Paesaggio: sentieri battuti e nuove prospettive
(Riflessioni a partire dalla mostra al Museo Civico di Bagnacavallo)
Una
lettura contemporanea sul tema del paesaggio reinterpretato nelle arti visive
oggi, tale la riflessione che emerge dall’esposizione appena conclusa al Museo
Civico delle Cappuccine in provincia di Ravenna, “Paesaggi”, pensata come “un percorso stilistico e
tematico”, volutamente non cronologico, vale a dire una vera e propria
passeggiata esplorativa di ispirazione potremmo dire quasi calviniana tra
sentieri battuti e nuove prospettive per rivisitare tale tema intramontabile dell’arte.
Citando Calvino non possiamo non richiamare alla mente la figura del labirinto presente
in molte delle sue opere come percorso reticolare dal quale diramano molteplici vie o storie,
ipotetiche combinazioni di eventi aleatori o percorribili dall’immaginazione che
si tradurranno o meno nella realtà della pagina scritta. Da una parte, tale
struttura labirintica incarna un modo di leggere il mondo contemporaneo rifiutando
visioni troppo semplicistiche che continuano a reiterare le nostre “abitudini
di visione”. D’altro lato, il piacere di perdersi nel labirinto diviene la
possibilità di tuffarsi in forme non ancora esplorate della rappresentazione , quel
caos apparente che comincia ad assumere senso vagandoci attraverso senza
trovarne subito una via d’uscita: la
sfida al labirinto ma non la sua resa
incondizionata.
Il paesaggio, in definitiva da quanto emerge tra
gli artisti esposti, può essere letto nell’ottica dell’umano, del sociale o della
sfera globale, riallacciarsi al filone onirico del surrealismo, raffigurare un
sogno o una proiezione distopica della realtà in senso satirico o meno. Ancora,
può incarnare attraverso la
rappresentazione uno stato mentale, emozionale o del desiderio ma, anche, al
contrario, esprimersi semplicemente come un insieme di segni e tracce,
esplorazione della materia o della pelle per esempio nella micro–visione di un
dettaglio della natura o dell’ epidermide. Altrove, su versanti completamente
differenti, l’immaginario contemporaneo ci rimanda a scenari emergenziali di intere regioni e aree geografiche della
terra devastate da disastri naturali o dalle emergenze ambientali in corso in
varie parti del mondo che periodicamente investono di reportage i nostri media
e da cui anche alcuni artisti o fotografi contemporanei traggono materia per il
loro lavoro. Infine, la natura per altri
artisti giunge in inevitabilmente a confrontarsi o scontrarsi con la tecnologia
nella sua visione esaltante o critica del futuro attraverso un’immagine
avvenente della realtà aumentata o nel suo versante opposto e più deleterio quando mostra i limiti e le derive prodotte dalle medesime tecnologie.
Il
sogno del paesaggio: alcune opere a confronto …
“Mi basta aprire la finestra per vedere i
campi, il fiume. Non è sufficiente non essere cieco per vedere gli alberi e i
fiori. E’ necessario anche non avere alcuna filosofia. C’è solo una finestra
chiusa e tutto il mondo là fuori; e un sogno di quello che si potrebbe vedere
se la finestra si aprisse, che mai è quello che si vede quando si apre la
finestra”. ( Fermando Pessoa)
Manuel Felisi, “Vertigine ” (2022) e
CaCO3 “Cattedrale n. 42”( 2016)
In
Felisi è soprattutto una vertigine di colore, simile all’immersione in un campo
magnetico avvolgente fatto di rami che definiscono lo scheletro esterno, la
struttura portante di una forma arborea immensa, espansa sui due pannelli della
tela, attraverso la quale penetra la luce irradiando aloni luminescenti di blu,
viola, arancio o rosato attraverso le
sue fronde. Così appare come il sogno di un paesaggio espanso attraverso la
lente di una visione onirica e soggettiva, ingrandita quasi in quel telescopio
poetico dove le linee dei rami e delle foglie si espandono in finissima
tessitura che contiene al suo interno un iride dei colori accesi di luce.
Così, noi spettatori siamo attratti e catturati entrando nella stanza,
prigionieri di tale visione.
Per
CaCO2 sono fittissimi tasselli di vetro
brillante assemblati insieme in mosaico simili all’onda verde e incontenibile
di un prato o di uno spiazzo erboso, vibrante
ai nostri sensi, infuso di movimento, muovendosi in ondulazioni ritmiche
accordanti e discordanti secondo il fluire dei venti o di ipotetici correnti
che lo attraversano. Scintillante sogno di paesaggio ugualmente rifulgente di
luce dove la materia appare fuoriuscire dal quadro, prendere il sopravvento
dalla forma che all’origine doveva definirla per tuffarsi anche qui in un
vortice di senso, di materia e di visione. Come se la natura diventasse per
questo collettivo d’artisti uno spazio completamente mentale, immateriale,
generato dalla percezione di chi guarda e tendente verso una dimensione altra,
essenziale e puramente immaginativa.
José D’Apice, “Occidente” (2014)
Se
dipingere per l’artista italo-brasiliano Jose D’Apice è “ addentrarsi
nell’ignoto”, affondare nell’immaginario condiviso per indagare quelle pieghe e
scarti che la nostra società esclude o volutamente ignora, tale è la sua visione
inquietante e oscura della terra che lascia intravvedere vaghi presagi per le
sorti dell’umanità e del mondo. Come se queste ombre oscure, i rilievi tracciati
in fine inchiostro nero e matita colorata, questo sole tenebroso incombente
sulla terra lasciassero presagire contro la leggerezza del tratto un destino
funesto incombente sull’occidente. L’artista ispirandosi a sapienti citazioni pittoriche
a china riesce a mescolare tale raffinatezza compositiva a una sensibilità più aspra
e contemporanea sul presente, questo mondo naturale che da un’emergenza
planetaria all’altra appare imboccare inesorabilmente la via della propria
auto-distruzione.
Enrico Minguzzi, “Germogli d’inverno”
(2021)
Paesaggio
post-atomico, incendiario e apocalittico. Fluorescente indaco rosso vivo su una
natura inerte, grigia, quasi arsa da un’esplosione.
Come
la terra negli ultimi cinquant’anni è stata oggetto di una massiccia azione
dell’uomo tale da trasformarla, appropriarla e arrenderla a processi
irreversibili di contaminazione, allo stesso modo la visione di Minguzzi non
può che riflettere una simile ricerca d’artificio che si traduce in un uso personale
e saturante del colore fatto di contrasti violenti_ dal vibrante al cupo_ per
rendere la nuova era antropologica in cui siamo immersi. Il paesaggio resta
irreale, contaminato da luminescenze incendiarie e rossicce che sanciscono la
fine del mondo naturale, rigurgitato forse da un evento apocalittico e l’inizio
di un’altra era post-atomica, post-industriale tendente implicitamente verso la propria entropia.
Mattia Moreni, “Un pezzo di anguria come paesaggio” (1968)
La
materia è viva, presente nella tela come colore e come traccia densa lasciata
dalla pittura ad olio pulsante di soggettività impersonale, tanto da diventare
essa stessa paesaggio materico e insieme, prettamente espressivo. Angurie
compaiono in questa serie di quadri di Moreni
come densità materiche che assorbono lo spazio e dileguano ogni altro
soggetto mentre tendono a disfarsi, dissolvere di fronte a chi guarda dal
rosato al bianco, infestate di piccoli segni simili a semi o insetti neri
presenti sulla materia in disfacimento. Le forme sembrano liquefare in puri
correlativi emozionali totalmente impersonali, in tele successive alludendo apertamente agli
organi sessuali femminili seppur liquidati come forme. L’idea di paesaggio qui
è in maniera assoluta spazio di elaborazione del sensibile oltre la frontiera
dell’apparente ma sempre partendo o restando ancorati all’esperienza della
materia, del colore e della traccia emozionale che incide e plasma la
tela.
“Exodus” (2021 ), Fabio Giambietro
Il
paesaggio è per Giampietro esaltazione
di un mondo avvenirista e virtuale o la sua
negazione? Da una parte questa vista
urbana immensa e magnificente su una ipotetica città moderna appare sprofondare
simile al vortice di torri e palazzi verticali verso le profondità infernali
della terra; dall’altra, se vista in senso opposto, la città sembra elevarsi a
dismisura verso l’alto dal sottosuolo oscuro da cui ha tratto origine occupando anche orizzontalmente l’intera parete della
galleria. E ancora, l’opera è pensata per essere guardata attraverso un visore
di realtà aumentata che permette allo spettatore di tuffarsi in quel paesaggio
smisurato fino a esserne ingurgitati quasi là dove l’immagine tridimensionale
prodotta dalla tecnologia lo getta letteralmente e in modo spaventoso dentro il
quadro. L’opera è dunque leggibile come un’esaltazione cieca e smisurata del
potere della tecnologia sulla natura oppure come il suo opposto destabilizzante
e minaccioso per l’uomo. L’immagine di realtà aumentata confonde e fa perdere
le coordinate spazio-temporali allo spettatore; allo stesso modo un possibile
uso e abuso delle tecnologie implica derive irreversibili quando induce
all’annullamento dell’umano, alla distruzione della natura e alla catastrofe
ecologica in corso. Domanda aperta forse cui la mostra come labirinto di
possibilità espressive e interpretazioni sul tema paesaggio da parte di questi
artisti contemporanei non può dare facile risposta, semmai lasciando questa via
aperta e da esplorare nella seconda parte del percorso che si aprirà alla fine del 2023.