d'un avvenimento, l'artista di fronte a una materia duttile, malleabile o bruta difficile da considerare come opera finita: impronte di fuoco su tela, colate di plastica fusa,  strati di cemento su fogli di metallo, buchi al suolo, tagli di superfici, vibrazioni di lampadine elettriche.  
Colori primari, terre, polveri o lave scintillanti lasciate colare al suolo liberamente saturano gli spazi.
Tracce d'azioni: tagli violenti d’ascia su supporti di legno,  una tela perforata riempita di tanti piccoli buchi apre o lo spazio a una terza dimensione; pezzi di fogli d'asfalto sono distesi e strappati.
Sacchetti pieni d’acqua colorata sono appesi a rami di pino,
piccole lanterne in carta di bambù disegnano affascinanti  geometrie di forme nell'oscurità.
   
Intagliare, lacerare, fare a pezzi, carta, fogli, tessuti o quadri;
lottare nel fango, dipingere con i piedi,   immenso tessuto rosso,  dispiegato, infuocato, sospeso dal suolo. Filamenti metallici ricoperti di cemento, quadri incrostati di frammenti di vetro e metallo,  rilucenti nel fango.
Nel fango sprofondare, nel fango riemergere,   pietre raccolte sulle rive o i fondali dei fiumi, aspergere o tingere, macchiare o versare inchiostro su tele, su tessuti bucati. Carboncino incandescente contro olii o vernici.
Un raggio luminoso bluastro riflesso da una lastra metallica attraversa brutalmente le tenebre, rischiara lo sfondo d’un tratto, immagine astratta, nulla vedere, sulla vacuità si chiude la scena.














Immagini dal gruppo Gutai

1-     Kazuo Khiraga
2-     Kazuo Khiraga
3-     Performance Gutai, (foto), Ohara Kaikan
4-     Kazuo Shiraga
5-     Jirô Joshihara
6-     Toshio Yoshida
7-      Jirô Joshihara
8-     Murakami Saburô
9-     Shimamoro Shôzô
10- Kazuo Shiraga
11- Tsuruko Yamazaki
12- Tsuruko Yamazaki





sabato 17 dicembre 2011

OPERE VISIVE E COREOGRAFICHE A CONFRONTO da “Danser sa vie” Paris Centro Pompidou ( Parte I, danza moderna)









Matisse, « La danse », 1932

Una superficie snodandosi in estensione orizzontale da una parete all’altra in sequenza ritmica continua; composizione libera di concrezioni plastiche e musicali nello spazio.
I corpi-silhouttes si snodano, si divincolano, si liberano espandendosi lungo tutto il piano orizzontale, quasi uscendo dai limiti ristretti, condizionanti della tela,

trompe-l’oeil ingannando la bidimensionalità esigua della superficie per divenire tridimensionali, plastici, smisurati e espansivi, elevati all’ennesima potenza in parti disuguali, prese separatamente, dinoccolate, divincolandosi a tratti, a frammenti, per parti di braccia, di gambe o di seni, in scorci di anche e bacino morbidi  nella continuità ritmica del movimento. Sfondo ritmato, ritagliato direttamente dentro l'  à plat musicale del colore  in estensione orizzontale nell’alternanza delle tre tonalità, rosa, blu  o nero contro i contorni iconici, grigi, delineati delle figure sottilmente disegnate.

Isadora Duncan

« I movimenti delle onde, dei venti delle maree, le armonie della terra, i flussi e riflussi degli oceani, le movenze sensuali o selvagge, impercettibili o oceaniche, tenui, tenere o feroci degli animali liberi. Il movimento dell'universo condensato in un singolo individuo,
 la concentrazione di forze vitali che irradiano da un centro invisibile, la propensione all'azione, l'immobilità come parte del movimento, apparente, simulata o transitoria mentre tutto continua a muoversi, muovere, essere mosso. La forza gravitaria universale, la lotta contro la legge della massa al suolo oppure il lasciarsi affondare, l'andare a fondo sotto il suo peso, il peso della gravità. Accoglierla, assumerla su sé come movimento concentrico, nucleare ritornante verso la matrice,  oppure resistervi, farle opposizione, rigettarla, combatterla in una lotta feroce e fiaccante per ricerverne la portata violenta del contraccolpo  nella caduta, nell’affondamento al suolo, nella contorsione del corpo rivoltato,
su sé stesso ravvolto, accasciato in piccola nucleo, su terra come animale ferito.

“Luce cade sui fiori bianchi. La danza  sarebbe la traduzione di questa luce dalla bianchezza irradiante. Talmente pura e forte, trasmessa dai movimenti della natura che  ugualmente ci percorrono."
Movimenti di luce rischiarati dal pensiero del bianco.
Questa danza sarebbe una preghiera: ogni movimento si dispiegherebbe in lunghe ondulazioni verso il cielo fino a divenire  parte del ritmo circolare e eterno dell'universo. 
Non vi sarebbe movimento che non ne presupponga altro, al cuore della natura l'eterno divenire del vivente in moto immanante e proprio,  ogni cosa ritornante, volgente su sé stessa, indotta in ciclica evoluzione, rivoluzione o involuzione. Movimenti spontanei, innati , continuità di forze naturali dentro il fare dell'umano rispetto a cui le divinità non sarebbero altro che personificazioni esemplari, proiezioni esterne della loro intrinseca natura.

André Derain,  “Danza” 1905 (disegni)

 Tratti appena accennati, schizzi di danza rinviano a questa visione d'un corpo preso nel flusso d’ un movimento naturale, estatico, armonioso, ricongiungendosi alle forze primarie dell'individuo illuminate qui d'una luce bianca, della leggerezza dello slancio,  del sollevamento della propria massa gravitazionale nella sospensione aerea e gioiosa della danza.

Forme libere nella continuità dello spazio simili a onde, maree, fluttuazioni d’oceani, liquidi che scorrono nei visceri, si espandono o diluiscono in altre forme,
movimenti sismici appena accennati, scosse vibratorie impercettibili dalla terra che riecheggiano nelle vibrazioni sottili dei corpi,  nella continuità dei ritmi naturali. 
 Corpi nudi, denudati, liberati nell’utopia gioiosa dell’inizio della modernità. 
Figure femminili dal contorno accennato a tratti o solo a metà disegnato, a metà riportato al rosato d'una loro reale incarnazione, nella singolarità vivente dell'individualità femminile, nell’unisono d'un battito fisico e emotivo.













 Mary Wigman “Hexentanz ” (danza della strega), 1914

“Lo splendido tessuto dispiegato di fronte agli occhi: disegni audaci in fili metallici, un fondo ramato attraversato da riflessi d’oro e d’argento su un tracciato nero. Scivolare nello studio di notte e cercare di provocare uno stato di intossicazione ritmica che avrebbe portato a trovare questo personaggio risvegliatosi lentamente in me. La ricchezza delle idee ritmiche sommergeva ma qualcosa si opponeva perché esse divenissero chiare e organizzate, qualcosa che costringeva il corpo in una posizione seduta o accovacciata nella quale mani avide potevano ancora possedere il suolo.”
« L’immagine d’una posseduta, scapigliata, con gli occhi affondati nelle orbite, la tunica da notte aperta, il corpo in un senza-forma. Creatura della terra dagli istinti denudati, lasciati emergere in un insaziabile appetito di vita, donna e animale insieme.”
 “Rabbrividivo di fronte alla mia immagine, di fronte a questo lato di me stessa svelato che non avevo mai lasciato trasparire prima in maniera cosi’  netta, audacemente visiva.” 

Dare forma a questa creatura elementare, dargli forma dandole un contorno o la sua ombra, plasmandone la materia come  si plasmerebbe la creta  d’una statua, come la si raffinerebbe avendone presente un’immagine precisa dettaglio dopo dettaglio, come  la si farebbe fondere e poi risolidificare infinite volte, in infinite, nuove apparizioni.  
Saper costringere il caos della sue possibilità ritmiche dentro un ordine, figurazione esterna e plastica di potenze che osano appena manifestarsi sulla nostra facciata civilizzata. 
“ Quel pezzo di tessuto in lamé aveva nella sua bellezza barbarica, nella sua rigidità sontuosa qualcosa che corrispondeva al carattere spaventoso della mia danza. Seppi d’un tratto che il tessuto e la maschera andavano insieme, che avevano dovuto attendere il ritorno dall’esilio per dare alla “danza della strega” il suo volto autentico, la sua immagine teatrale propria.
Cercavo intensamente ad ogni rappresentazione di riaffondare allo stadio originario,di  ridare vita alla forma vibrante della sua creazione, ritornando al punto dove tutto aveva cominciato”.

Momento di attraversamento estatico, il cerchio si chiude ricongiungendosi con le divinità in senso dionisiaco attraverso il movimento  danzato. Le forze telluriche, matriarcali ugualmente riecheggiano dal moto circolare della terra a quello organico, reinventato dalla sfera cinestetica dell’umano.  Tra estasi e sofferenza l’uscita da sé é il ritorno a una corporeità altra, antica che la danza wigmaniana convoca, mette a nudo, risveglia passando attraverso il respiro, l’impulsione ritmica prima del corpo. Il soffio primordiale, respiro della terra “ grande maestro misterioso”, regna secondo Wigman, “sconosciuto e innominato al di sopra di tutte le cose e modula l’espressione in relazione al colore ritmico e melodico della danza”.

Corpo accovacciato a terra, contratto, ripiegato verso il centro, l’insondabile volto-maschera, il tessuto e la maschera in quanto elementi fondanti della composizione. 
Movimenti rotatori, circolari, incentrati sul bacino si alternano ad arresti improvvisi dei medesimi. Il fondo ritmico percussivo, ascendente, portato all'ennesima potenza accompagna la tensione plastica fatta salire e arrestata in singoli gesti. Intensità tesa, spasmodica della figura, il volto interno a quello esterno fusi, fusionati insieme nel tutt’uno della maschera che parla, respira, traspira immobile intensità. Movimento per la maggior parte istintivo, irriflesso, inconscio proveniente dalla terra, dall’innato del corpo, nasce dal bacino, dal centro propulsivo del respiro  per passare in continuità nel torso, dal torace alle spalle e le braccia nell’intossicazione ritmica voluta, portata fuori, fatta esplodere violentemente prima d’arrestarsi in sospensione d’immobilità.    


  E. Nolde: "Kerzentanzerinnen", (Danzatrici con candele) , 1912

Colori vivi e saturi restituiscono  l'ebrezza, l'intensità estatica, la tensione del corpo wigmaniano sottilmente teso, sospeso sul filo che lega pulsioni opposte  di liquidazione, liquefazione, e insieme di fusione,  unione o riannodamento . 
Colori a plat riempiono fondo e figure in senso anti-naturalistico, espressionista: rosso, rosa, arancio giallo ocra-brillante Le figure sono portate, spinte al limite della loro  figuratività in un processo dove il fondo, l'intensità del movimento pulsionale, prende il sopravvento sulla forma e la fa andare a pezzi o meglio la diluisce, l’espande, la deforma ma sempre nell'ambito della rappresentazione, senza raggiungere un processo d'astrazione numenico. 
Fondo rosso antinaturalistico, rosa dei corpi in continuità tonale, difficilmente riconoscibili presi in una ivresse poetica, inarcano le schiene come corpi rapiti in movimenti frenetici,  giallo in colatura liquida, intenzionale di colore al suolo come cera di candele lentamente fatta fondere a macchia, frammiste al rosso saturo dello sfondo perdendosi in oleoso informe. 
Lo stesso impulso agisce dalla diluizione del colore alla motilità frenetica dei corpi posseduti, presi nel rapimento estatico della danza.

Nolde, in altre tele, vede le danzatrici come silhouettes di corpi finemente allungati, figure-traccia dalle tonalità rosso, verde o arancio, ora filtrate dal riflesso di un velo violaceo che ne avvolge il capo scendendo ai piedi o da quello luminoso, abbagliante d'uno schermo di luce che le investe in chiaro-scuro. Ancora, é un corpo stilizzato, dalla gestualità selvaggia, animale che chiaramente suggerisce le danze rituali “negre” delle culture prime. 

“La danza di morte” della Wigman ritorna nella pittura di Kirchner come una processione di figure-maschere dai volti allungati, irriconoscibili, ravvolti in veli e a metà cancellati come rigati da colatore intenzionali, atone di colore . L’estasi della danza confina qui  con la tragedia quando una figura singola esce dal gruppo per avanzare e danzare sola fino alla morte come la vittima prescelta, in un atto catartico e insieme sacrificale,  gli occhi chiusi, il volto rivolto verso l’alto in aspirazione  a una qualche salvezza, in uno stato violentemente agito di corpo, infine in questa apertura estrema verso l'assoluto che é  anche passaggio ultimo e rituale verso la morte. 
Immagine che non puo’ non evocare la “Sagra della primavera” coreografata dalla Bausch  molti anni più tardi.







 (Ernst Ludwig Kirchner, "Totentanz" (danza della morte), 1926-28
 ( Pina Bausch, La Sagra della primavera)