lunedì 28 gennaio 2013

A proposito di “Un tram chiamato desiderio”, di Tennessee Williams, regia Antonio Latella, (visto a Ravenna, Teatro Alighieri )





Luci accecanti, frastuoni improvvisi,

la scena è pensata come un enorme meccanismo performativo atto a decostruire il testo e la rappresentazione frontale, creare uno spazio- teatro e fare in modo che entro tale spazio energie, ritmi, parole, gesti entrino in circuito, in rapporto generativo l'uno all'altro, violentemente in collisione fino a provocare la ricercata apertura o esplosione, il fare a pezzi la corteccia dissecata, la superficie del dramma borghese e della rappresentazione realista. Qui l'intreccio del testo originale di Tennessee Williams ruota intorno al personaggio  di Blanche Dubois il cui arrivo presso la sorella Stella e il rozzo e violento cognato Stanley ribalta gli equilibri della situazione, vede precipitare in un gioco di forze tensivo, feroce e stringente i rapporti tra i personaggi e  progressivamente scivolare la protagonista nel disordine mentale e nella follia. Il meccanismo scenico nell’interpretazione contemporanea di Latella supera la strettoia della struttura drammaturgica realista, il conflitto  dell'epoca di Williams tra un mondo aristocratico e decadente riflesso da Blanche Dubois e uno proletario e materialista in ascesa come il capitalismo americano nell’immediato dopoguerra figurato da Stanley Kowalsky.  Come “questo tram ” evocato dal titolo il lavoro di Latella conduce direttamente all’ “archi-struttura”, al luogo primo e precedente il testo, al moto di corpi desideranti o alle forze sotterranee che li muovono: eros distruttivo, follia, tacita violenza,  il labirinto dei sensi e  le sue leggi, le sue pulsioni inconsce volutamente indotte e messe in atto dal gioco teatrale partendo da  scintille generate sulla superficie-testo.







Lo spazio è disegnato come un set cinematografico in costruzione, come si fosse nella realizzazione di un film e insieme nella fase di montaggio del medesimo. Scene si aprono come scatole, inquadrature, dialoghi tra i personaggi Blanche e Stella, e Stanley e Stella, Stanley e Blanche dentro la cornice svuotata dei mobili di cui resta lo scheletro visibile nella sua esterna struttura: un letto matrimoniale che funziona come cornice-scena, una vasca da bagno ricoperta di nylon trasparente, un lavandino ugualmente dall'interno svuotato e reso visibile all'esterno. Per terra fili, cavi elettrici a vista disegnano uno strano circuito chiuso al suolo entro cui sono posizionati i mobili, gli oggetti, i riflettori e tutte le altre apparecchiature elettriche di scena. Al suolo segni grafici precisi, indicazioni, frecce, una croce di nastro isolante posta di fronte a una porta fittizia d'appartamento delimitano il fondo della scena , marcano il territorio come si fosse in una mappatura a vista dello spazio con segni grafici di posizionamento utilizzati solitamente in fase di lavorazione .
Spazio aperto dunque senza quinte, teatro a vista ma anche spazio cinematografico simile a un set di lavoro in costruzione dove i mobili, i supporti o le apparecchiature sceniche sono lasciate sul campo impedendoci una totale identificazione con il piano della storia, infine incastonate con amplificatori di suono, microfoni mobili sparsi un po' ovunque, fari e riflettori.

Nelle parole di Latella: “ E’ proprio il sovrabbondante realismo che trovo in Williams che mi fa subito pensare a una dimensione dove il reale è natura morta, dove il realismo per troppa realtà perde concretezza divenendo memoria d'uno stato. Ed è in questa memoria che i personaggi si muovono quasi le cose fossero un labirinto necessario al loro stare nel mondo e ricordarsi ciò che si era”. Immagino un luogo dove le cose vivono d'una luce propria; sono le cose che illuminano i corpi, fantasmi d'una memoria, maestose nel loro esserci state ed esserci anche dopo la morte. Le cose sopravvivono a tutto, ci sopravvivono.”

Un riflettore mobile manovrato in scena dagli attori, puntato come una luce accecante su uno o un altro personaggio, lampadine nude a lato o contro un volto in proscenio , creano condizioni estreme di accecamento o di visibilità paradossale. Tagli luminosi di luci trasversali ritagliano singole figure o dialoghi tra due personaggi per illuminare precisi nodi drammatici. Microfoni sparsi un po' ovunque sulla mappatura del circuito scenico modulano o ingigantiscono singole voci in momenti monologati dove i personaggi appaiono ritrovare una propria voce interna, intima, segreta in contrappunto alla scena dialogata. Tre sono i livelli della parola che si intrecciano in questo senso: il monologare di singole voci solitarie strappate come battute nude, trasparenti a qualche microfono, i dialoghi nel dramma vissuto tra i personaggi, infine un narratore presente a scena aperta, illuminata a giorno dall'inizio che da avvio alla rappresentazione riportando didascalie in realtà corrispondenti alla fine del testo- evidente dichiarazione d'intenti,il testo è re-indirizzato dalla fine, non è la storia in quanto dramma realista che importa ma quello che ne diviene nella psiche del personaggio principale, Blanche, come dissolvenza e oggetto del suo ricordo.

Questo narratore-testimone e regista insieme su scena ( identificandosi solo all’ultimo con il personaggio del dottore), enuncia dall'esterno quello che accade attraverso l'uso straniante di didascalie, interagisce con gli attori, racconta, descrive azioni dilatate nel tempo in rapporto ai ritmi e gesti astratti dei corpi in azione oppure alla loro immobilità, poi si sottrae e guarda, retrocedendo, lui per primo lasciando spazio a quello che accade. Il circuito è così costruito dall’ atto drammaturgico di scomporre, fare a pezzi, decostruire e rimontare un testo su una scena fatta di interferenze, didascalie, interruzioni, arresti, voci singole che emergono di fronte a un microfono, dialoghi o nodi drammatici tra due personaggi, continue rotture tra quello che si fa e si racconta, poi esplosioni improvvise a diveri livelli: sonore, visive o luminose.

Come afferma Latella “L’idea centrale della messa in scena è di immaginare che quanto stia accadendo è una proiezione della memoria della protagonista, illuminare un primo piano della mente di lei mentre implode nel ricordo”. Nella progressione delle tre ore di spettacolo sempre più non è quello che accade veramente nella storia, non è la verità dei fatti, non il dramma realista che interessa, quanto l’universo psichico del personaggio Blanche. Siamo trascinati sempre più dentro questo mondo di finzione instabile, allucinante fatto delle sue identità fittizie, delle sue menzogne, di voci, grida, o rumori, che interferiscono nella sua mente e d’una verità emozionale che emerge malgrado tutto, limpida, trasparente dall’universo frammentario e subcosciente della donna.





Sfaccettature, molteplici volti fittizi si sovrappongono all’attrice su scena nelle tre ore di spettacolo, ugualmente azioni, avvenimenti reali o immaginari sono lasciati alla non totale conoscibilità da parte di chi guarda. Restano tanto ambigui quanto il funzionamento di questa psiche: nella scena finale di seduzione o stupro, quello che appare è questa visione incerta nella mente di chi la produce, la vive, la ricorda dominata dall’irruzione violenta, impersonale del volto anonimo d’un eros primordiale incarnato dalla figura di Stanley, desiderio visto come impulso distruttivo senza volontà, senza limiti- immagine velata lasciata volutamente all’ambiguità tra sopraffazione dell’uno o cedimento dell’altra- prendendo il sopravvento sulle singole soggettività.

Il meccanismo della messa in scena diventa una vera e propria indagine in situ del testo di Tennessee Williams: non c’è verità, non c’è interpretazione univoca possibile per il regista; c’è frammentazione, diffrazione, interferenza visiva e sonora tramite l’uso di voci diverse, monologo, dialogo dell’ uno all’altro, voce esterna, estraniante del narratore . E’ la metafora del fare luce attraverso immagini generate da riflettori mobili, diversi microfoni su un set cinematografico. Parti del testo, nuclei drammatici sono sovra-esposti, frammentati, messi in esubero, in esasperazione, demoltiplicati nei punti di vista, gli attori sovra-esposti ugualmente in una sala illuminata a giorno all’inizio della pièce. Se c’è una verità, malgrado chi la racconta, non conoscibile, non là prima, dall’inizio, non a priori definita dagli attori o dal regista essa riesce a rivelarsi nell’atto, trasversalmente, tra le righe frantumando la storia, decostruendola, mettendola a morte letteralmente come tale, facendola a pezzi volutamente come lo spazio scenico attraverso il meccanismo attivato dalle leve esplosive, sotterranee e desideranti di questi corpi.

Sotto la corteccia del dramma borghese la scena come il testo devono essere fatti corto-circuitare come un sistema pensato, agito e costruito d’una miriade d’oggetti o di voci, di spazi ingombrati di segni, parole e cose, scene del vivere quotidiano portate fuori dalla loro immediata realtà, fatte “derivare” per così dire : “una miriade d’oggetti che si prendono lo spazio”,  troppi, troppo pieno, poi il nulla o il non-detto d’ una verità altra che trapela, si lascia intravedere quale sotto-testo imprescindibile, verità dell’anima o forse solo dei meccanismi subcoscienti che governano il desiderio.


Fare saltare la macchina scenica: farla attraversare da corrente elettrica, forza viva, vibrazione sonora o espulsione luminosa; far sorgere scintille e poi farle esplodere, scaturire come quelle forze sotterranee, motore primo, combustibile unico del testo.
Sono questi punti di interruzione, di rottura, di strappo improvviso su quello che accade in scena: le diffrazioni di voci singole al microfono che interrompono un dialogo in corso, il battito ritmico di gesti agiti contro la narrazione esterna, i rumori improvvisi simili a interferenze disturbanti d’onde radio, o di bande erroneamente captate sul canale-scena in visione; l'intermittenze di suoni stridenti, violente irruzioni di luci puntate contro sugli occhi, l'esplosione di musica rock all’improvviso sulle sagome degli attori elettrizzati su scena e poi lasciandoli li’ immobili nell’atto.



Il testo è fatto deflagrare nell’ ultima parte dello spettacolo al suono della musica rock:
scena apocalittica illuminata da luci elettriche e raggi ultravioletti. Siamo scivolati nello spazio psichico, della mente di Blanche, nel pieno d’una finzione che si tinge di luci elettriche abbaglianti, di riflessi violacei o alluminio-argentei. La visione allucinata della sua mente esplode al ritmo violento dell'hard rock, si riveste di colori metallici, alluminio brillanti, illuminati a vista da riflettori abbaglianti sulle note esplose, sul movimento del corpo nell'effetto estatico d'un rave party. La musica ritmata e potente, i corpi in escandescenza, le luci incandescenti d'acciaio e di neon, appaiono come un corto-circuito elettrico, elettrizzato a vista.

Il desiderio è motore incandescente e sotterraneo della pièce sino ai suoi risvolti di violenza bruta nel finale, di eros animale nel rapporto tra Stella e Stanley, di pulsione incontrollata e infermità psichica nella quale trascinerà il personaggio di Blanche.
Nella scena finale esso è là, iscritto, messo a nudo con violenza, nel suo volto impersonale come questi corpi desideranti in azione in uno spazio trasfigurato, reso circuito elettrico abbagliante dai riflettori e immerso in altre zone d'oscurità.
Una scena deflagrata, esplosa e poi gelificata come questo corpo maschile lasciato gelare in una ghiacciaia dopo lo scontro violento, una giovane donna incinta ventre nudo esposta, immobile sul fondo della scena, un’altra, lei Blanche la protagonista, trascinata da Stanley, allungata al suolo semi-svestita, un busto d’uomo nudo alle sue spalle nel vuoto tensivo che precede la lotta, il cedimento e la follia dell'atto, o nella sospensione immobile del dopo, sotto il segno del grido: eros infernale, accecante come questa luce senza limiti. Fondo blu elettrico irradiante dal proiettore metallico, freddo, raggelante, voci fuori campo; nella sua mente, risa, schiamazzi, stretti al suolo, desiderio e distruzione su un tram chiamato desiderio, ultima fermata inferno. Infine il corpo della donna è sollevato dal regista-testimone e portato via , sollevato tra le sue braccia insieme al suo carico di morte.

Un mondo di oggetti alla deriva, una drammaturgia destrutturata, la verità nuda o l'irruzione violenta di queste forze folli e desideranti dal fondo dei corpi divengono motore d'un meccanismo scenico messo alla prova, portato al suo punto di rottura incendiaria in questa visione contemporanea di “un Tram chiamato desiderio”.










mercoledì 9 gennaio 2013

"The five states of nature", video-installazione di Alessio Ballerini, Galleria Adiacenze, Bologna



"Fugaci manifestazioni del metafisico permeano l'Essere intorno e dentro di noi"




Soundscapes sono ambientazioni acustiche, musiche composte da computer e annessi, chitarre, tastiere o violini, musica elettronica e rumori, per creare atmosfere sonore, dare un'esistenza fisica, sensibile e concreta a stati dell’essere o dell'esistenza,
pensati per dare una sonorità a una determinata realtà emozionale o percettiva, cosciente o subcosciente fino a quel momento rimasta tacita,  inconoscibile perfino prima che si arrivasse ad associarle una tonalità  che implicitamente la rivela, si rivela come giusta, risuonante simile a una vibrazione dell'anima.
I "Soundscapes" nascono da una sincronia del tutto aleatoria, paradossale quasi, scaturita dall'incontro casuale quanto esatto di suoni, rumori, o captazioni di un campo sonoro esistente in natura, poi dall'intromissione di strumenti acustici  in accordo o contrappunto al medesimo.

Le atmosfere sonore, i paesaggi acustici creati da tali commistioni di suoni e rumori ambientali nel lavoro di Alessio Ballerini si appoggiano alla fisicità di immagini video, disegni o fotografie perché il suono, in primo luogo esiste nello spazio e avviene come un avvenimento intensivo, tensivo, tale la concentrazione d'energia in una forma udibile ai sensi. Possiede una fisicità propria che attraversa lo spazio fisico prima di divenire paesaggio interiore, prima d'essere investito d'una vibrazione emozionale precisa,
di trasmettersi come l'atmosfera sensibile d'un luogo, d'uno stato d'essere, d'esistenza. Anzi, nelle istallazioni di Ballerini esso diventa il filo conduttore, l'asse portante d'un paesaggio emotivo che affiora, si lascia percepire e comprendere attraverso la musica spesso in contrappunto o in dissociazione voluta con quello che l'immagine narra.

Cosi', nell'istallazione Human Tree ad “Adiacenze” disegni a macchia o ad acquarello, essenziali tracciati di paesaggi astratti in bianco e nero simili a vibrazioni o onde sonore aprono la via alle immagini video composte in concomitanza alle composizioni musicali.


Il video “I cinque stati di natura” è un viaggio attraverso cinque stati dell'esistenza sensibile come una sorta   di attraversamento fisico e simbolico, un viaggio della metamorfosi del corpo danzante a stretto contatto con le forze prime, primarie della natura in un cosmo permeato dai segni della presenza  dell’invisibile nelle sue proprie forme come in quelle dell’umano. Lo spazio esterno è visto nella purezza incontaminata d'alberi e distese boschive, di superfici liquide e riflettenti coperte di tenue ninfee e corsi d'acqua avvolti d'una lieve patina di gelo. Si alternano dirupi, gole, incavi di rocce profonde aprendosi tra quelle e pareti carsiche graffiate e incise di neri segni a stretto contatto con le braccia,  il torso e  le spalle del corpo che danza; i suoi gesti e segni permeati  di segrete corrispondenze con quelli rinviati dalla natura.
E’ uno spazio primitivo, poetico, non ordinato quello che la figura femminile attraversa nella danza; ricoperto di foreste, immerso tra dirupi e montagne, cadenzato dal fruscio lieve delle acqua in un moto continuo ma distante di cascate, poi in accordo al grande respiro del vento. La sua vibrazione si lascia udire come una nota, continua, aerea e impercettibile quasi tra immersi  tronchi d’alberi, pareti verdi, distese di rocce carsiche sommerse e sfiorate dall’ incedere lento della figura.

 Il corpo femminile danzando opera questa mediazione con la natura, tra l'umano e il divino in senso lato, vive tale assimilazione in senso sciamanico, cosmico  quasi, della natura nella sua parte di infinità all'essere proprio dell'umano. Il viaggio è dunque  percorso nella transizione in alcuni stati  o momenti essenziali dell'esistenza: conoscenza, caduta e  purificazione. Lo spazio è quello  incontaminato della natura,  l'inoltrarsi negli abissi d'una selva o foresta fino alla sua oscurità, fino al non-sapere che è anche quello del nostro proprio inconscio. 
“Self-discovery”   è esplorazione,  scoperta dello spazio esterno del proprio esistere, “la ricerca del senso”, della strada da percorrere, di sé stessi in quanto individualità nello spazio proprio al corpo poi nel suo esterno proiettarsi attraverso l’avvenimento della danza.
“Joy and strenght” sono la forza e la gioia, l’inesausto fervore, giovanile ardore, la vitalità e l’impulso alla vita, alla continuità, al movimento. Segue “la presa di coscienza” della natura umana nel dolore, nella caduta, la cacciata dal paradiso edenico, terrestre, infine la coscienza del dopo, nel ritorno alla fine della traversata.







“Self-discovery”

Corde tese di neri fili intrecciandosi in un reticolo-gabbia d’oscurità; l'incedere lento tra le profondità boschive come attraverso gli strati più profondi della propria mente.
Effetto fluido, grigio e irradiante del paesaggio dai contorni diafani di luce. 
E' l'esplorazione luminosa dello spazio attraverso dettagli di rami, d'alberi, tronchi o parti di selciato, poi  per parti del corpo, torso, mani e braccia nell’atto  di muovere passi, avanzare e infiltrarsi tra i rami, i roghi e i cespugli in gesti lentissimi. 
Nell'incedere incontra le difficoltà del cammino, la durezza della pietra, gli antri scavati o corrosi, le superfici intaccate o incise, l'asperità della roccia in immagini difficilmente riconducibili a un piano di riconoscibilità immediata.
Solarità opaca dai contorni non visibili, ora sull’ erba il corpo è raccolto.

 Dissolve la figura nel tutto nella foresta, in macchie di luce trasfigurate sullo schermo. 
 Irradia come questa nebbia opaca e luminosa che tende a cancellare i contorni dalla foresta, dal cuore in onde eccentriche dileguando dal centro alla periferia dell' ambiente boschivo accompagnata dal soffio lieve del vento,
inesausto del grande respiro, dall'anima del cosmo a quella del corpo.
Attraverso questo cerca la fusione dell'umano con il soffio primordiale del tutto, non imponendo la sua presenza come asserzione di sé, come sua irruzione o sopraffazione nel luogo del naturale ma quasi dissolvendo l'immagine e i confini dell'io nel desiderio di assimilarsi al cosmo attraverso la  sua pelle.

Si trasforma in essa  nei movimenti del suo corpo,  percepisce i ritmi che la popolano, nei minerali, le rocce e i boschi, nelle pietre che la ricoprono, nel rumore delle onde, nel soffio tenue del respiro d'aria, nel frusciare improvviso dei venti, nel ticchettio ritmico, continuo delle piogge, nell'esplodere violento e improvviso degli uragani.
Sullo sfondo d'un bianco e nero assoluti visibili in diverse tonalità di sfocatura intenzionale, in assenza voluta di colore il corpo femminile é visto  come parte del creato, percepibile in una “danza d’appartenenza”[1] dove tutti gli elementi, minerale, umano e a vegetale, particelle semplici e complesse sono poste sullo stesso piano in una sin-cronicità,  la stessa che lega  immagini e suoni.
Ogni cosa è generata e connessa  a uno stesso “principio di natura”[2] e ad essa riconducibile. 



“Research”

Sono radici millenarie, tronchi, segni e tracce, cerchi  concentrici iscritti sui medesimi.
 E' un paesaggio invernale coperto di neve e gelo in ibernazione del fluido, flusso vitale. L’acqua gelata del fiume, una patina di lieve brina nel suo immobile rispecchiarsi.
Nell’ immobilità guardare: il corpo avanza alla ricerca come si muovesse ciecamente. Esita, muove un passo,  osserva, cammina a piedi nudi sul sentiero boschivo coperto di fango e foglie morte.
Radici d'alberi millenari in linee contorte si intrecciano in un labirintico annodarsi ai suoi piedi di rami e fessure con spiragli al loro centro; tronchi tagliati o recisi al suolo bloccano il passaggio sul sentiero. Qui sono abeti imbiancati dalla brina,  in lontananza gelo e immobilità,
il lento avanzare del corpo a piedi nudi lasciando orme pesanti impresse sul selciato gelido al contatto della malgama fangosa e umida al suolo.  


Joy and strenght”

 Sono gesti ampi e luminosi di braccia e viso elevandosi al cielo, gesti ampi di ascesi e  ricongiungimento all’ assoluto, in un movimento estatico del corpo al rallentatore  per un femminile facendosi tramite, in una sorta di mediazione tra l’essere e il cosmo.
Essere portati, travolti dall'apertura del movimento ora in re-immersione e sollevamento    dentro il ritmo del grande respiro.
Dettagli di pelle e schiena a torso nudo si stagliano nella sensualità sinuosa dell'abito nero. Le braccia ampie, leggere, aeree al cielo sono viste in estatica apertura all'infinito, attraverso il movimento contro l'oscurità del volto. La figura simile ad airone in volo, nella gioiosa levità del danzare sente, attraversa in sé lo stato fluido del corpo che danza e stabilisce attraverso questo il contatto con la natura, con il creato.


“Fall”

 Il primo piano è sul viso, nel ripiegamento sul sé  visto per  parti, in dettagli, in inquadratura singola. Occhi grandi aperti osservano le inflessioni lievi dell’apparire immobilità delle cose intorno; guardano, percepiscono, presentono senza poter muovere, muoversi, fare nulla: pulsazioni, battiti impercettibili nell’aria.
Fotogrammi di nero vuoto, totale oscurità sullo schermo.
Acque semi-immobili  sul lago.
Ninfee fluttuanti nel riflesso immobile delle acque restano distese a galleggiare come manto brumoso e argenteo dopo una tempesta.
 Estasi di luce che opacizza e cancella  i tratti; un sibilo in lontananza.
Fili di rami o d'alberi procedono in linee parallele all’infinito sospesi su un cielo grigio-opaco spento.

Stare al suolo come un animale ferito starebbe, nell’agonia lenta e malinconica della perdita,
del  movimento interrotto, d’un ripiegamento introiettivo sul sé, costretti nello spazio esiguo d'un corpo, nella penombra atona della luce fuori, lo sguardo solo attraverso le cose.

 I gesti ampi di braccia al cielo sono l’agonia d'un sè che cerca liberazione, nel grido
 contro i fili tesi d’un reticolo incandescente, linee parallele di nero fumo correndo all’ infinito.
Restano fili elettrici, un reticolo astratto di segni nel grigiore flou della perdita.   







1-cfr Alessio Bllerini, "Human tree", www.adiacenze.it
2-Ibid., Ballerini











[1] Cfr. Alessio Ballerini, « Adiacenze »