mercoledì 24 settembre 2014

“La ceramica che cambia” , su scultura, informale e ceramica nel contemporaneo ( visto al MIC, Faenza)



 



 (Lucio Fontana, "concetto spaziale"
                             " Sfere")
Giosetta Fioroni

“La  ceramica che cambia” nella mostra organizzata dal MIC di Faenza segue   l’evoluzione del lavoro scultoreo in terracotta dal secondo dopoguerra al presente; quale pratica scultorea essa viene fatta riconfluire a pieno titolo nel filone delle arti plastiche contemporanee liberandosi del proprio ruolo decorativo e ornamentale, dalle precedenti gerarchie di appartenenza e categoria . Diviene oggetto di sperimentazione e rinnovamento, parte integrante e una delle tante vie aperte  dall’evoluzione della scultura moderna fino ai giorni nostri, frammista ai materiali più svariati, aperta a tecniche diverse dalla pittura all’installazione, quale mezzo espressivo antichissimo reinterpretato nel panorama multiforme e sfaccettato dell’arte contemporanea.  Tale evoluzione viene anticipata, come mostra il percorso espositivo, da una grande personalità del rinnovamento scultoreo italiano, Arturo Martini, che negli anni ’40 riporta la scultura a un piano di figurazione realista e, insieme la investe di un nuovo potenziale espressivo. Su questo stessa via si esprimono altri artisti in opere diverse.
In “Cavallo Giallo” (Aligi Sassu, 1947) la materia è primitiva e esplosa, masticata e rigurgitata fuori, ribollente fino a toccare o anticipare dalla forma del suo ancora visibile contorno l’informale della sua primordiale derivazione. L'eruzione d’un impasto materico vivo accennato in una parvenza di figura come lava ribollente condensa in ocra  scintillante nel riflesso smaltato della luce in colatura intenzionale dalle profondità della terra nella memoria d’una arcaica appartenenza.
Nel suo grottesco darsi e disfarsi in uno stesso moto di definizione e  sfinimento, di costruzione e sfasamento  della figura nel colore, l’ocra avvicinandosi al marrone si trasmuta  in giallo magma vulcanico, inarginabile rendendo la figura massa appena riconoscibile.

 “Antico guerriero su toro”(Gavino Tilocca, 1960): la figura appare sul punto di sollevare la lancia, ergere lo scudo in difesa e colpire il nemico in questa verticalità di linee tendenti verso l’alto. Pronto a scagliarsi contro, colpire in tensione, lo sguardo disumanizzato e macchinico, estremamente scavato in una sorta di maschera guerriera, proveniente dalla tradizione etrusca, in una sorta di patina ossidante, acquarellata in guizzi blu-argentei e pesantemente deposta su sé stessa, ricoperto d’un armatura rilucente, ramata in apparenza di ferro. La durezza refrattaria della ceramica è riportata, tuttavia, alla carne viva della figura, come voleva Martini, a una verità gridata fuori in linee tangenti, incidenti verso l’alto in quel punto tensivo di smalti e ossidi riflessa.

Altrove, un volto femminile (Saturni) affiora delineandosi nella forma d’un oncia in maiolica verdastra, acerba e scolorita nel riflesso attenuato in diluizione dalla pittura. La maschera-viso, la testa culminante nel cranio aperto dell’anfora, il collo sinuoso e parte del busto appaiono appena accennati; la figura trapela in questa particolare rigatura, scanalatura d'un viso allungato, apparendo a tratti dal substrato materico per casuale emergenza e in indissociabile unione con il fondo plastico sottostante.

                           
                                                                              
 La scultura ceramica attraversa l’epoca del neo-cubismo con produzioni improntate sul lavoro picassiano degli anni ‘50/’60 dove domina l’esplorazione della tecnica pittorica dalle vivide, rilucenti cromie sulla ceramica, la sperimentazione attraverso assemblaggi di materiali su forme tradizionali di maiolica

Mimmo Paladino

 “Dormiente ”(1998) in terracotta refrattaria di ingobbi e smalti coperto. Disteso al contatto con l'arenaria fredda e sabbiosa riposa su questa duna di sabbia e acqua attingendo al sole della marina e al suolo fresco d'arenaria improntato di passi. 
La testa riempita di passi,
di passi  che dipartono dalla sabbia al cranio forato da un buco nero di proiettile, lui scarno rigenerandosi dormiente sulla sabbia matrice, il viso acerbo, inumano, oscurato, gli occhi socchiusi in un sonno d'immobilità e d' acque stagnanti.
Stigmate sulle mani sono date per acri verdi smaltati .
Una grande creatura d’acqua, un animale acquatico enorme sopra di lui, sovrasta il suo profilo ergendosi  testa e corpo, anonimo, inconoscibile o senza volto. Gli occhi sono buchi neri svuotati, incorporei, inumani e la sua pelle squamosa del dorso sovrasta il dormente, un’ apertura o lacerazione sulla superficie della schiena.
Il colore di fondo di questa duna ocra e porosa è tracciato dal profilo della figura sulla sabbia:  l'impronta della medesima, poi,  quell'adiacenza o continuità forzata che lega la creatura d'acqua, habillée d'eau, vestita d'acqua, al corpo di sabbia nel suo contatto al suolo granoso e avvolgente.

 Lo strappo è improvvisa lacerazione sul tracciato del  dorso, apertura sulla pelle irta dell'animale, varco inciso sullo strato di materia d'argilla e, insieme, proteiforme  tentativo di sovrapporsi e  inglobare da parte dell'animale l'umano, da parte della materia, la forma e la figura. Il cranio è  aperto da un foro nero a lato, incisione e fessura, ma il luogo atemporale, d’oro e di sabbia dello spazio su cui il corpo è sospeso, sosta e si rigenera, resta rinvia a uno spazio vagheggiato, a un luogo primario e atemporale apparendo là come limite in controluce alla creazione.
  
Giosetta Fioroni, “Il mezzo fatato” (1998)

Una scala rossa sale verso l’alto, rilucente, fluida, ondulante nelle forme; il suo tronco rosso smaltato sale verso l’ aperto, infinitamente altro dando su uno spazio-dimora senza tetto e  senza barriere, rifugio dalla forma non-finita afferrato da una mano d’oro, forse divina.
Il suo  percorso d’ascesa verso l’alto resta come un’ enigma senza risoluzione dove tale antro sospeso si dischiude come un teatrino delle meraviglie, un palazzo di carta velina, luccicante e dorata, apparente tuttavia, al primo colpo di vento divelta. Lo sguardo surrealista rivolto a una realtà immaginifica e fatata, liquefacente nelle sue forme, lascia il posto qui a un moto ascendente che aspira, sembra, a un assoluto più puro, a un altro tipo di infinito.

“Caravella” (Goffredo Gaeta) luccicante d’oro in ceramica riflessa, smaltata e ondulante dalle forme risplendenti dei vecchi velieri, dalle vele dispiegate, il vento a favore.
Sull’albero oscillante attraversa le onde mentre la base frammista ai riflessi dorati sulle acque è vista  con qualche guizzo di blu e smeraldo a prua, lungo il ponte in coperta scintillante nelle sembianze ondulatorie e quasi animate del volto d'una dea.

Luigi Ontani, “TrumeauAlato” (1997-2007)





Il suo scrigno alato o antro delle meraviglie è un oggetto performativo e teatrale per eccellenza, finemente smaltato e rifinito in oro e pittura in ceramica, finemente decorato, assumendo le sembianze tutte umane dell’artista nelle diverse personalità che convivono in lui.   Stivaletti smaltati e piedi nudi, zampe di tigre o di rapace nella base, cassetti e antri segreti apribili come quelli dei piccoli secretaire dell’epoca monarchica e libertina francese finemente rifiniti in oro e ceramica dove si nascondevano pergamene e lettere manoscritte, sigilli e giuramenti, veleni d’amore o filtri di morte. Tale oggetto rispendente da boudoir del segreto appare decorato dai quadretti di Ontani auto-rappresentandosi in differenti posture, imposture o celebrazioni narcisistiche di sé: come Cristoforo Colombo esploratore impavido del mondo, poi riflesso attraverso i suoi libri riprodotti nella forma di volumi talmente scintillanti da apparire là in trompe-d’oil sul reale che uno sarebbe indotto ad aprirli, sfogliarli, leggervi attraverso per scoprire che sono solo simulacri intagliati in oro e ceramica,  raffinate decorazioni intessute sul nulla.
L’involucro svuotato d’una biblioteca inesistente appare così ricomposta: il Cavaliere inesistente di Calvino, le poesie di Baudelaire, la commedia "Divina"di Dante, il teatro di Molière, gli scritti di Cesare Pavese e altro ancora. Mani, busto-trumeau librandosi verso l’alto si ricongiungono alla testa dell’artista, volando insieme ad essa con le due statuette di Dafne e Mercurio verso il  proprio luogo alato. Tale oggetto del segreto ricompone, tiene insieme tutta la saggezza e il sapere del mondo ai suoi piedi, reale o lasciata ai suoi esterni simboli  e la celebrazione d’un sé narcisistico,  molteplice lui pure simulato in questo piccolo antro delle meraviglie, luogo d’attraversamento come d’Alice  nello specchio,  bijou-simulacro  riflettente e performativo.

 Nanni Valentini
 
La pittura in ceramica di Nanni è la “Fantasia” d'una mente radiografata in qualche sogno ad occhi aperti, la fantasia d'una mente scomposta in diecimila posture, figure, affioramenti presenti fuori dal tempo e dallo spazio possibili. E' una mente che visualizza forme geometriche, sintesi d'elementi decorativi e non, figure inverosimili in uno sfolgorio di colori e forme rinate da linee e punti diversi:  antri geometrici, manichini, scacchiere, patchwork di colori,  stagni, laghi, pozzanghere e specchi d’acqua, oppure semplici macchie colorate e intrusioni di volti di tanto in tanto fra quelle.


L'informale e la ceramica in Italia...
















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Dagli anni  ’50 fondamentale resterà per la ceramica la grande rivoluzione stilistica aperta dall’arte informale nella suo rinato approccio alla materia, nel ricorso al gesto accidentale, all’impulso segnico, nell’emergere della traccia o del segno nella creazione d’opera, in un ritorno, infine, primordiale all’impasto materico di cui la terra rossa d’argilla apparirà come componente scultorea prima.







L’informale riflette da un punto di vista filosofico la mutata coscienza del presente in epoca post-moderna insieme al senso d’una rottura, ironico distacco e rivisitazione con la coscienza del poi rispetto alla continuità storica della modernità;  è, allo stesso tempo, tale presente a imporsi nella sua urgenza vitalistica, nel gesto violento e immediato dell’action painting americano, nella sua capacità di rottura e rinnovamento estetico espressa dalle varie poetiche degli artisti informali.  Pittura materica sostanzialmente non figurativa: tracce, chiazze, segni filiformi, matasse, grovigli, filamenti, macchie e grumi di colore, del segno allo stato puro, infine l’impasto denso, intriso dell’apporto d’altri materiali sono  il più evidente manifestarsi della poetica dell’informale.


 


Attraverso le sculture dell'informale in ceramica...( immagini.. )

E' una testa-montagna in  rilievo in colatura di colore materico, granuloso e d’argilla (Enrico Bai)
E' materia in ceramica squagliata, lasciata fondere al calore estivo, come dolce dessert a poco a poco liquefatto nel viso distorto d’un espressione d’attesa.
E' Scultura-massa, massiccia nell’imporsi ineluttabile della sua forma primaria ed essenziale (Bertagnin).
Sono fogli di scrittura su ceramica, linee di versi incise su rotoli di papiri a sfidare la leggerezza del tempo e la fragilità della creta.
Sono tessuti, ragnatele e matasse;
E' la terra come luogo di poesia, l’essenzialità della terra evocata attraverso le sue zolle scolpite in Zauli.

Intagliato sulla creta il  suolo è aperto da crepe irregolari su una terra incisa e dissecata di sale e d’acqua marina  prosciugata e, in alcuni punti, ancora visibile in pozzanghere rilucenti e argentee (Cherchi).
Tronchi si ergono da una base nuda in “incontro d’inverno” , dove cortecce di bianche e grigie squame si mischiano a oscuranti vernici; la  corteccia squamosa si distacca a stralci come massa mossa e voluminosa contro la materia dura, indelebile  del tronco (Leoncillo Leonardi).
Il “Cane” di Zauli liquefatto in irosi guaiti schiuma lava ribollente di rabbia disfacendo contorni, linee e profili fino a riportarli alle forze del basso della materia. Singolare ergendosi, cumulo informe, materico d’animale organicamente visto.


Un albero liquefatto in tronco è aperto, scavato fino a renderci visibile la matrice disegnata dai suoi  cerchi millenari; restano i residui materici della corteccia ai lati e il centro inciso del tronco mancante.

Una scala  discende, linee a scacchiera color ambra, rosso rubino e cenere ossidata;

“il ventre di Giona”(Rontini) è  scavato e inciso simile all’interno d’una grande foglia, l’incavo d’un albero svuotato e ricoperto d’oro e d’ocra.

Pagine scritte, un totem-graffito, un volto graffiato;
Un involucro  scavato come antro in terracotta  “dove si racconta l’angelo”;
un grande orecchio cosmico lo sovrasta dove si odono boati e echi dal mare (Valentini).

Impronte di foglie, disegni lievi del vento sulla sabbia (Lucietti).
Una meteorite precipitata dall’ altrove come fulminea scheggia appare conficcata nella terra con una punta affilata.
La pelle ispida, squamosa d’un  "serpente puntigliato di rosso la sera".
Lo scheletro inciso, argenteo brillante delle vertebre d’un uomo in platino e terzo fuoco.
Il“dado esploso” di Zauli, il suo “primario esploso”:  esubero di materia in ceramica allo stato puro, 
fluida, espansiva e riflessa di smalti e vernici.






 Lucio Fontana, ricerca materica, dimensione spaziale



“Ho preso una massa di gesso, gli ho dato una struttura approssimativa e gli ho gettato addosso del catrame. Mi interessava trovare una nuova strada, una strada che fosse tutta mia”. (sulla scultura “l’uomo nero", 1930). La vocazione alla materia in Fontana comincia ad avere il sopravvento  dal ’36 quando attratto dalle potenzialità della terracotta scolpita vi lavora assiduamente divenendo uno dei protagonisti  del rinnovamento della ceramica contemporanea. Modella la terra nell’apparenza cromatica, luminosa e quasi astratta della sua scultura ma con un richiamo organico, sempre presente e quasi magmatico alla materia. Dalla fine degli anni ’30 si fa anticipatore dei motivi dell’Informale europeo dominanti dal secondo dopoguerra. In una dichiarazione-manifesto del 1939 “la mia ceramica” afferma:

 “La mia forma plastica non è mai dissociata dal colore, colore e forma indissolubili nati da un’identità necessaria. La materia era attraente, potevo modellare un fondo sottomarino, una statua o un mazzo di capelli ..Il fuoco era una specie di intermediario: perpetuava la forma e il colore. Si parlò di ceramiche primordiali. La materia era terremotata ma ferma”.

 L’argilla unita ad altre componenti, esuberante, vitale  si ricongiunge alla ricerca  cromatica sulla maiolica  amalgamata fino alla sua versione definitiva nel passaggio attraverso il fuoco. In questo modo l’opera in ceramica è liberata dal ruolo statico d’oggetto decorativo , dalla sua gravità, dal peso che questa aveva fatalmente assunto nella tradizione. L’artista lavora sull’impasto materico e lo trascende attraverso una ricerca cromatica, sulla luce e sulle possibilità scultoree aperte dal rapporto tra oggetto e spazio, lavoro artistico e espansione concettuale del medesimo. 
A partire dal ‘47  al ritorno in Italia nel rinnovato clima artistico milanese del dopoguerra Fontana inaugura il nuovo concetto di “scultura spaziale” cui seguiranno successivi Manifesti  definendo il movimento Spazialista a livello europeo. Attraverso la serie dei “buchi” in campo pittorico la tela viene tagliata come la superficie del quadro implicando quelle forze che come molecole, particelle, raggi o elettroni liberi premono contro la superficie statica, piana del quadro, ne rompono  la bidimensionalità e mostrano lo spazio con una dimensione pura, assoluta che tende a una propria infinità e dove le forme fluttuano in movimento, dove, infine, la materia  o, al contrario, la sua assenza, la sua sottrazione disegnano concretamente questa altra idea di spazialità attraverso l’opera. 

L’espressione nuova dell’arte spaziale di Fontana nei “concetti spaziali forati” su tela, nella scultura in ceramica e il suo nuovo modo di pensare lo spazio a stretto contatto con l’opera e oltre la bidimensionalità della tela, l’inclusione anche del vuoto in esso ne fanno un grandioso rinnovatore e precursore nei primi anni ‘50.

“Sfere” nere in terracotta del ’57 ossidate e smaltate in grigio e oro sono segnate da perforazioni e lacerazioni. Forate, traforate e intagliate sulla parte alta  della terracotta smaltata. Una inedita dimensione spaziale  si lascia intravvedere attraverso questo gesto di rottura, di apertura che travalica il confine tra l'oggetto scolpito e una nozione astratta, asettica di spazio dove le cose apparirebbero immote, eternamente date e inanimate. 

 Il gesto assoluto di lacerazione su una materia statica, impenetrabile come quella della ceramica ossidata nelle sfere tende a modificare lo spazio, a mostrarcelo in una sua dimensione di infinito, di apertura all’indeterminato, ma anche nel vuoto che esso rivela attraverso la fenditura. Tale spazio in ogni caso aspira  a ricongiungersi nell’ottica spazialista a uno “dimensione assoluta”, primaria e atemporale o comunque antecedente al  flusso storico determinato .

Le perforazioni, i buchi sulle sfere dell’ocra e del nero smaltati paradossalmente nella loro ritmica precisa e definita non creano rottura ma continuità con lo spazio reale o apparente  Questo altro spazio evocato, immaginabile come limite filosofico è simile a quel' infinito intravisto partendo dalla materia per trascenderla definitivamente.







lunedì 1 settembre 2014

Blu, green and gold...attraverso Ravenna

  
 
 







Ravenna con i suoi mosaici e le sue basiliche, la sua aurea splendente di capitale anche se solo nel breve spazio di un secolo, il V d.c. , continua a vivere oggi oltre la ristrettezza fisica e mentale dei suoi abitanti, oltre le costrizioni sociali, spaziali e comportamentali di tutti i piccoli centri urbani. I suoi palazzi di foggia antica ormai decaduti, serrati da finestre e persiane sbarrate nascondono corti, chiostri e giardini, intere stanze guardando solo verso l’interno mentre le facciate danno sull’esterno  a quelle viuzze strette e tortuose del centro pavimentato di pietre, e quelle parti di mura che ancora oggi la isolano e la separano, volutamente creando barriere di diffidenza e silenzio, isolamento e paura dell’altro, dello straniero, dell’estraneo, di tutto ciò che non appartiene alla loro vecchia guardia aristocratica. E, nonostante questo, le porte cittadine, gli archi  ancora maestosi si aprono come frontiere, vie d’accesso, zone franche verso l’interno pedonale del vecchio centro.

Ritrovare la città come stranieri ritornandoci dopo tanto tempo, non riconoscersi tra i suoi abitanti, non appartenere, essere estranei in quel luogo poiché prima si era sempre abitato fuori, nelle zone limitrofe, nelle campagne, nei paesi e nei villaggi che circondano il piccolo centro cittadino. Ritornare con questo senso di non-appartenere, anche,  a quella gente di campagna, dei villaggi, del paese di cui non resta oggi altro che un piccolo agglomerato urbano di case sparse e altre costruite recentemente a ridosso della città dove nuove famiglie si sono insidiate. E distese ampie, immobili isolate di antiche lagune  bonificate divenute, in seguito, campi e terre coltivate, campagne lussureggianti e rare case intercalandosi a quelle.

Restare tristemente colpiti, ancora oggi, dall' occlusione, dai separatismi, dall'avidità degli abitanti cittadini riconoscendo in essi  la ristrettezza mentale delle piccole città di provincia. Eppure, una strana bellezza trapela dai luoghi consegnati alla storia antica, un'aurea regale, silenziosa ogni volta entrando in quei siti a parte della città, percorrendo per arrivarci sentieri di pietre a vista, prati  e scorci di pineta dove si scorgono all'improvviso tra i lastricati parti delle basiliche, cime dei campanili, cupole, contrafforti, oppure queste piccole costruzioni in mattoni che si intravvedono in mezzo alle vie pedonali soprattutto la sera, al crepuscolo, quando la città si svuota all'improvviso dei suoi turisti, dopo le nove il centro divenendo solitario, stranamente disertato.
E' questa aurea regale o alone aristocratico, solitario e poetico che ancora oggi aleggia leggero quando il volto più autentico della città si scopre, lasciata a sé stessa, non  invasa dalle orde assedianti dei turisti come nelle grandi mete d'arte italiane. Ravenna è la luce degli ori e dei mosaici irradiante che riflette e rifrange contro quella che penetra dalle vetrate opache, nelle tonalità smorzate d'alabastro delle basiliche.    



















E, ancora sono i blu oscuranti dei cieli stellati di Galla Placidia_ il piccolo mausoleo dal nome dell’imperatrice che governò qui per quarant’anni_ tempestati di stelle e croci greche cerchiate in oro, tenue bianco o azzurro pallido con qualche raro riflesso di verde o di rosso.

Rivedendo l’interno dopo tanto tempo totalmente ricoperto di mosaici si resta colpiti  dall’intensità di quel blu oltremare, astratto quasi nel suo darsi in contrasto voluto con le croci e i motivi decorativi d’oro, mentre le fondamenta di pietra appaiono permeate da un soffuso, opaco riflesso d'alabastro che salendo verso l’alto dissolve in pura luce come la materia terrena al contatto con il mondo ultraterreno.   Cervi si abbeverano, alla ricerca del cammino, assetati alle limpide sorgenti, immersi in un esubero rigoglioso di tralci e di viti, tra loro le figure dei quattro apostoli; allo stesso modo una croce d’oro brilla al centro della cupola circondata da una miriade di stelle che  moltiplicano in intensità al loro avvicinarsi  in prossimità d'essa creando il senso d’una profondità spaziale ultraterrena. Come questi cervi si abbeverano a una fonte sconosciuta dentro la selva alla ricerca del cammino verso la croce dorata in alto, l’anima è alla ricerca dell’assoluto, del divino, nella lotta tra la vita e la morte,  e le dominanti oscure del blu oltreoceano sono riassorbite a poco a poco dalla luce calda dell’alabastro poi dall’irradiazione dell’oro proveniente dall’alto della croce.
 

Le volte sovrastanti portano al centro il monogramma del Cristo affiancato alle lettere greche alfa e omega, il principio e fine di ogni cosa mentre nelle lunette laterali l’acqua  sgorga zampillante dalle fonti a cui  due colombe si avvicinano per dissetarsi. Nel mosaico sovrastante l’ingresso, il Cristo è visto  con estrema naturalezza, giovane e imberbe come pastore attorniato dal suo gregge, scettro e croce alla mano, di fronte a lui il fervore nascente d'una nuova spiritualità  agli inizi del cristianesimo nella figurazione del martirio di S. Lorenzo.
 

 



 
 

Tali luoghi di splendore e silenzio sono nascosti, scavati dentro la città e le sue zone d’ombra, tra le vie ristrette e tortuose del  centro :  i monumenti perduti e ritrovati, i luoghi del passato riportati alla luce nella grande semplicità e epurazione di alcune basiliche;  ancora, i frammenti di mosaici pavimentali e i tappeti aurei trasferiti in nuovi siti, le facciate dei suoi antichi complessi monastici, i loggiati con i chiostri e le corti interne oggi divenuti musei e biblioteche, infine alcuni giardini che si aprono come tracciati simmetrici e regolari all’esterno dei  medesimi .  

La  struttura ottagonale sovrastata da cupole e contrafforti di S. Vitale  ci sorprende passeggiando incuranti  per l’estremo nitore del  contorno nel controluce tagliente della sera. Non è più la struttura chiara e longitudinale delle antiche  basiliche paleocristiane ma quella d'una costruzione concentrica e complessa che fa perdere facilmente il  proprio percorso allo sguardo, costruita su più piani con cunicoli e deambulatori, esedre traforate che collegano un piano all'altro e grandi archi circolari. Tutto all'interno contribuisce a dare questa dimensione d'una struttura complessa e sfuggente che alleggerisce il  peso della sua massa strutturale disperdendosi in tante arcate e esedre, in molteplici punti di vista. Nell'interno,  ampiamente in penombra, oltre la cupola  principale decorata di marmi e stucchi d'epoca successiva, lo sguardo corre immediatamente all'abside risplendente di mosaici. 

Là sono i verdi e gli oro, i blu e gli alabastri, Cristo seduto sul globo celeste circondato da due   arcangeli, sulla destra il vescovo recando il modello della chiesa da lui costruita, e il verde  pervasivo, alternato a  tessere d'oro, verde lussureggiante della pineta adiacente la città,  verde della selva a ridosso del mare, verde e oro, verde portato al massimo della sua interna luminescenza per fare da sfondo a motivi geometrici e scene dell'Antico Testamento: le tavole di Mosé, il sacrificio di Isacco, la storia di Abramo ricongiungendosi alla simbologia del Nuovo Testamento nell' ordine superiore. E, poi, ancora il verde,  alternandosi all'oro, fa da contrappunto alle figure sospese che fluttuano sui fondali dorati, alle corti di Giustiniano e Teodora, giovane imperatrice dal volto nobile e austero, icona magnificente nello sfarzo degli abiti, nella ieratica postura che non smette di rinviarci, tuttavia, il senso d’una dolorosa, velata gravità.   

La basilica   di S. Giovanni immersa nella semi-oscurità dell’interno, ci sorprende oggi per sua luce soffusa proveniente dalle navate laterali e le sue file di colonne bianche, regolari e simmetriche sovrastate da semplicissimi possenti archi bianchi. Sui muri frammenti di mosaici pavimentali, i più antichi della città, vi assalgono dalla penombra dei corridoi, emersi in frammenti disparati, in figure  bizzarre, in animali fantastici e inverosimili oppure nel dettaglio della torre  d’una città, della nave rilucente d'un porto, nel volto d'una giovane imperatrice, in motivi geometrici infine forse d’influenza araba o orientale.

 Perché, infine, gli antri del cuore antico, gli edifici sacri e le basiliche in pietra a vista,
splendore dell'antica capitale si ricongiungono stranamente a Ravenna alle zone periferiche del porto, alle fabbriche costruite a ridosso delle lagune, agli spazi che si espandono ai margini della città: le costruzioni isolate in mezzo alle campagne, le vallate bonificate, le distese piatte e uniformi delle terre coltivate tutt'intorno.