domenica 22 maggio 2011

Specchi deformanti (su Anish Kapoor e Monumenta 2011, Grand Palais)








(“La presenza d’un oggetto può rendere uno spazio più vuoto che la semplice vacuità non saprebbe figurare.”)

Ogni momento di transizione trasforma una pietra in luce, un vuoto in argilla,
un velo su pelle che trattiene a sé il vento unicamente perché tra i due è la frattura d’un tempo manifesto, vacillante in un momento attraverso la forma d’un disequilibrio.

Il vuoto come volume, come presenza fisica permane come esperienza della vacuità, questa cosa d’altro che anima la materia della creazione, realizzandosi in forme tuttavia diverse. Nella membrana opaca del pigmento blu il vuoto rinvia all’oggetto irraggiungibile del corpo: corpo assente del padre, mancante della madre,
il corpo desiderato dell’altro, il mio corpo vuoto. E poi l’opera si muove, si sposta, diviene altra cosa e dall’oscurità della perdita sorge un’increspatura di luce o di desiderio, la forma fluttuante d’uno slancio in avanti, labbra, braccia, dita, linee della vita, l’incontro precario tra lo spazio e la vacuità, e in questa convergenza ambigua la scoperta del tuo corpo, del mio corpo.


E poi, d’un tratto, nella vacuità che contiene la roccia, vedo la cosa, l’apparizione, viene da dove? Dal di dentro, dal di fuori, abita l’interno, l’esterno dell'individuo, è materiale, immateriale, tangibile o manifesta, gettata, imposta o auto-generata ? Non accetta più le dimensioni fisse della distanza o della prossimità, transita tra la terra e il cielo, resiste, esiste, recede, retrocede, cambia sembianze, dissolve in liquidità, scivola, scompare e poi riappare. La luce della vacuità, tale il vuoto dell’argilla o il vento nel tessuto parte dalle profondità della roccia per raggiungere la superficie,
un istante nella trasparenza mineraria d’una pietra, attraverso la non-materia.

Anish Kapoor: “Il vuoto non è silenzioso; lo considero sempre di più come uno spazio di transizione, come uno spazio intermediario tra due. E’ una questione di tempo. Nel mio lavoro mi sono interessato al modo in cui si può, di nuovo, cercare questo primo momento di creatività, d’amore forse, dove tutto è possibile e nulla è ancora accaduto". E’ uno spazio in divenire, di qualcosa che risiede nella presenza del vuoto, e l’autorizza o l’obbliga a non essere quello che si pensava fosse a prima vista. Restituisce la sonorità, la risonanza del vuoto.

Questo aspetto d’una vacuità smisurata e creatrice, è un meccanismo che associa forze contrarie, e tuttavia correlate, la ritrazione e lo svelamento, la fuga dalla profondità e la tensione di un ritorno alla superficie, la cavità della roccia e estensione d’uno specchio riflettente o rifrangente. Non resta che un’aurea luminosa per rinviare al ricordo d’una pienezza perduta, mentre il muro si fa trasparente passando dallo stato bianco a quello luminoso.


Lo specchio riporta la profondità in superficie, riduce lo spessore e il peso della cosa a una pelle o membrana tesa del reale; non è più l’interno scavato della scultura ma una vacuità presente ovunque e non localizzabile in alcuna parte precisamente,
come lo specchio stesso, interiorità e esteriorità scambiabili, superficie riflettente, riflesso e riflusso, ingoiare e rigettare, ritornare alla forma vuota, la stessa nelle infinite realizzazioni della materia.













Testo ispirato a Monumenta 2011, “Levitiano”

Infinitamente orizzontale, verticale e orizzontale insieme, lo spazio dell’inizio.
Una luce che ucciderebbe a un solo sguardo, più brillante che la luce esterna; cristallizzerebbe la realtà, rischierebbe di annientarla, di farla riassorbire in una pura ipostasi della mente.

La concentrazione della luce nello spazio.

Il senso dell’oggetto resta effimero pur nella sua reale, indiscutibile presenza, presente in una forma unica, tesa come la pelle, il tessuto di un’epidermide sottile appena qualche millimetro, interfaccia tra l’interno e l’esterno dell'organismo.

Molti oggetti, allo stesso modo, sarebbero costruiti come finzioni del desiderio, della pelle, o dell’apparire,
costruiti attraverso la simulazione d’una massa, un peso, un volume, qualcosa che scintillerebbe nella visualizzazione d’un istante, al passaggio nel controluce d’una tela irradiata di colore.

La superficie riflettente di specchi deformanti.

Una preposizione diretta, semplice, logica, geometrica. L’interno e l’esterno, realtà simultanee che tuttavia non possono coincidere, mai corrispondere. Una disgiunzione tra le due e la proiezione di chi guarda, il processo messo in atto da uno sguardo esterno per fare la giuntura dell’opera.

Come avere a che fare con la luce del luogo, volgere la struttura, rovesciarne la pelle dall’interno all’esterno? All’interno è come un vuoto, una grande cavità o apertura disegnata in tre antri, all’esterno è una massa plastica gonfiabile, unica, la corteccia-pelle d’una materia dura, apparentemente inattaccabile, plastificata, impermeabile, non visibile se non in parti, contornandola in alcuni passaggi, passando sotto, attraverso altri; una tela di plastica tesa come una membrana messa a vivo in tensione, eppure impermeabile, rugosa.

Sommergibile enorme, bestia biblica dal corpo pesante, smisurato, atterrato sulla terra per confrontarsi all’architettura in ferro e cemento del sito; é presa in uno spazio di spiralità, di circolarità dove la forma non si dà mai nella sua interezza al visitatore ma è visibile in movimenti ascendenti o discendenti nel processo di attraversamento, per rigonfiature che appaiono smisurate passandoci sotto, sorprendendole visualmente dall’alto, allontanandosi per rimetterli nelle loro vere proporzioni.
Entrando la membrana é attraversata da enormi giunture a intervalli regolari come fossero le cuciture d’un tessuto, le vene d’un organismo o le volte circolari d’una cattedrale. L’atmosfera é densa, opaca, avvolgente, lo spazio pressurizzato impedendo all’aria di entrare, i suoni smorzati, il colore rosso, caldo, palpabile a pelle. Siamo dentro il ventre attraverso il colore, la tintura avvolgente dalla membrana al tuo corpo. L’ossatura delle grandi vetrate trapela in controluce.

Spazio vuoto, la vacuità non é lo stesso che il vuoto; lo spazio é completamente privo di materia ma pregnante all’immaginazione, della pregnanza primordiale del rosso, monocromo totale dove bagna lo spazio, convocando l’immersione in un certa esperienza percettiva che permette all’opera d’essere. La nostra esperienza presa di fronte all’esplosione della fattualità del rosso.

L’opera resta astratta ma dalla natura profondamente sensoriale, intima, come l’impressione d’essere in un interno per eccellenza, d’essere stati rigurgitati, d’essere passati d’un tratto dentro questo ventre caldo, avvolgente, tipicamente femminile, dentro questo organismo viscerale, le vene, la carne d’un mostro marino, levitiano, biblico forse. L’atmosfera é ovattata, scivolosa, avviluppante simile a un’incantamento, dove le forme delle tre cavità scivolano dall’una all’altra disegnandosi in cerchi concentrici, regolari tendenti verso un centro, degradati secondo i riflessi di luce presenti.

Le linee circolari dell’architettura esterna creano figure ellittiche che si ripercuotono nel gioco di riflessi; astrazioni ramificandosi verso un centro, sublime geometrico, incantatorio, mistico veicolato attraverso un geometrismo astratto nell’estensione e ripetizione delle linee.

Sono cerchi, ellissi o forme concentriche d’un architettura astratta ma anche cuciture viscerali, organiche, viventi andando a risvegliare una protomemoria corporea, fisica e arcaica, rinnovata dall’esperienza sensibile nella congiuntura astratta. La dismisura dell’oggetto produce una dislocazione percettiva e emozionale dell’ordine estetico esistente dunque la necessità d’un riaggiustamento dell’immaginazione, sotto l’effetto d’ una reminiscenza, simile a riconoscere, risvegliare in sé qualcosa di lontano, irragiungibile, estraneo eppure stranamente famigliare.



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