martedì 1 dicembre 2015

Ways to freedom II, post-scritto (Improvisazioni poetiche da "GRADI DI LIBERTA' "al Mambo Bologna)



Cinquanta oggetti per cambiare i nostri gradi di libertà



Gli oggetti della nostra casa, quelli che ci portiamo appresso, che riempiono le nostra borsa o tasche, le cose che fanno parte della nostra vita e ci accompagnano o ci rassicurano al quotidiano, divengono punti di riferimento, qualche volta ancore di salvezza, piccoli rituali che ripetiamo ogni giorno in maniera metodica, quasi sacramentale. Le cose e il loro uso, la relazione che stabiliamo ad esse possono regalarci un grado ulteriore di libertà, ma anche di necessità che diviene dipendenza, sembra suggerirci la mostra presentando 50 oggetti immanenti alla nostra esperienza, al nostro essere immersi dentro le cose e nel movimento del vivente.

L’automobile per andare dove vogliamo, internet per creare contatti, connessioni e scambi in rete, per navigare liberamente nello spazio aperto e virtuale del web,
 i giornali che leggiamo, quelli che ci danno l’impressione di conoscere, scegliere, e comprendere i movimenti e le dinamiche del mondo, di controllare e non essere controllati, 
di sapere e non essere manipolati.
Poi le università, le associazioni, le scuole, le mostre, i musei, i teatri, gli oggetti che portiamo appresso, amuleti, anelli, pietre o croci, gli oggetti dei nostri piccoli esorcismi al quotidiano, 
le pantofole che nascondiamo sotto il divano, gli oggetti che ci portiamo in vacanza,
 i fogli, I documenti, le fotocopie, le note scritte su foglietti volanti per non dimenticare.

Gradi di libertà: la scrittura per liberare il nostro pensiero e spazio interiore, gli infradito che portiamo d’estate al mare, 
i tablet che portiamo con noi sempre, le borse che carichiamo di oggetti e libri sulle nostre spalle, addosso come le parole scritte addosso, gli anti-dolorifici, le pillole, i rimedi naturali, gli infusi, le tisane, quelli omeopatici, i rituali contro i nostri stati doloranti d’essere, i saponi che ci detergono, i detersivi con cui ripuliamo i nostri spazi fisici e interiori, i telefoni, i cellulari per tenerci in contatto, gli sms, le foto, i messaggi per ricevere e dare continuità, scambio, presenza .

 La luce elettrica, le lampadine che si accendono nella nostra mente, quelle che ci danno la libertà di leggere, di lavorare o vivere di notte; il copyright, le monete, le unità di valore e di scambio, gli assegni, 
i crediti, i pagamenti a  breve, medio, lungo termine, a mai.

Gradi di libertà: i cereali, i grani, i risi, le farine, la terra, i nutrimenti, i manufatti, l’acqua che beviamo,
gli orologi, le pile elettriche, le luci che si illuminano nell’oscurità, i certificati di laurea, i libri. Le parole, le lingue straniere se ci permettono di comunicare , di incontrare lo sconosciuto, l’estraneo, l'altro, di vedere il mondo un po’ più grande o un po’ più piccolo, i viaggi per cambiare le nostre prospettive o punti di vista e imparare a guardare con altri occhi; 
i passaporti, i voli low-cost, i biglietti d’aereo o di treno, i messaggi, i contatti e le foto digitali che ci scambiamo nell'attraversamento.

Il diritto al voto, la legge quando ci tutela, le note musicali quando ci accompagnano, le lettere scritte o quelle della scrittura, le cifre virtuali di conti bancari inesistenti, le lenti a contatto, la tecnologia, il gioco nell’infanzia e nell’arte.

Colori e pennarelli, una scatola di matite colorate, una tavolozza di tempere e vernici, di pigmenti rari e coloranti artificiali compaiono per  dare forma e sfumature  ai nostri gradi d’essere, di divenire umani, vitali, depositari d'un segno unico, irripetibile, a noi solo. Le scarpe da ginnastica, da sport o di danza, 
i libri in edizione economica, le tazze di caffè e i libri usati, la proprietà privata e la privacy.

L’acqua , gli acquedotti, la circolazione di fluidi nei corpi, di merci sul libero mercato ,  di idee e parole sulle pagine scritte; 
gli orologi per misurare il nostro tempo interiore, i fogli per non dimenticare, le monetine, 
le chiavi, i gessetti colorati,




le penne, i foglietti volanti, 
gli oggetti irrisori che portiamo con noi al quotidiano creano o sanciscono, costituiscono  o limitano la nostra esperienza giorno per giorno. Ci rendono dipendenti e liberi insieme, per gradi o su piani diversi, noi immersi nel flusso del vivente, dentro le cose e nella relazione unica, personale, assoluta ed emotiva che stabiliamo ad esse perché se da un lato riscattano parte del nostro tempo, delle nostre conoscenze e azioni al quotidiano dall'altro intrecciano intimamente in noi reti tensive di necessità, di abitudine o di memoria rischiando di re-imprigionarci dentro la loro medesima determinazione. 


Cao Fei, “ Whose Utopia” , 2006 (Video in 3 parti)










Una fabbrica della Osram per la fabbricazione di lampadine elettriche appare, una delle tante, innumerevoli realtà sorte in China nel processo di delocalizzazione, di produzione industriale a basso costo e a catena d’una multinazionale spostatasi nella sperduta provincia del Guangdong.

La videasta filma in primissimo piano il lavoro in fabbrica, l’automatismo d’una infinito processo a ripetizione, i colori atoni, spenti, quasi ricoperti della stessa patina di acciaio e vetro dell’ambiente, la luce artificiale, alogena delle lampade a led, l’inumano e macchinino sistema di produzione a catena.
Bulloni, meccanismi a ripetizione sono ripresi in primissimo piano dalla telecamera: rulli, ruote e nastri trasportatori atti all’ottimizzazione dei tempi e dei risultati, pedane riempite di merci, tubi in plastica, filamenti d’acciaio, bulbi in vetro.
Fuoco e acqua, sistemi di saldatura e di raffreddamento: mani lavorano incessantemente alla catena, file di mani in un minuzioso lavoro di incastro e cesellatura, oppure guanti usurati di individui divenuti parti del meccanismo a ripetizione. Lampade, luce puntata dagli occhi al tavolo di lavoro, gli sguardi sono ciechi, i volti disumanizzati, assorbiti dal processo di produzione.
Corpi umani di anonimi lavoratori sono visti attraverso le linee di sedie, di postazioni o di macchine in basso sul suolo , in alto alla luce piatta e alogena attraverso gli spogli soffitti. Fasci di neon, bianchi tubi in primo piano, imballaggi Osram, etichette a vista. 
Le lampadine sono pronte per essere inscatolate, impilate e poi sigillate in  pacchi e cartoni in attesa della spedizione. Numeri e file di merci compaiono, poi container, muletti trasportatori e esportazioni in serie tutta la giornata nel quasi silenzio interrotto solo dai rumori ordinari degli imballaggi e dal basso continuo dei motori.

“Factory fairytale”





Musica di pianoforte, lenta e avvolgente. Stesso sfondo industriale, scarpette di danza classica e una ballerina sulle punte in tutu bianco appare danzando tra i meccanismi a ripetizione ora arrestati della fabbrica. Altri corpi emergono, uomini e donne improvvisano gesti lievi, movimenti appena accennati di mani e braccia divenute ora ali di uccelli e linee di aironi ondeggianti in aria. L’abito leggero d’una danzatrice si lascia condurre in una danza lieve e sinuosa tra innumerevoli file di cartoni e imballaggi industriali; un uomo improvvisa un serie di gesti su un fondale divenuto ocra e beige, colorato e vivo come lui ora, non più ricoperto di quella patina d’acciaio e di ferro. Un chitarrista intona alcuni accordi, ali d’angelo sono viste sulla linea della catena di montaggio.
Tanti modi di dirsi attraverso la danza in una possibile ri-affermazione di sé: la libertà del corpo nel movimento , la libertà d’essere là, semplicemente danzando, 
lasciandosi ondeggiare sulle note lente d’una musica di pianoforte.

“My future is not a dream”

Immagini colorate nella fabbrica in un’utopia di presenza, di umanità e di voce.
Autentici esseri umani ri-compaiono: giovani, uomini e donne della Osram sono ripresi nella loro vita quotidiana in un ritorno all’umano, al colore, all’individuale  oltre l’automatismo del sistema.
Filmati nella loro peculiarità appaiono come ritratti di individui singolari: un viso, un’espressione , uno sguardo, la differenza unica di ciascuno. Imbarazzo e timidezza, orgoglio o disagio nel comparire di fronte alla telecamera trapelano nei ritratti, i colori blu, rosso e giallo, jeans e magliette colorate sullo sfondo d’un ironica musichetta jazz. La nudità dell’esporsi di fronte a una telecamera, dell’avere uno sguardo, un volto, dell’essere presenti, semplicemente per mostrarsi in un istante di vita. 
Esserci nella propria umanità, come gruppo, come singolo, sembra dire il video: il futuro è qui e ora, Osram deve poter divenire quel luogo d’insperata utopia.
 







WAYS TO FREEDOM I, "GRADI DI LIBERTA", sulla nostra possibilità d'essere liberi ( visto al Mambo di Bologna, Novembre 2015)











“Gradi di libertà, dove e come nasce la nostra possibilità di essere liberi”, mostra collettiva recentemente esposta al Mambo di Bologna, interroga il concetto di libertà prima che come condizione oggettiva, politica e sociale esterna all'individuo come possibilità del pensiero, lì dove nasce e si manifesta la nostra facoltà d’essere liberi, in primo luogo dentro la mente di ciascuno di noi, lì dove vengono prese le decisioni o gestite le scelte che in qualche modo sanciranno, limiteranno o condizioneranno, attraverso l'esercizio del libero arbitrio, la condizione esistenziale o la consapevolezza individuale di ciascuno a prescindere dallo statuto politico o dalle limitazioni materiali e sociali vigenti. 
Ugualmente, nel percorso espositivo, il concetto di libertà non è visto come paradigma statico appartenente a una realtà storica determinata, a un ordinamento sociale dato, allo statuto di un individuo o al modo di funzionare d’una società quanto, in primo luogo, come processo mentale, qualcosa che avviene e si esplica nella capacità di discernere, analizzare e prendere decisioni: quell’ insieme di scelte che compongono il tessuto stesso della nostra esperienza nel pensiero e nell’azione quotidiana. L'atto d’una mente riflessiva e razionale oppure i momenti fulminei in cui improvvise intuizioni si realizzano e consapevolezze immediate prendono forma, dunque posizionamenti netti, decisioni di un si o di un no, di un andare o fermarsi,  di un aprire o chiudere una porta, del prendere un sentiero o un altro, dello svoltare in una direzione o proseguire. 
Il paradigma dell’essere liberi o dell’affermare una condizione democratica per un popolo appare come un percorso non lineare  visto in una serie di divenire, nel realizzarsi di piani successivi di consapevolezza, di soglie e di attraversamenti che conducono a implicite metamorfosi nel pensiero e al superamento di limiti interni a una realtà o a una soggettività. Tali passi si percorrono nella “tensione verso”, nell’ipotesi o nell’aspirazione di un individuo o un gruppo che lotta per avvicinarsi al proprio divenire umano, libertario e democratico. E’ prima di tutto un movimento e una pratica del pensiero al quotidiano, un divenire consapevole, “libero da” , altro rispetto una serie di condizionamenti identitari, ideologici, o strutturali che si pongono come sbarramenti impliciti all’io e barriere occludenti al nostro vivere sociale. 

Perché la libertà, sembra suggerire la mostra bolognese attraverso i percorsi incrociati d’opere d’arte, installazioni d’oggetti e video documentari nel doppio sguardo di scienza e arte, la si acquisisce per gradi, dialetticamente scrollandosi di dosso lo stato di assoggettamento, di interiore schiavitù, di mancata presa di potere o riscatto, di mancata affermazione della propria coscienza individuale, politica e identitaria. La si acquisisce nel mentre dell’ “essere nel pensiero e non stare ancora pensando”, ogni volta nel ricominciare a pensare, nel porsi dall’inizio quella domanda, nello scontrarsi con quell' interrogativo  posti di fronte un mondo di limiti e di idealità, di scelte individuali, immanenti all'esserci e di barriere o muraglie, fisiche e metaforiche,  materiali o spirituali apparentemente insormontabili che solo un pensiero libero da forzature o condizionamenti può ancora permettersi di affrontare.  Tale esercizio quotidiano al pensiero travalica categorie storiche e gabbie ideologiche per immergersi nel flusso vitale dell’esistenza come movimento del pensare dentro le forze di vita, dentro i corpi e contro le manipolazioni esterne, mediatiche e dei regimi politici vigenti. Condizionamenti a tutti i livelli sono iscritti profondamente nella nostra mente, permeano quasi la struttura molecolare delle nostre cellule, del nostro DNA dalla nascita e nelle memorie cellulari delle generazioni precedenti.  Sono anche gli schemi, le gabbie sociali, gli abiti che ci vengono messi addosso  in seguito a un’educazione, al funzionamento d’una società uniformandoci in ruoli e posizionamenti, simulacri, simulazioni e maschere. Sono infine le conseguenze che subiamo d’uno scenario politico mondiale fatto di violenti conflitti e di forze che agiscono sulle nostre vite indirettamente, qualche volta brutalmente senza che riusciamo a rendercene conto, non potendo ne prevederle ne controllarle . La libertà è prima di tutto uno stato in divenire del pensiero, poi uno statuto d’essere, del dirsi o volersi nel mondo, anche e soprattutto quando essa è messa in discussione, in pericolo o in stato d’allerta, anche e soprattutto contro le manipolazioni politiche, i lavaggi del cervello mediatici, le aggressioni o le irruzioni di forze estremiste e violente, distruttive o incontrollabili. Spazi di libertà in ogni mentre e in ogni dove nel mondo sono quelli aperti dallo sguardo e nel luogo dell’infanzia, del gioco o della creazione che poi diviene movimento dell’arte, dell’azione  e della lotta politica. 

Come afferma una delle canzoni che compongono l’archivio interattivo visibile e udibile d’una raccolta di 100 brani popolari provenienti da diversi contesti nel lavoro di Susan Hiller “ Die Gedanken sind frei”: "Le idee sono libere, chi può prevenirle, esse sorvolano come ombre notturne, nessuno può conoscerle, nessun cacciatore le colpirà. Sopravvivranno. Die gedanken sind frei. Penso quel che mi pare e tutto in silenzio è come capita. Cose che desidero e voglio, esse sopraviveranno. E se qualcuno mi getterà in un’oscura prigione sarà semplicemente fatica sprecata perché i miei pensieri spezzeranno le barriere e abbatteranno i muri. Voglio scrollarmi di dosso per sempre la paura e mai più lamentarmi per le inferiate. In cuor mio posso ridere e scherzare e ripetere ancora:  i pensieri sono liberi”.


Vanessa Beecroft

Schiere di modelle danno vita a performance fotografate come “tableaux vivants” dove i corpi assumono sembianze di statue classiche o di manichini inanimati. In PV26 i corpi femminili vestiti identicamente di sole calze bianche, scarpe con i tacchi alti e biancheria accuratamente scelta appaiono nella loro demoltiplicazione distribuiti sullo spazio performativo come figure inanimate, manichini di corpi perfettamente identici  ma indeterminati, svuotati, macchinici quasi nella loro anonima ripetizione attraverso lo spazio.  Invisibili, trasparenti allo sguardo appaiono volutamente fotografati come simulacri di loro stessi, figure plastiche rivestite da una sorta di patina chirurgica di rifacimento figurale nel loro apparire attraverso l’immagine. Il corpo e il femminile sono là volutamente esposti, interrogati o posti di fronte “all’illusione della loro presunta libertà”: manipolazione voluta dei corpi, nella loro reificazione e riduzione a stereotipi imposti dai modelli impliciti del codice sociale. Lo scatto fotografico inevitabilmente ironizza sulla tendenza delle figure femminili a uniformarsi come oggetti dello sguardo in una serie di metaforici travestimenti, divise o vesti ufficiali, qui parodiate attraverso l’uso delle sole calzature e intimo bianco.

Allo stesso modo in “One year performance” (1980-81) l’artista taiwanese Tehching Hsieh attraverso una serie di azioni auto-imposte nel corso di un anno_ timbrare un cartellino una volta all’ora per 360 giorni e registrare accuratamente la propria azione performativa_ approda a un concetto di libertà paradossale raggiunto attraverso una forma di auto-coercizione. Solo esercitando  quella disciplina assoluta sul proprio corpo e privandosi parzialmente di alcune ore notturne di sonno perviene a portare a termine la propria pratica performativa. Tale azione minimale, insignificante, ripetuta all’ennesima potenza e protratta con ostinazione nel corso di un periodo prestabilito giunge, tuttavia, ad alterare o stravolgere i ritmi normativi di un'esistenza ed è per l’artista scelta consapevole all’interno di quello che lui percepisce come un esiguo spazio di libertà individuale. Diventa il suo  modo di iscrivere e riaffermare tale differenza, o spazio di creazione al quotidiano paradossalmente passando attraverso la coercizione e la disciplina di un’azione auto-imposta.  Il suo modo minimale di re-inventarsi l’arte giorno per giorno elude ciò ch il mondo dell’arte si aspetta che egli faccia. Creare un oggetto e un’azione performativa a partire dall’irrisorio di un’azione ripetuta con noncuranza ogni giorno come automatismo del timbrare un cartellino nella gabbia del lavoro in fabbrica. Minuscola azione, il lasso di tempo di qualche secondo, e già si iscrive la sua scelta di dire no, di affermare sé stesso in quell’esiguo margine di libertà: “Non voglio fare ciò che il mondo dell’arte si aspetta che io faccia, questa è la mia uscita, questa la mia libertà”.

“In ogni istante il nostro cervello sceglie tra una miriade di alternative possibili o virtuali” afferma uno dei brevi video che interpongono un punto di vista scientifico al concetto di libertà illustrato dalle opere artistiche. Tra la miriade di stimoli cui siamo soggetti ad ogni momento sulla corteccia celebrale e tra i lobi pre-frontali del nostro cervello abbiamo la possibilità di visionare simultaneamente  strade diverse nella nostra mente, sospendere giudizi, esitare, valutare vie possibili,  immaginare o rappresentare eventi del futuro, rendere espliciti i nostri pensieri attraverso il linguaggio. Tutto ciò avviene nello spazio esiguo di pochi istanti, nello spazio in cui una decisione viene presa, un’opzione scelta e un’altra scartata, tra una sollecitazione e una risposta all’impulso, tra uno stimolo e una reazione, l’istante che passa anche tra uno sguardo gettato sulla realtà e lo scatto d’un obbiettivo, tra il momento dell’osservare, dell’attesa al reale e il momento decisivo in cui la fotografia viene presa e l’immagine fissata su una pellicola. In quell’istante, sembra dirci il video, esiste e resiste, agisce o reagisce contro l’apparente opposizione della realtà il nostro primo spazio di scelta, di libertà e d’azione individuale.

Ryan McGinley

Giovinezza e trasgressione, bellezza dei giovani corpi come dei paesaggi, sono al centro del lavoro fotografico di  Ryan McGinley e scatti di adolescenti che ostentano nudità, stupore, una irriverente leggerezza nei confronti della vita come di fronte all’obbiettivo fotografico.
Gli sguardi sono spesso intensi, i corpi asciutti, lo stupore e lo straniamento permangono di fronte alla macchina, ma anche la loro voglia di scoprire il mondo e di farlo proprio, di trasgredire e mettersi in gioco. 

“Dakota Hair”, (serie fotografica)




Attraversa lo spazio come attraversa la vita, con il volto e il corpo di un’adolescente nella libertà d’essere, di scegliere, di dirsi attraverso una propria forma.  In mezzo alla savana , nelle distese aride e sterminate di Dakota e Arizona, attraverso i grandi spazi sconfinati della frontiera americana ad ovest. Vediamo paesaggi aridi, desertici perlopiù brulli e rocciosi alle spalle, spazi vuoti e piane polverose bruciate dal sole nella calura estiva mentre una strada in terra battuta si apre proseguendo lontano oltre l’orizzonte. 
L’immagine è mossa, vivente, in divenire come fosse presa su un furgone o su un mezzo di trasporto in movimento. In primo piano il volto della ragazza. 
Nell’atto dell’attraversamento, nel grido di libertà, in piedi sul retro di un camion aperto, il vento in faccia contro il volto, i capelli sciolti svolazzanti.
 Beve una cola ghiacciata, la assapora, gelida e inebriante,  la lascia scorrere attraverso le vene come la propria libertà contro il calore desertico del paesaggio, come quel brivido d’essere, nel mentre del passaggio , sfrecciando su un camion aperto in velocità nel mezzo del deserto,  solo in quell’istante, forse un istante di felicità colto dalla macchina.

L’immagine ora è sott’acqua, attraverso l’oceano-mare. Un altro divenire, liquido, primordiale, originario del corpo ricondotto allo stato dell’immensità fluida, acquatica o danzante del suo fluttuare sottomarino. Nel divenire libertario il corpo si ricongiunge  a quello stato liquido di movimento primigenio. Iscritto nella sua memoria cellulare. Nudità sott’acqua, divenire del corpo un istante tra i flutti, i guizzi e le sirene.  








Igor Grubic,  “366 rituali di liberazione”







“Il rituale è un atto di catarsi, di lotta contro l’apatia sociale e personale persistente” qualcosa che implica la ripetizione di una serie di azioni o variazioni delle medesime, di parole o atti fedelmente eseguiti attraverso un cerimoniale,  fissato e immutabile nel tempo, spesso assumendo la forma quasi religiosa del rito sacro. Trecentosesantasei rituali di liberazione, eseguiti  in punti e luoghi incidenti della città, simbolicamente e storicamente determinati, sanciscono il percorso dell’artista come quello della storia recente del suo paese verso un progressivo affrancamento, nella parziale e ostinata riaffermazione di un diritto alla libertà individuale e d’espressione come del cammino collettivo verso un ideale democratico. Azioni eclatanti o impercettibili sul contesto cittadino mirano a destare, scuotere, risvegliare le coscienze, alterare invisibilmente o visibilmente contestare l’ordine costituito. 
Si presentano come micro-interventi di natura sociale e politica che per il loro aspetto performativo si oppongono all’apatia, alla passività dei molti  nell’usuale scena politica croata . Allo stesso modo agiscono sugli spazi pubblici, appropriandosi attivamente dei medesimi attraverso quello che l’artista definisce: “un esercizio quotidiano alla libertà”.

Nella serie dei rituali fotografati: impronte sui muri, mani sporche di lavoratori sono impresse sulle pareti degli edifici chiusi, inaccessibili o imbiancati del potere, sulle presunte impronte invisibili della politica locale. 
Una maschera clownesca e triste lascia scorrere lacrime ricongiungendosi al compianto per i recenti avvenimenti accorsi nella crisi politica globale.
Azioni contemplative nello spazio della città: con una stella incisa d’oro sulla testa Grubic si pone in meditazione in una chiesa ortodossa, poi in un luogo disertato, di fronte a una piazza ricoperta di pietre a vista; con la schiena volta contro l’obbiettivo siede di fronte a una statua  in postura buddista, poi immobile di fronte a una muraglia urbana.
Attivismo politico e ribellione intellettuale all'indomani dell'occupazione della facoltà di filosofia a Zagabria.  Rossi fili connettono l’esterna scultura in pietra nera d’ardesia, rigida e pesantemente ancorata al suolo all’edificio dell’università e, simbolicamente, al più vasto piano urbano. Una trama di rossi fili_ rosso il colore di giovinezza e energia, ribellione e passione_ è intessuta sopra il corpo apatico dell’architettura, sopra la trama di grigiore e astenia della città, oltre la patina di conformismo che impedisce piena libertà di espressione denunciandone la tacita violenza politica e sociale.

Un nero sole si erge al centro dell’installazione  e della fotografia“Landed sun”, l’eclissi solare evocata dalla nera sfera come l’eclissi d’una società oscurata dalla crisi socio-politica imperante.
 Foglietti rossi riempiti delle poesie di Holderlin, Rimbaud, Pessoa ecc sono gettati dall’alto del “Giant Building” di Zagabria, edificio impresso nella storia e nella memoria dell’epoca socialista. 
Bandiere rosse sono installate, ugualmente, su altri monumenti dell’epoca, mentre uno stendardo nero è fotografato nell’atto d’essere piantato in cima a un mucchio di putridi rifiuti in una discarica abusiva della città denunciando la palese distruzione dell’ambiente urbano.




Tra i suoi “esercizi quotidiani alla libertà” Grubic legge testi di un poeta anarchico croato, citofono alla mano e uniforme addosso identica a quella dell’esercito militare simulando un’azione del regime ma sovvertendone intimamente i termini della questione là dove la poesia  prende il posto dei comandi gridati ; mette fiori di plastica su monumenti del passato regime per commemorare la morte d’un turista gay colpito a morte da skinhead di Zagabria. E, ancora, benda con fazzoletti rossi la bocca di statue per ribadire una volta di più un diritto all’espressione in parte repressa o negata. 
In “Fountain blood red” colora di rosso l’acqua di una fontana alludendo al sangue versato, alle vittime causate dalla politica internazionale di Bush il giorno della sua visita ufficiale in Croazia. Infine, decora con stelle di Natale gli alberi spogli gettati ai margini delle strade dopo le festività natalizie e porta in giro per la città in bicicletta una bandiera croata ricoperta di tessuto rosso, sventolante tra le tante insegne e drappi che servono il potere o gridano libertà dando voce a un’ideologia.




sabato 31 ottobre 2015

TRACCE, INTRECCI E RITRATTI, a proposito di GAEM 2015 (giovani artisti e mosaico al MAR di Ravenna)






La traccia si iscrive, si imprime o si deposita, nella pietra o sulla tela, attraverso i tasselli e le lamine di mosaico, tra le schegge di vetro, i residui di calce o sui graffiti ai muri. Ricopre di smalto  i marmi, il grès e la ceramica, riempie con miriadi di sassolini e pietruzze incastonate l’una all’altra i solchi che l’acciaio lascia scoperti dentro la loro cornice vuota . Striatura intenzionale sulla materia del mondo, la traccia  assume ogni volta nuova forma, dando vita a una propria realtà nel linguaggio, qualsiasi sia la materia in cui viene iscritta. Allo stesso modo un’impressione si deposita, una parola si scrive, la traccia d’un esistenza manifesta il proprio segno vivo nel linguaggio, corpo scritto e scrivente sul mondo. Un filo si intreccia a un altro e trova la propria tessitura, la propria estensione nello spazio, tra l’io e il nostro piano dell'esperienza, tra la misura dell’intelletto e le fluttuazioni della nostra sensibilità. Nella messa in arte che il linguaggio produce l’interno si riversa nell’esterno e viceversa, ugualmente il tempo proprio, interiore assume una concretezza, un’estensione nello spazio; ogni vero istante diviene un punto preciso del firmamento mentre  il corso del tempo, tutto ciò che accade nella continuità dei giorni e delle ore è una linea sfumata, perduta e ritrovata come la trama vaga di un’esistenza- linea puramente spaziale o quella d’una pagina scritta. Può presentarsi come una linea dritta, tendente all’infinito oppure ondeggiare, avvolgersi a spirale, chiudendosi a cerchio perfetto su di sé: sfera che porta in sé la propria perfezione, auto-alimentandosi d’un energia propria in un micro-cosmo a sé.




Nell’allestimento GAEM 2015 al Mar di Ravenna il connubio tra giovani artisti e mosaico contemporaneo ha dato vita a opere d’una grande vitalità creativa dove il processo di sperimentazione sulla materia e sull’uso dei linguaggi è stato spinto ai limiti formali dell’arte contemporanea fino a non distinguersi veramente molto da questa oltre lo stretto dominio della tradizione e della tecnica consolidata dell’arte del mosaico oppure rifacendosi alla medesima per rileggerla alla luce d’una sensibilità del contemporaneo. Le opere appaiono affidarsi più alle pure possibilità della materia, al gioco del contingente o all’intrusione di un estetica dell’intempestivo, dell’attuale intrisa di elementi identitari e soggettivi che non a una intenzionalità a priori data dall'artista. In altri casi, si esplorano semplicemente forme e tecniche non convenzionali delle pratiche artistiche contemporanee; così la pietra si frantumata e i singoli tasselli o i frammenti di diversi materiali ricomposti in linee oblique, irregolari o interrotte divengono tracce che decostruiscono per loro stessa natura l’idea di composizione, di rappresentazione, di mosaico come forma decorativa vista in una costruzione unitaria. Minuscole lamelle colorate,schegge o pietruzze ritagliate, allo stesso modo, possono ricostruire l’apparenza di un panno morbido di nappa colorata evocando la qualità apparente o simulata della lana, del tessuto, della stoffa o del nylon, per caricarsi infine di tonalità sature, artificiali dalle vernici industriali al giallo elettrico o al violaceo magenta. Quasi che l’elemento esterno determinasse con la sua contingenza l’interiorità dell’artista mentre la mediazione della traccia, il mezzo materico inteso essere dall'inizio semplice strumento per raggiungere la vera forma d’espressione, divenga la sola interiorità o verità possibile. Il segno inerte, passivo e vuoto all’origine, allo stesso modo riemerge come un elemento pensante in sé, fulcro vitale dell’opera.




Matylda Tracewska"Aquarium" (di marmo madreperlaceo, vetro trasparente e opaco, colori minerali su malta).

 







In questo acquario guizzano frammenti di corpo, frammenti di sé. Guizzano pesci madreperlacei alla deriva, scintillanti in argentei tasselli, pezzi di sé alla deriva come scaglie dorate di manti di sirene e occhi puntati sul dorso_ guardarsi alle spalle_
Scarpe beige antico, il solo colore in evidenza di vecchi piedi stanchi e gambe gonfie ritagliate dal resto della figura.
Guizzano maschere linguacciute di qualcuno che sberleffa in volto, fluttuazioni di corpi e capelli alla deriva, liberi, mossi o espansi in trame ondeggianti sott’acqua.
Frammenti di corpi, frammenti di sé, ritratti di volti perduti o a metà cancellati e bocche dissimulate dai movimenti delle onde. Il volto di un bambino sfuocato riappare a tratti tra la nebbia di un’incerta memoria; ancora sulla porosità della pietra vediamo scintillanti squame di pesci diamantati e sirene in una danza sott’acqua dove verdi occhi smaglianti vi fissano dal fondo dei loro tratti.

Tra le fluttuazioni immaginate dei corpi alla deriva sono le immersioni senza ritorno a riva oppure i vaghi ri-affioramenti di sé in questo mondo acquatico e lunare fatto di distese grigie e indistinte perdendosi nell’ indeterminato. Punti madreperlacei vi si stagliano, nitidi e irripetibili come i tratti unici di un' immagine sulla linea indistinta del tempo e dall’interno della propria forma-memoria.
Dentro una bolla di sapone, sott’acqua, creature marine fluttuano a tratti in un acquario immaginario di volti riapparsi sulla porosità greve della pietra.




Sara Vasini, “Una stanza tutta per sé”





Una stanza di parole ha inizio da una filigrana di rosso inchiostro lievemente intessuta di segni, espansi e in continuità l’uno all’altro sulla carta, sgocciolanti ancora della traccia a vivo deposta dal loro tratto inciso. Ora si presentano arzigogolanti e intessuti, marcati a coagulo di inchiostro in qualche punto, ora espansi come trama di parole sulla superficie piana e bianca della parete. Divengono fogli attaccati l’uno dopo l’altro in un mosaico di pagine scritte, per una stanza che si costituisce da sé, foglio dopo foglio, appeso, appuntato alle pareti fino a riempire o ricoprirne completamente la loro immensità vuota. 
Metaforica stanza della scrittura, lì dove essa comincia delinearsi, dal corpo in primo luogo, dal segno tracciato d’una mano su una pagina bianca, lì dove comincia a imporsi, a essere ovunque, immensa e sconfinata, spoglia e viva, semplice e terribile insieme nell’atto primo della sua genesi.
Vuota immensità di fronte agli occhi nell’ implicito enigma del suo attraversamento.

Un mosaico virtuale si ricompone di mille possibili percorsi, di sentieri incrociati da seguire come foglietti di inchiostro rosso volanti, incollati insieme a caso sul fondo d’una parete beige lucida e riflettente fino a dare il senso d’una storia, d’un testo scritto o da raccontare, differentemente secondo come lo si legga, in quale direzione si scorrano le frasi, da quale lato le cartelle. Abbozzi di materia procedono per aggiunte e ricomposizioni casuali come passi su un sentiero che può perdersi in mezzo a un bosco di parole, nel nulla della pagina bianca oppure divenire significante d’un tratto per l’improvvisa alchimia del fare poetico nella foresta del linguaggio.

Raffaella Ceccarossi “ Innocent, ma tutto ciò che sei lentamente svanirà”




Si “naufraga” nella stanza del ricordo dopo aver attraversato quella della scrittura  nell’opera  "Innocent, ma tutto ciò che sei lentamente svanirà”. Là lo stato di innocenza è simulato o ritrovato, ricostruito o ricomposto in tasselli di mosaico partendo da una foto d’infanzia. 
Nella ricostruzione del volto le tessere appaiono perdersi nella disgregazione della figura sul retro della tela. Il ritratto tende a svanire sul fondo, a perdersi o disperdersi nella nebulosa indistinta della memoria oltre la sapiente ricostruzione del volto in primo piano. Il riaffioramento è incerto, fugace e effimero come la sensazione generata da un istante di memoria involontaria richiamata in vita da un’evenienza del presente, in questo caso dal riapparire d’una foto del passato. L’immagine emerge dal fondo, a fatica, riappare come questo stato di innocenza richiamato in vita dal volto della bambina in un’irradiazione improvvisa sgorgante di luce dal centro del ritratto. Un fulcro di luminosità intensa e improvvisa emana dal centro del petto nella zona del cuore prima che da quella degli occhi o del volto soggetto già al processo di scomposizione in atto nel resto del ritratto. Sul viso uno strano stato di stupore, la ri-emergenza fluida e alonata d’una luminosità compare come un istante di memoria percettiva, involontaria, un istante di sensazione ritrovata che si ri-presenta, viene a noi viva e materializza nel ritratto partendo dal centro della figura mentre il resto tende a scomparire in secondo piano. Lentamente disintegra nel lavorio della tessera, lasciandosi inghiottire come soggetta alla corrosione del tempo, alla disgregazione asincronica della singola particella. Come sfuggisse ai nostri occhi il ritratto appare lentamente  dileguare, gradualmente procedere verso un fondale reso sempre più etero e sfumato,   correre irreversibilmente verso la propria matrice o fondo immateriale. Lì, al contrario, al centro del ritratto, il volto rivive intensamente un istante: l’immagine nasce e muore nell’istante di quell’innocenza perduta e ritrovata.

Andrea Sala, “Luna”


Un tessuto argenteo e irradiante espanso da un centro crea un suolo lunare ricostruito in mosaico con schegge di pietra e vetro, trasparenti, incastonate l’una all’altra nel riverbero dell’acciaio.  Una forma circolare, quasi messianica appare evocando, pura e assoluta  nel suo darsi, quelle geometrie misteriose ridisegnate dalle correnti o dalle forze naturali dell’universo; grandi vortici si iscrivono in moto sferico sui campi di grano come sulle distese immense e sconfinate delle pianure spazzate dal vento dopo che i campi sono stati mietuti e i raccolti sottratti alla terra. Iscrivono in sé stesse forze sopranaturali, vortici di energia divina, spostamenti infinitesimali della mano di Dio sulla superficie terrestre. La forma circolare espansa su una pietra dura, granitica e incisa nella roccia d’ardesia chiude in sé il cerchio d’ordine cosmico, divino, tale che è ripreso in questo perfetto micro-cosmo a mosaico.




Marco de Santi, "Ultra-contemporary bodies"


Chi sono e come si re-inventano questi “corpi ultra-contemporanei” cui si ispira l’opera di Marco de Santi, corpi del post per antonomasia, post-industriale, post-moderno, post-virtuale, post-concettuale della figura? Tali corpi virtualizzati sono ricondotti semplicemente a una serie di segni ottici e visivi, segnali elettronici riconnettendosi a tratti  come puri indici astratti  distribuiti in una geometria rigorosa di linee e forme che incrociano a scacchiera,  a intermittenza, in connessione libera su un pannello di controllo cosmico ritagliato dal riquadro universo. I loro indici si illuminano come la materia grigia si illumina a tratti in fulminee messe in circuito di idee, immagini, rapide quanto fugaci connessioni neuronali di pensiero o accostamenti di flussi transitori di percezioni al limite del cosciente, infine in immagini e sensazioni di istanti di memoria involontaria. Pannello di controllo assolutamente astratto, sprovvisto di qualsivoglia forza superiore e divina unificante in controllo, il piano è dato, al contrario, da un’ascissa e un’ordina di elementi in composizione libera, in variazione calcolata nello spazio, simile a un pannello cosmico fatto di spie, bottoni, scintille e piccoli punti luccicanti d’acciaio, croci, sfere, teste o prismi in una sorta di reticolo ottico visto in visione prospettica. Un reticolo di corpi-segni astratti e indici elettronici a intermittenza disegna  un ordine cosmico simulato, ricondotto a punti e segni essenziali nello spazio.      


"Absence", Carla Passarelli

Colonne di fumo salgono verso l’alto, un palazzo reticolare in mosaico, un grattacielo, un edificio si eleva a vista attraverso lo spazio. Parte dei tasselli del reticolo spariscono d’un tratto e i grandi riquadri sulla presunta facciata dell’edificio mosaicato restano vuoti. Ampi spazi bianchi si aprono in mezzo a loro come grandi interstizi che prendono piede tra una tessera e l’altra e ridisegnano l’opera in tangibili  impronte vuote di materia, di non-presenza. Grandi riquadri svuotati appaiono nel processo di sottrazione in corso. Assenza di materia, d’idee, di tratti quasi riaffermando una non-presenza del soggetto, dell’opera reale o simulata di mosaico, della tangibile materia di marmo. Essere là con questa assenza in sé a tratti, in tale inevitabile vuoto d’assenza assunto come statuto o  modo d’essere, di dirsi nel mondo.

Mohamed Banawy, "Aerials 5"

Antenne satellitari, sistemi digitali si spingono in alto, proiettandosi senza fili oltre il limite del quadro in trompe-l’oeil a vivo sulla ceramica dal fondo rosso magenta, contro il blu oltremare alternato al grigio asfalto della base. Si spingono come captatori di presenza verso l’alto oltre le linee basse e squadrate del blu e del grigio, oltre i riquadri sordidi e cementificati di presunti edifici evocando profili di città medio-orientali. Riportano alla memoria immagini di paesaggi urbani calcificati e di costruzioni semi-distrutte o non-finite. Contro quelli le antenne paraboliche in un inedito skyline medio-orientale si stagliano verso l’alto sopra mari di cemento grezzo e sulla proliferazione disordinata di blocchi e di colonne squadrate, non-finite, contro il sudiciume di strade dove l’asfalto si imbratta di rifiuti e polvere. 
Torri di captazione in primo piano in “Aerial 5” si ergono, in ceramica mosaicata, su un fondale rosso magenta costellato di punti luccicanti e luminosi, argentei e aerei come intercettatori a vivo di presenze nello spazio. Divengono captatori di energie sottili, di idee o di aerei passaggi di testimoni attraverso i corpi, di trasmissioni e influenze dissimulate attraverso l’etere, di fluidi, o forze d’attrazione e repulsione attraverso lo spazio , captatori, anche di influenze o intrusioni multiple tra gli individui oppure intercettando linee di sensibilità comune, idee o cammini similari,  a tratti condivisi. Oltre il visibile. Oltre la cementificazione del grigio, oltre la linea bassa e appiattente d’un orizzonte finito il rosso satellitare si impone scintillante in punti di contatto argentei come nuclei rifrangenti: fulcri generatori di pensiero e sensibilità condivisa.  


Ritratti
     


Il celeberrimo mosaico di Galla Placidia_ colombe che s’abbeverano a una fonte d’acqua cristallina_ viene rivisitato da Andrea Besana nella voluta disgregazione del medesimo visto sbriciolarsi al suolo insieme a parte del suo supporto mentre le polveri e la calce appaiono depositati in un mucchietto contro la parete rossiccia rischiarata di luce sul fondo. Il messaggio politico in primo piano, denuncia ironicamente come titola l’opera, “No money troo”, l’assenza di risorse distribuite dall’amministrazione pubblica per la conservazione del patrimonio d’arte italiano. In controluce, d’altro lato, una revisione post-moderna della rappresentazione appare, un modo di figurare decostruendo, rileggendo l’evoluzione estetica dell’arte contemporanea partendo dal suo risvolto interno, dal rovescio dell’opera presa nel suo margine di non-figurazione, di implicito non-ritorno o ironica citazione rispetto all’illustre referente del passato. Se il mosaico originario è scomparso in frantumi di calce e polvere al suolo quello che resta è il palinsesto, l’impronta de-figurata di un originale che non è più, la rivisitazione ironica dell’opera in sbriciolamento voluto, infine un dialogo tra il visibile e il non visibile, tra quello che il mosaico è per sua tradizione  e il suo atto di differimento, di  traccia che ancora e ancora si iscrive, altra, di rinvio ad altro posizionamento nello spazio, ad altra forma nel tempo.


Allo stesso modo, i “ritratti” di Agnese Scultz  in smalti e mosaico appaiono nella loro ripetizione  esasperata come una serie tracce in variazione, atti di differimento e appropriazione dei tratti partendo dallo stesso volto, di sdoppiamento e coloritura su grigio a seconda dell’atmosfera dominante in ogni versione. Procedono per doppi, come qualcuno che guardandosi allo specchio si proiettasse ogni volta differentemente in una nuova rivelazione di sé, alla luce o alle tenebre del proprio esserci, ora intaccato da aloni, macchie oscuranti sul volto fino ad appesantirlo e rimuoverne i tratti, marcatamente inciderli o defigurarli, ora alonato di smalti verdi e ocra,  rischiarato in precise zone del volto conferendogli una diversa intensità, una marcatura d’intenzione, d’espressione. Sempre, in ogni caso, è la tessera piuttosto che la composizione su supporto a dominare, l’interstizio aperto dal singolo tassello piuttosto che l’unità della figura nel ritratto tradizionale. 
In Clement Miteran, ugualmente, le “contingences” portano il ritratto della figura mosaicata a scomporsi, a infrangersi in pezzi e ricomporsi in nuova forma non perfettamente ricostruita dove le rifiniture in oro sono frammiste alle fessure aperte sulla superficie. Vediamo apporti o intrusioni d’altri materiali, pezzi di corteccia, tessere d’oro intersecate alla superficie malamente ricomposta del volto poi, iati, interstizi, spazi vuoti lasciati volutamente aperti  in una forma ibrida, post-moderna, la sola attuabile qui come ritratto in questa “ricomposizione per assurdo” della figura.

"ESTRUSIONI, ENTANGLEMENT"




Queste opere dalle tecniche più svariate e eterogenee, dai materiali in sperimentazione libera e non convenzionale possiamo anche leggerle come una serie di tracce scritte che ispirandosi al mosaico si rifanno solo metaforicamente alla sua estetica partendo dalla tessera come particella minimale, unità minima che compone e decostruisce la tessitura d’insieme dell’opera. Una serie di tracce scritte sul marmo o la pietra, sul legno, lo smalto, la resina o attraverso i pixel dell’immagine digitale circuiscono nei suoi limiti la tradizione musiva, ne mostrano le possibilità differendo il concetto stesso di tessera in un idiosincratico uso della medesima: tassello come pixel di immagine elettronica, come lettera a inchiostro rosso scritta su carta, come vernice, smalto o resina industriale su ceramica, oppure calce e detriti di cemento al suolo. Tali opere del contemporaneo mettono in tensione l’estetica del mosaico e la sua tecnica, la forzano, la allungano, la tendono come il tessuto elastico composto da fibre ottiche messe in movimento fino a generare nuove forme nel  video conclusivo della mostra. “Entanglement  ” mobilita il concetto di tessera che da particella minima vista nella staticità di un materiale solido come la pietra, l’oro, il piombo o il vetro intagliato diviene tessuto ottico soggetto a una serie di mutazioni infinite come dentro una danza d’acqua. Il suo ordito di fibre visto nella rifrazione elettrica di un blu oltremare si allunga, si deforma o tramuta visibilmente nella mobilità di linee divenendo altre e altre ancora. Già nell’opera di Barbara Crevatin  ad essa adiacente“Optical #1 Estrusioni” assistevamo a una messa in movimento puramente ottica dei quadrati statici in marmo decorati in smalti su ceramica  dove l’effetto e la luminosità del mosaico produceva rifrazione e interno eco ai riquadri moltiplicandone la potenza cromatica del bianco, del grigio, del beige e del nero. 
In una virtuale messa in movimento del quadro precedente “Entanglement”(Dora Bartolomei) è intreccio: tessuto ottico in metamorfosi video, intreccio di cellule, la doppia catena a spirale di un qualche DNA fotografato, nastro di Mobius a un solo lato e bordo ininterrotto o, ancora fascio muscolare. 
E' un corpo muovendosi in una simulazione di movimento, è l’idea della danza organicamente pensata come continuità e flusso, è la visione di un corpo elastico in espansione e restringimento.
 E sono ancora fiamme mosse dal vento, reticolo blu di fili intrecciati alla sua corrente, blu elettrico, nero incendio, tessuti aerei, fili reticolari, intrecci di vite.