sabato 3 dicembre 2022

DE CHIRICO E L’OLTRE: dalla stagione barocca alla neo-metafisica, (mostra a Palazzo Pallavicini, Bologna)

 





E’ un De Chirico inusuale, certamente meno noto e acclamato ma altrettanto ricco di suggestioni e rimandi in controluce alla prima pittura metafisica quello che appare nella mostra di Palazzo Pallavicini, “De Chirico e l’oltre” visitabile fino al 12 marzo a Bologna. La prima parte delle opere esposte infatti appartiene al periodo della cosi detta produzione “barocca” ove l’artista lasciata Parigi per ristabilirsi definitivamente in Italia, ( da Milano a Firenze approdando infine a Roma) trae ispirazione dai grandi maestri del passato quali Rubens, Tintoretto, Delacroix o Renoir. Opere barocche che superando l’apparente naturalismo nella citazione quasi “post-moderna” dei grandi maestri della tradizione pittorica occidentale si pongono definitivamente  in un ottica dell’oltre, vale a dire ancora una volta nel superamento della natura verso la creazione di una visione onirica e irreale: “una finzione più vera del vero”. Nella seconda parte del percorso espositivo ricompaiono opere della stagione neo-metafisica appartenenti all’ultima parte della produzione artistica dechirichiana ( 1968-78) tra cui le suggestive ambientazioni delle Piazze d’Italia, le enigmatiche composizioni di oggetti e gli emblematici manichini rivisitati però con ironia, qui in forme più serene e giocose. Il percorso espositivo ci immerge in questa esplorazione di opere meno usuali e poco conosciute del grande maestro della metafisica che tuttavia riconducono in qualche misura, seppur in maniera differente dal periodo dell’avanguardia,  a un superamento della realtà oggettiva, certamente dello sguardo naturalista per esplorare attraverso la finzione  l’enigma annidato dentro le cose, una loro paradossale verità in quel presunto gioco di non-vero.

 


Bagnanti con drappo rosso nel paesaggio ( 1945)

E’ una visione di donna voluttuosa vista nella sinuosità di forme dall’apparenza realiste del corpo femminile ma che rinviano all’ideale barocco di una musa accogliente e voluttuosa, ammaliatrice, avvolgente nelle forme là dove il pittore rivisita il tema delle bagnanti in una variante moderna e seducente. Lo sguardo della donna ipnotico e incantatorio oltrepassa la semplice rappresentazione realista invitando già nel drappo rosso vivo che le modella il corpo alla carnalità, all’erotismo o a un’idea di implicita seduzione nell’immaginario dello spettatore.

Composizione con agnello (1947)

Ancora in un De Chirico barocco e figurativo è questione di spingere lo sguardo oltre l’apparenza oggettiva delle cose, per “veder la realtà oltre la realtà”, sviscerare la natura soggettiva dell’evento attraverso una finzione che riesce a rivelarsi “più vera del vero”. E’ l’immagine dell’agnello macellato che oltre la natura morta raffigurata appare come l’animale votato al sacrificio, la vittima votiva oggetto di olocausto arrestata nella sofferenza dell’oltraggio, nel mentre dello sgozzamento là dove l’espressione del suoi volto umanizzato si staglia in composizione frammentaria sull’immobile carne macellata tanto da rendere viva la crudeltà, l’aspetto sacrificale del gesto ben oltre la figurazione.

 

Autoritratto


Gli autoritratti si susseguono nel corso della vita e della produzione artistica dechirichiana come forma di rispecchiamento e insieme implicita dichiarazione di poetica: atto attraverso il quale l’artista riflette su sé stesso e la  propria concezione estetica. Da tale stagione figurativa emergono in particolar modo l’ “autoritratto in costume” e quello dove si mostra peculiarmente “nudo” di fronte al suo pubblico di interlocutori. Nel primo si rappresenta indossando un costume nobiliare del ‘600; si traveste in tale anacronistica visione del passato proclamandosi vicino ai grandi maestri del seicento là dove rinnega in qualche modo i valori modernisti di cui si era fatto portavoce nell’avanguardia. Appare tuffarsi in un ritorno alla tradizione pittorica barocca come via di fuga dal presente, nella citazione soggettiva di immagini provenienti da un passato rivisitato con la consapevolezza, certamente, dell’ insanabile frattura tra modernità e tradizione.   

In “Autoritratto con corazza” la maschera scelta dall’artista per raccontarsi in una sorta di autobiografia visiva è la pura e semplice nudità. Si mostra nudo di fronte allo sguardo dei suoi detrattori, critici e pubblico che l’avevano in qualche modo osteggiato rifiutando la sua nuova pittura antimoderna. E in tale tela maschera intima, rimpicciolita di sé stesso si mostra nudo nel suo corpo invecchiato, poco attraente, nella piena nudità del suo essere artista in qualunque modo, amato e esaltato oppure vituperato e non più compreso da critica e pubblico. Lo sguardo permane nei ritratti in primo piano come antro  rivelatore, là dove si manifesta ciò che trapassa la maschera dell’apparire o i travestimenti che esso assume per lasciar trapelare la natura incondizionata del creatore.

“Due cavalli in riva al mare” ( 1964)

La tela si rifà a uno dei soggetti figurativi privilegiati da De Chirico nella serie dei cavalli dipinti intorno al 1926 in riva al mare allo stato brado in mezzo ad antiche rovine. Magnificamente delineati in linee morbide e spumose appaiono qui nuovamente mossi dalla foga del vento circostante, selvaggi nell’andatura inquieta e tempestosa, colti in un nitrire bizzarro e incontenibile di teste. Loro, avvolti in questo vortice di schiuma e fluidi dalle acque del mare. Umanizzati, emergono dalla tela come  creature scalpitanti, vive, quasi irreali oltre la barriera mimetica della figurazione. Si rivelano a noi spumeggianti nella plasticità di forme mosse, incontenibili, non-finite.






Neometafisica ( 1968-78)

Dechirico nell’ultima parte della vita si lascia alle spalle l’ormai estinta ispirazione barocca per ritornare a una reinterpretazione dei primi temi metafisici che lo avevano reso protagonista indiscusso dell’avanguardia moderna. Ritornano le enigmatiche visioni sulle Piazze d’Italia vuote, i manichini disumanizzati dall’evidente portata simbolica, gli accumuli indecifrabili di oggetti antichi e moderni e ancora le rovine o i templi classici che inondano le stanze borghesi. Muta tuttavia, visibilmente, l’atmosfera e lo stato d’animo di queste ultime opere neometafisiche dove non trapela più la precedente visione disincantata e nichilista dell’universo_ la follia del mondo, il senso di spaesamento e perdita di riferimenti, la malinconia devastante dell’individuo moderno a inizio ventesimo secolo_ quanto un senso di accentuata ironia verso l’esistente: una visione più serena della realtà dominata da colori accesi e cadenze più giocose velate a tratti di una qualche malinconia.

Ne “Il pittore” (1958) ricompare l’invenzione del manichino al centro dei suoi primi quadri metafisici come alter-ego disumanizzato ma tanto più investito di sovra-senso simbolico ed evocativo. Seduto su un cubo squadrato  volge a noi le spalle con lo sguardo puntato verso il varco aperto del paesaggio fuori;  lui, concentrato nello studio della tela che gli sta di fronte agli occhi a distanza. La stanza come la proiezione del suo sguardo è questo reticolo di linee tracciate, di contorni stagliati e forme geometriche in una nitida ricostruzione dello spazio. Posto di fronte a lui è, infine, un altro manichino simile al suo riflesso su uno specchio deformato dove la realtà è ricondotta al quod essenziale del disegno. 

Manichini ripensati in tale inedita  versione divengono “maschere” nelle tele del 1970, visioni sovrapposte e contrastanti dell’io,sdoppiamenti o rivisitazioni stranianti di sé stesso.

Maschere ancora compaiono nell’intreccio dei due corpi in “La tristezza della primavera”( 1970). Un albero rigoglioso nel pieno fiorire della bella stagione annuncia l’affacciarsi della primavera sullo sfondo, ma i due manichini non si guardano serrati in una stretta che potrebbe apparire un abbraccio se non fosse impedita dall’intreccio delle linee sinuose sullo schienale barocco posto lì ad trattenerli. Sono maschere nude che non si e  guardano  e corpi immobilizzati dal grigiore di linee dense e sinuose pronte ad intrappolarli. Ancora in un’altra tela, “Ettore e Andromaca” ritornano come manichini stretti l’uno all’altro; maschere ultra-umane svuotate di identità si guardano senza vedersi, senza più occhi disegnati per a riscattare il proprio destino di automi  così come la percezione di un mondo immerso nel caos e nell’incomprensione.

Interno metafisico con officina e vista sulla piazza” ( 1969)

Giocoso e ironico diviene questo “interno metafisico” dipinto da De Chirico nel 1969 dove si accentuano i colori accesi e i toni più sereni nella reinterpretazione dei temi del passato. Dentro la stanza è un’agglomerato di oggetti e ritagli colorati di forme all’apparenza indecifrabili che strutturano la realtà attraverso un’architettura frammentata di sfaccettature cubiste. Un quadro dentro il quadro si apre su questa dimensione del presente:  “la fabbrica moderna”, un’officina industriale con vista su una piazza deserta. Un altrove  metafisico, l’enigma della realtà che si nasconde dietro quella apparente si affaccia dove oggetti iper-realisti come la fabbrica  o la piazza assumono sembianze astratte e irreali rimandandoci a quella malinconia e spaesamento delle prime ambientazioni novecentesche. Ancora, è la consistenza della memoria, la citazione del passato evocativa e nostalgica che si innesta, in un’unica composizione, sulla vivacità del presente nella sua vena ironica, molto più lieve e disincantata. 







giovedì 3 novembre 2022

Civilization ( fotografia, Musei San Domenico, Forlì)








Vivere, sopravvivere o diversamente buon vivere,  in questa dicotomia obbligata e, insieme sentiero che biforca in contrastanti  direzioni sembra porsi la scelta obbligata della società a noi contemporanea così come il nodo focale della mostra attualmente a Forlì, Civilization. Come se la nostra civiltà planetaria giunta ormai al ventunesimo secolo debba fermarsi di fronte a un bivio irreversibile  tra innovazione tecnologica_ un avanzamento digitale senza precedenti_ dall’altra parte, la minaccia di sopravvivenza per quella stessa umanità  messa di fronte a processi irreversibili e distruttivi da essa  stessa generati. Basta solo enumerare i molteplici e deleteri mutamenti della superficie terrestre, la  manipolazione distruttiva delle sue risorse o le derive ambientali che giorno dopo giorno continuano a mettere in discussione la sussistenza del nostro pianeta, i suoi abitanti ed ecosistema.  Inedita alternativa che si prospetta rispetto a tale dicotomia è quella citata nell’ultima parte del titolo, la scelta del “buon vivere”, scelta consapevole di un ritorno a una sorta di equilibrio planetario ristabilito, altra via percorribile rispetto a quella attuale nella progettazione delle nostre società presenti e future. Trecento immagini e centotrenta fotografi provenienti da oltre 30 paesi nel mondo raccontano e riflettono, esaminano e attraversano i nodi focali di tale attualità spesso conflittuale da molteplici prospettive e luoghi del mondo.

Lo strumento di comunicazione forse più immediato e universale oggi per rappresentare e condividere storie e scorci del nostro presente è la fotografia, digitale e non, alla portata di tutti, intuitiva e immediata nel suo modo di riflettere e raccontare, immortalare e interrogare la realtà contemporanea al crocevia tra ricerca estetica e riflessione politica.  Otto sezioni, otto temi conduttori all’interno di Civilization ci permettono di navigare attraverso la miriade di scatti proposti, tra esponenti cardine della fotografia internazionale ( Burtynsky, Hofer, Mosse) e artisti emergenti o meno noti del panorama italiano e oltre.


Alveare, ( Hive) il primo tema esplora il reticolo, l’agglomerato tentacolare, le reti urbane che danno forma alle civiltà moderne e ai loro sottotesti architettonici nei quali le città si articolano ed espandono oggi. Si passa, poi, al concetto di flusso ( flow) quale “ i movimenti visibili e invisibili delle persone, delle merci e delle idee attraverso il mondo contemporaneo”. Si giunge, infine, al tema della persuasione ( Persuasion) e del controllo l’uno esponendo i meccanismi subliminari di manipolazione e influenza da parte dei media, pubblicità e social network, l’altro come l’aperta sorveglianza nell’esercizio del potere in varie parti del mondo, la Russia per citare l’esempio più palese.  A ciò si oppone l’estremo della rottura ( “disrupture”) altro concetto cardine di Civilization come tutto ciò che rompe l’ordine o la struttura in essere di un sistema costituito sia esso una guerra come quella attuale in Ucraina o ogni conflitto interno a un paese che conduce a massicci flussi migratori, infine l’evento pandemico che ha colpito la sfera globale. Fuga ( “escape”)nella sala seguente rappresenta l’antitesi occidentale, la risposta di evasione e fuga dal reale in meccanismi inibitori che sfociano negli eccessi dell’industria del divertimento senza limiti dell’occidente. Infine con “Next”, oltre,  il percorso si conclude con un punto di sospensione, una domanda aperta  e senza risposta sul “ e poi”, ciò  che viene dopo rispetto a questo presente raccontato in molteplici sfaccettature e contraddizioni. Ci sono i nuovi orizzonti aperti dalle intelligenze artificiali, la robotica e le sempre più audaci esplorazioni dello spazio  nella caleidoscopica visione futurista del ventunesimo secolo ma anche le sacche di marginalità e miseria, i flussi di popoli in fuga da guerra e carestie dall’altra parte del pianeta. Tale la dicotomia irrisolta, i sentieri che biforcano o le vie possibili percorribili per la nostra prossima umanità raccontata per immagini nelle molteplici visioni di  Civilization. 


1-Alveare: “Favelas nella periferia di Bombai”, R. Polidori

La tentacolare città indiana nella periferia di Bombai è vista come una distesa caotica e polimorfa di costruzioni precarie e tetti di lamiera che occupano completamente l’altopiano e si estendono fin dove lo guardo può arrivare senza lasciare uno spiraglio, un respiro, un attimo di tregua a chi guarda. Emanano un senso di saturazione, di affollamento ma anche un groviglio disordinato di forme difficili da ricondurre a un disegno preciso mentre in un altro quadro astratto di Cyril Porchet, “folla”,  l’idea di affollamento è vista come un concetto dinamico, un movimento ribollente di guizzi e colori simili a un vortice che si riavvolge su sé stesso, verso il proprio centro mentre l’arancio, il rosso e il giallo finiscono per ingurgitare tutti gli altri colori.

Nella sezione  “Soli insieme” la ricerca di socialità nella metropoli va di pari passo con il senso di solitudine dilagante e quello di interdipendenza rispetto ai propri simili. Florian Bohm in “wait for walk”, (attendere prima di attraversare) rappresenta una folla di persone anonime, oscure e indaffarate, ferme a un attraversamento pedonale sulla 5 strada di New York; ciascuno preso nel proprio piccolo universo di vita, indifferente agli altri e tuttavia parte di una composizione più grande che viene a disegnarsi malgrado sé stessa in quello scatto fotografico perfetto. Persone in cammino sul bordo della stessa indifferenza e tuttavia viste in un quadro poliedrico, in una composizione mista di etnie, provenienze e ceti, specchio della nostra società d’oggi.

2- Solitudini a confronto

Peter Hugo in “there is a place in hell for me and my friends” riprende in primo piano ritratti di individui di cui la pelle diviene contrassegno, marchio di diversità rispetto ai canoni estetici condivisi e ancora rilievo di un confine su cui si combatte l’appartenenza a un gruppo come assimilazione e invece, al contrario la stigma prodotta dall’ ambiente su quello stesso individuo in caso di cesura con il medesimo.

Wang Qingsong “Work, work, work

 La schiavitù epidemica del lavoro nella società cinese di oggi dominata dal capitalismo produttivo occidentale è vista attraverso una messa in scena volutamente eccessiva e grottesca dove una folla di impiegati vestiti in uniformi simili a detenuti o prigionieri di guerra è rinchiusa dentro un capannone saturo di  computer e rumore mentre continua a lavorare in maniera spasmodica: loro mantenuti in vita da flebo artificiali per resistere ai ritmi disumani imposti. E ancora in queste visioni di solitudini a confronto nelle metropoli moderne sono le visioni di volti schiacciati contro i vetri della metropolitana ritagliati di notte  in singoli riquadri oppressi dal soffocamento dello spazio circostante.

3- Flusso

Mintio, “Bangkok, concrete euphoria”

Nel grande circuito elettrico delle metropoli moderne apparentemente  tutto scorre in un fluire rapido e continuo dove il denaro così come le azioni quotate  sul mercato finanziario, il petrolio o ogni altra fonte di energia produttiva  si muovono invisibili e onnipresenti alla velocità della luce attraverso le condutture che reggono e oliano tutto l’apparato. Tuttavia tali sistemi appaiono tanto tecnologici e veloci quanto esposti al loro collasso improvviso e definitivo nel momento in cui qualcosa si rompe o si arresta nel circuito: un’epidemia, una guerra, una crisi che sconvolge gli assetti mondiali e l’accesso alle risorse energetiche, l’evento eccezionale e non calcolato che accade come il suo irreversibile punto di non-ritorno.


4-Persuasione e controllo 

Identità e controllo subliminare dei media: algoritmi sempre più esatti e complessi creati dai grandi colossi che dominano la rete riescono non solo a raccogliere dati, influenzare le scelte degli utenti del web ma addirittura a predire e uniformare, plasmare e modellare i nostri gusti futuri, trend dominanti e preferenze sulla rete.  La persuasione può essere esercitata in maniera sottile o palese,  indotta attraverso  la pubblicità e il marketing in operazioni commerciali estremamente sofisticate nelle nostre società attuali. Vediamo tra le fotografie stereotipi di ritratti resi plasticamente su cartelloni pubblicitari,  simulazioni di luoghi identici agli originali in angoli desueti della terra come una filiale di Starbucks aperta in mezzo a falsi di palazzi antichi negli Emirati. Ancora,  immagini  multiple in schermi simultanei volutamente confondono l’individuo dissimulando una percezione nitida della realtà. Infine nella fotografia di Thomas Weinberger, “luce condensata”, un’atmosfera surreale e rarefatta emerge da un paesaggio urbano di impianti industriali irradiati di luce artificiale a distanza. La civiltà è qui rappresentata attraverso la grande metafora della fotografia là dove la luce irradia celebrando il potere creativo dell’uomo, la sua capacità di trasformare tangibilmente la realtà ma anche la fragilità di tale costrutto  nell’inverso potere di  distruggerla o manipolarla a discapito dell’altro.



Le civiltà appaiono come meccanismi complessi,  un insieme di componenti che devono funzionare in un ingranaggio perfetto e resistente a minacce interne o esterne al sistema. L’idea di controllo è espressa in questo modo attraverso tutti quei meccanismi di sorveglianza e potere con cui l’autorità viene esercitata nel quotidiano sull’individuo da istituzioni anonime e senza volto nelle stazioni di polizia, nelle prigioni, nelle centrali elettriche, nei tribunali o negli ospedali. In questa parte della mostra le immagini ci parlano di sistemi complessi o semplici, di punti che si compongono in un reticolato, di circuiti elettrici inglobati insieme  in un’unica rete. Altrove sono i fotomontaggi di regimi e parate militari alludendo alla recente storia cinese in un’ottica di imposizione sulle masse. Si oppongono così i due estremi opposti di libertà individuale, democrazia come pluralità, diversità, espressione di una maggioranza condivisa ma anche della sua opposizione e, dall’altra parte, i regimi di sorveglianza e controllo indiretto oppure apertamente imposto  sulla vita del singolo in forme coercitive di potere.

5-Rottura e fuga  

Le fotografie in questa sezione evocano tutti quei fenomeni di frattura sociale, politica, catastrofi naturali o generate dall’uomo che conducono a un punto di non-ritorno, a una svolta radicale e senza precedenti rispetto allo status quo della realtà esistente ma, anche, a tutti i conflitti insanabili interni o esterni a un popolo che ci costringono a guardare in faccia il fallimento della nostra idea di civiltà.  Tra le immagini più recenti quelle relative alla guerra russo-ucraina, Kiev colpita dai missili russi, le devastazioni prodotte su città ucraine come Mariupol  occupate dall’esercito  russo, “la marcia ucraina “dell’orgoglio nazionale” nel 2017, e ancora le flotte di migranti in fuga verso l’Europa occidentale: i profughi di guerra e quelli naufraghi al largo dei porti nel Mediterraneo. Infine sono  le immagini della pandemia nella sua prima e più violenta ondata di contagi, la reclusione e l’isolamento nei reparti Covid durante l’inverno 2020.

6-Next…Cosa viene dopo?

E poi cosa viene dopo? Ci interroga l’ultima sezione della mostra, mentre gli aerei con auto-pilota  sono già una realtà e le intelligenze artificiali sostituiscono in parte il lavoro degli umani nelle catene di produzione industriale robot operano sui corpi e sostituiscono parti dei loro arti con protesi artificiali. Se l’avanzamento delle tecnologie e l’avvento del digitale con l’ausilio della rete prospetta innovazione e progresso in ogni ambito della nostra vita dall’altra parte i fotografi contemporanei mettono in luce anche l’altro lato della medaglia:  le derive e i conflitti che tale corsa verso un progresso tecnologico fine a sé stesso  o un sistema economico globale non sostenibile o non equo producono con effetti devastanti sulla sussistenza dello stesso pianeta. Tale la dicotomia irrisolta, la domanda lasciata aperta e  alla quale solo le scelte nel prossimo futuro della nostre civiltà europee e non potranno dare risposta. Tra le vie percorribili “sopravvivere”, cioè proseguire verso una propria inevitabile  auto-distruzione, vivere o infine “ben vivere” con una differente consapevolezza politica e umana globale.

 



venerdì 26 agosto 2022

DAOLIO, “Il respiro della natura”, Palazzina D’Este, Ferrara









“Spaesati paesaggi disegnati da spaesata memoria, memoria che strappa, cuce, risveglia, rilegge, reinventa, ripresenta, scava e allinea cose, persone, alberi, rocce, pietre, cieli, erba, attimi miei e degli uomini.”

 E’ un mondo onirico, magico, fortemente evocativo e simbolico, certamente di suggestione surrealista quello si rivela e prende forma nelle opere dell’artista poliedrico Augusto Daolio, compositore e fondatore della band I Nomadi, nonché eccellente disegnatore e pittore contemporaneo;  i suoi dipinti e disegni dell’ultimo periodo_ perlopiù olii e chine colorate_ realizzate tra il 1973 e il 1992 sono attualmente esposti nella mostra ferrarese a lui dedicata a Palazzina Marfisa D’Este.  “ll respiro della natura”, dal titolo della retrospettiva, è per l’artista emiliano il respiro di ogni forma vivente, dagli alberi alle rocce, dalle pietre all’erba che germoglia, dal respiro dell’uomo a quello di ogni essere animato o cosa della natura soggetta a metamorfosi in quanto viva e per questo fonte di visione creativa. Così, nei suoi disegni il corpo dell’uomo si ricongiunge a quello degli alberi, una rigogliosa natura germoglia sulla testa degli umani e inusuali connubi, ibridazioni e innesti accadono con grande naturalezza dalle pietre ai corpi, dagli astri ai volti, infine dagli alberi alle figure umane. Il tutto perseguendo una forma di bellezza estetica, nell’insondabile mistero che il cosmo porta in sé e che come tale vuole essere messo in luce dall’artista Daolio.


 

Gli alberi

L’albero tra forza e nutrimento dall’oscurità della terra silenziosa e misteriosa.” E’ un “essere fisico” che irrompe in un esubero di rami, foglie, chiome o semplicemente sta nella solidità della propria corteccia-tronco, affondando nel sottosuolo le proprie millenarie radici; ma è anche, per Daolio, un essere “metafisico” che esce dalla terra acquistando corpo di uomo o di donna, forma fragile o robusta, genuina o artefatta sovrapponendosi o innestandosi all’ umano. E’ infine “essere poetico” che crea visioni fantasiose e pittoresche nella mente dell’artista e si imprime nello spazio come sul foglio quale fonte di ispirazione primordiale per la sua arte.

Nella stessa sala vediamo nella serie dei dipinti una chioma che diviene il volto di una donna, eterea e silvestre come una dea su un tronco alato simile ad aquila. Appare poi un tronco aperto come fosse l’involucro di una corteccia dove all’interno si nasconde un torace d’uomo generato e nutrito dalla linfa stessa dell’albero centenario, a sua immagine, mentre i suoi piedi si fondono con le radici sommerse nella terra. L’uomo abbraccia la natura in questo ritorno essenziale e inevitabile a un’idea di unità primordiale dove, in un altro disegno di Daolio, il tronco prende le sembianze di una mano, quella della natura, che abbraccia l’altra, completamente umana, e le radici dell’albero nutrono le radici dell’uomo in una compenetrazione unica e profonda tra i due. Una sorta di unità originaria e salvifica è così inconsciamente ristabilita tra l’uomo e la natura che solo può prospettarsi come orizzonte salvifico per preservare le sorti dell’umanità in questa sincronicità infranta tra uno e l’altro nel cosmo oggi.




 


Nella sala seguente un tronco si plasma nel corpo di una donna e la sua testa si delinea allusiva tra le radici là dove la figura femminile sembra fondersi in una vera e propria relazione amorosa con l’albero. Altrove, è una testa di donna su cui si intrecciano rami, cespugli, e alte chiome; infine il corpo femminile si distende sensualmente sulla terra e sulla sua schiena germoglia un cespuglio: nuova vita si crea all’apice di un simulato amplesso amoroso con la natura.

 



“Spaesata infinita malinconia per i paesaggi che non ho mai visto e che avrei tanto voluto vedere.” Spaesata rabbia per tutto ciò che ho conosciuto intatto o comunque originale, primordiale e che ora agonizza soffocato dall’ingordigia e dalla cupidigia.”


 

La visione poetica di Daolio è percorsa dalla malinconia di paesaggi illusori o puramente immaginati dove metamorfosi umane e non solo accadono su sfondi onirici e lunari. Altrove, in tanta parte dei suoi disegni emerge il senso di un equilibrio perfetto evocato tra le forme naturali e quelle umane, all’immagine di un “mondo della relazione” dove l’uomo vede sé stesso come parte integrante di quell’unità fondamentale che è il cosmo. Daolio convoca istintivamente questa visione inclusiva come unica via percorribile, forse in risposta al grado di sempre maggiore scissione dell’uomo sulla terra e dalle risorse che essa ci offre.

 

L’artista, al contrario, pone alla base dei suoi disegni un ascolto profondo, un’immersione inclusiva con tutto ciò che lo circonda, volendo abbandonandosi quasi agli odori della terra, dell’erba, della corteccia e degli alberi. E la pittura, come egli afferma “ scava dentro me per interrogare lo stupore, la meraviglia e il segreto”. 
Essa si ricongiunge a quella miriade di percezioni che una volta sedimentate nella memoria involontaria strappano e ricuciono la trama usuale dell’esperienza in una serie di visioni inedite, originali e assolutamente soggettive suggerite dalla mente inconscia, forse da una memoria primigenia oltre il tempo e lo spazio presenti.

 

“Spaesata energia che mi spinge a cercare altri luoghi della nella memoria, sentieri di cui conosco a malapena l’inizio, labirinti vegetali che non lasciano filtrare il sole e freschi, umidi, ammorbidiscono, ingentiliscono i miei pensieri negativi.”



 

Vediamo in questa serie di disegni un grande occhio visionario alla base di una piramide misteriosa; una caverna di citazione neoplatonica dove le ombre illusorie all’interno impediscono di vedere oltre il velo della rappresentazione  l’essenza della vera realtà che l’uomo insegue come quel varco di luce accecante all’esterno . Ora la pittura assume i simboli astrali del sole e della luna: un volto maschile scolpito e greve chiude il circolo lunare del disegno in modo complementare ad esso. Un volto femminile simile a divinità del sole ricompone i frammenti in unità e ritrova la propria divinità  oltre la frammentazione dell’io. Infine è un bimbo che dorme accovacciato su un masso  volto verso il cielo stellato, avvinto a una falce lunare nella semi-oscurità cosmica intorno.  


Per Daolio disegnare, infine, non è possedere uno stile  e riaffermare  un segno consolidato ma cercare, scavare nel grande e piccolo mistero delle cose, della memoria personale e collettiva spinti sempre da quella “sottile malattia, da quello strappo o desiderio che non trova mai guarigione” e che tanto più genera una “immensa passione creativa e costruttiva”. E’ in questa continuità delle forme della natura e di quelle umane che tutto scorre nella sua pittura e la linfa vitale degli alberi circola e irriga i corpi in una implicita sinergia tra tutte le forme viventi. Come i massi divengono umani e le rocce parlano, così il soffio vitale passa da un corpo all’altro, dall’uomo alla terra, dalle radici agli alberi e da questi agli astri in una visione cosmica dove tutto si compenetra e si ricollega in unità.

 

 

giovedì 28 luglio 2022

Viaggiando attraverso l’Andalusia… tra passato e presente


 

Prima tappa: Malaga











 

E’ una città-porto dove l’arsura e il calore torrido del clima estivo nel sud della Spagna sono mitigati dalle correnti marine del Mediterraneo che bagna la popolare Costa del Sol per ricongiungersi all’Atlantico nei pressi di Gibilterra. Tuttavia, nonostante la pervasiva modernità urbanistica la città mantiene i colori luminosi e le tipiche atmosfere andaluse, le tonalità calde delle facciate e la rigogliosa fascia di palme tropicali che simili a lussureggiante giardino botanico fiancheggiano l’elegante viale litoraneo.

 

La città vista dall’alto appare divisa come se due anime l’abitassero e due storie ne facessero parte; da un lato la distesa di grattacieli colorati che si estendono fin nelle anonime periferie e cingono la baia insieme all’arena moderna costruita ai suoi piedi. Dall’altro lato, si staglia la cittadella fortificata, una delle ultime piazzeforti di Spagna a cadere in mano cristiana, traccia del piccolo regno moresco indipendente qui insediatosi dal 1236 alla riconquista dei re cattolici. Il tutto è immerso nell’inusuale sentore di oasi tropicale della città andalusa che sembra permeare di fronde rigogliose, alte palme e getti d’acqua il maestoso viale costiero.

 

 Tra queste due metà opposte e complementari guardando la città dall’alto si scorge al fondo il nucleo portuale, il suo polo commerciale ed espansivo forse meno attraente allo sguardo ma in sé stesso proiettato con vigore verso il futuro. Ancora avvicinandosi, lo sguardo si posa sull’ampia zona della baia tra gru e grattacieli in costruzione, mentre, dall’altro lato sulla collina, si erge in postura di baluardo difensivo la roccaforte araba e, ai suoi piedi, l’anfiteatro romano. Lì, le mura millenarie infiltrate di rampicanti e buganvillee rossicci e vivaci esalano profumi intensi, estasianti ai sensi. Al centro, quasi come un passaggio gettato tra due metà disuguali, nella simmetria imperfetta di un corpo scomposto si erge  una costruzione trasparente e colorata: grande cubo di vetro a tasselli di plastica dipinti, opera contemporanea dell’architetto  Buren ospitante la sede dislocata del Centro Pompidou parigino. Forse in quest’architettura aerea e lieve dalla semplicità disarmante e dai tasselli colorati messi lì per caso, sembrerebbe, dal gioco di un bambino, si ricompone il corpo architettonico della città con il suo skyline moderno e luminoso da un lato e il cuore della roccaforte araba dall’altro. Filo conduttore resta la luce pervasiva, e quell’aurea limpida e accogliente delle città del sud mentre il Cubo di Buren si situa di fronte alla baia e guarda dritto di fronte a sé all’infinito mare.  

 

Seconda tappa: Granada
















Alhambra, agli apici dell’arte araba medievale..

Torniamo indietro nei secoli dalla metà del 1200 per scoprire lo splendore dei palazzi reali che costituivano la reggia dei sultani a Granada, fulcro del predominio arabo in Spagna al tempo della dinastia Nasride. Varchiamo la Puerta de Granades entrando nel grandioso complesso dell’Alhambra dove a ovest si erge la cittadella militare arroccata sulla collina, una zona fortificata circondata dalle mura esterne dell’Alcazaba. Accanto alla caserma e alla torre della guardia reale, nascosti dalla fortezza si estendono l’insieme dei palazzi che costituivano la dimora della corte araba ( Alcazar) e ancora, la meraviglia della residenza estiva dei sultani (Generalife) circondata da orti e giardini splendenti e rigogliosi simili a un’oasi in mezzo al deserto. Un paradisiaco giardino terrestre si nasconde  qui entro la cinta di mura per obliare l’aridità pervasiva della regione. 

 

Entriamo a Palazzo Nazaries ( uno dei sette palazzi che costituivano la residenza dei Nasridi) e immediatamente siamo attirati nel labirinto di sale, corridoi e patii meravigliosi che s’aprono all’improvviso come corti interne dalle stanze chiuse e ancora i giardini e gli appartamenti reali celati nel vago sentore di “Le mille e una notte”. L’atmosfera è velata, in parte ricondotta al gioco di luci e ombre tra gli interni in penombra intessuti di lievi filigrane e gli esterni che s’aprono all’improvviso in una luminosità pervasiva nelle corti irrorate di fontane ma sempre contornate dai portici immersi in una quiete ombra .  Quasi fossimo riportati a un altro tempo e spazio della storia moresca in Spagna, attraversiamo queste sale semioscure ricoperte di stalattiti e vetrate policrome dove l’arte araba decorativa giunge a sublimare la pesantezza della pietra nella levità di forme eteree, di motivi astratti finissimi di cui le pareti e i soffitti sono ricoperti.

Raggiungendo la Corte dei Mirti ( Patio de los Arrayanes) ci si trova immersi in un patio dominato dalla presenza dell’acqua che nelle dimore arabe era utilizzata per mantenere la frescura e l’ambiente salubre della casa ma, anche, a simboleggiare la vita nel suo costante gorgogliare in piccoli getti mentre nel verde rilucente del bacino rettangolare si riflettono gli eleganti portici della facciata .

Il Patio de Los Leones, capolavoro dell’epoca di Muhammad V incarna la potenza della dinastia Nasridi nella fontana sorretta da dodici leoni di marmo bianco al centro della corte assolata mentre la pianta rettangolare appare circondata da gallerie coperte da stalattiti poggianti su colonnine intarsiate e i capitelli, i soffitti e i muri sono velati da una lieve filigrana di stucchi che celano al di sotto segreti  versi d’amore.

 

Gli splendidi giardini di Generalife, definiti “luogo delle delizie dei Nasridi” con la fioritura dei roseti nell’estate, delle ninfee d’acqua e dei fiori di loto galleggianti permeano di inebrianti profumi e vividi colori i sentieri verdeggianti intorno . Benché mutati nel corso dei secoli dall’aggiunta di alte  siepi di cipressi  conservano ancora i tratti dei giardini arabi antichi: piccoli, ombrosi patii e corti segrete che si aprono di tanto in tanto dai sentieri in mezzo alla calura estiva; piccole fontane e bacini di acqua dai riflessi immobili delle facciate retrostanti. Là, cullati dal costante gorgoglio dell’acqua i sovrani mori si concedevano spazi di riposo, meditazione e contemplazione silenziosa. Dall’alto del colle ammirando nella loro potenza  l’ Alhambra, poi  la vista sulla città conquistata ai loro piedi.

 

Albaicin, a Granada è l’antico quartiere di impronta araba della città con accanto Sacromonte, un tempo residenza dei  gitani all’esterno delle mura cittadine. Si resta  immersi nel bianco luminoso dei muri delle  case basse intonacate in bianco candido. Sui selciati lastricati nel fitto intrico di stradine si annidano nella parte bassa negozietti e bazar stracolmi di oggetti, abiti e souvenir dall’impronta orientale. Poi, risalendo, un sempre maggior senso di sintesi e astrazione si impone nella visione di forme geometriche essenziali dagli edifici alle piazzette triangolari. Infine, sono gli improvvisi passaggi di luce e ombra nei giardini arabi,  dall’aridità delle mura alle oasi di pace dei patii irrorati d’acqua.

 

Terza tappa: Siviglia

 

E’ una città dall’estate torrida dove di giorno si resta al riparo dall’insopportabile calura nelle lunghe sieste pomeridiane e di notte si vive fuori nelle strade, nei bar a tapas mentre turisti e autoctoni riempiono i locali fino a tarda notte al ritmo di flamenco nel quartiere detto Barrio de Santa Cruz. Esplorando le strade sivigliane la sera si avverte immediatamente l’atmosfera rilassata, incantevole e particolare del luogo, nelle sue architetture pittoresche e calde tra cui l’immanente cattedrale gotica come nel labirinto di stradine tortuose o nelle piazze ombreggiate da aranci e alte palme. Il ritmo del flamenco come basso continuo attraversa le viscere della città. L’enigmatico termine “ el duende”  esprime perfettamente l’emozione che si vive assistendo ad un autentico spettacolo di flamenco in Andalusia.

E’ la fugacità irripetibile dell’istante, l’ispirazione che sorge improvvisa nei toreri come negli artisti gitani all’apice del canto o del ballo flamenco. Il giovane danzatore, simile anche nell’abbigliamento a un torero,  si alza accompagnato dal suono della chitarra e entra nella ritmica ineluttabile dei passi scanditi al suolo, in quel battito magnetico dei piedi che incarna sia il legame profondo con la propria terra che la fierezza della cultura gitana .  Nel finale la non più giovane danzatrice _ i lunghi capelli  corvini e sguardo intenso, una rosa bianca intrecciata_ si impone su scena di fronte agli spettatori.  Non è solo la tecnica, la ritmica del battito o il comporsi espressivo delle mani ma soprattutto la capacità di incarnare l’energia, la tristezza e insieme la gioia di  un popolo nomade e in parte osteggiato dalla storia:  “ il dolente sussulto” del popolo gitano.