martedì 30 aprile 2013

Riflessioni su alcuni aspetti del lavoro coreografico di Roberto Zappalà a partire dai suoi testi "Corpo Devoto", "Corpo Etico"


(sui meccanismi d’elaborazione creativa dalla fase di ricerca a quella di lavoro finito)










Devozione: consacrarsi a qualcuno, a qualcosa, a un’ideale, un santo, a Dio, a una causa, un’entità astratta o concreta, un uomo o una donna, dare la propria vita per il proprio oggetto di devozione, essere in questa postura d’abnegazione totale e, allo stesso tempo, di trascendenza e distacco quasi religioso dal sentimento vissuto come nell’esperienza estatica o del sacro.


Il processo di ricerca, frammentazione e costruzione attraverso la quale il lavoro coreografico prende corpo giorno dopo giorno in fase di creazione d’uno spettacolo conduce Roberto Zappalà a parlare nelle sue note di “un percorso di devozione al corpo”:volonta' inesausta di confrontarsi ad esso, di costruire un movimento, un linguaggio coreografico a partire dal suo sentire, oggetto al quale consacrarsi, energia e vita, passione e riflessione, spinta etica e vocazione poetica insieme, terreno di prova, di sfida, di ricerca, di sperimentazione sul campo, in gioco con la propria carne e sangue,   egli si pone in questo rapporto sacrificale e insieme sacrale verso un corpo quale principale oggetto di ricerca, strumento di riflessione tra sé e il mondo, infine matrice e materia prima di elaborazione di un’idea alla base d’un progetto coreografico.

Allo stesso modo in cui il corpo è “oggetto di devozione” in senso coreografico per Zappalà, esso si vuole o deve farsi lui stesso “devoto”: devoto al pubblico, devoto a uno sguardo al quale incessantemente s’offre, fino in fondo si dona, in questo gesto sacrificale d’auto-immolazione quasi che è il suo arrendersi alla nudità, all’esposizione assoluta e senza riserve di sé. Lui, devoto alla grazia, alla bellezza come alla crudeltà, o alla distorsione della propria apparente figura, composta forma o estetica postura. Devoto alla levità, alla leggerezza come alla fatica, allo sforzo che sopporta ogni giorno, al fardello del proprio interno peso, alle rinunce, agli eccessi o alle mancanze cui è soggetto ma anche alle emozioni, agli stati che trasmette attraverso la sua pelle, a quello che passa attraverso i suoi fluidi energetici, i suoi stati fisici, cinetici o emozionali. Lui si fa strumento di comunicazione con sé stesso, con l’Invisibile, con l’assenza o il vuoto che lo percuote, con la terra, il suolo o l’assoluto che non sa di ricercare, di possedere in sé, con il muro o la barriera, il limite che lo isola o lo separa dall’altro, dalla sua vera entità o dal suo pubblico.

E’devoto al suolo prostrandosi, inginocchiandosi, cadendo verso la terra, cercando rifugio, riposo, riparo, chiedendo grazia, sprofondando al suolo in un movimento verso le radici, ricercando la profondità d’un ritorno all’idea di matrice, sconosciuta origine genealogicamente presente in lui.
Devoto è anche sollevandosi verso l’alto, nel moto opposto dell’elevazione, dello slancio o della sospensione in equilibrio partendo da quel medesimo radicamento. La devozione fa del corpo uno strumento, un mezzo per comunicare o meglio espellere i propri intimi stati di vita, implicitamente agenti come leve, motori, pulsioni o forze innate, e tradurre quella fisicità che pensa in lui attraversoil movimento e le sue dinamiche.





Corpo del naufragio/corpo naufragato (Il tema ha ispirato un progetto coreografico sviluppato in tre fasi ricomprese nel filone Remapping Sicily : ridisegnare uno spazio, ri-scriverela mappa d’un territorio e i suoi confini, differentemente o meglio ri-riterritorializzare partendo da un punto di vista minoritario sul luogo attraverso i suoi rituali, le sue tradizioni, le sue credenze i suoi silenzi e i suoi pregiudizi , i suoi non-detti o risvolti violenti riletti come materiale scenico).   Diviene metafora d’uno stato di interno naufragio, immagine d’un corpo disgregato, sbattuto come Odisseo da una riva all’altra, scosso dai venti d’un tempesta nella sua eterna peregrinazione attraverso il Mediterraneo, preso a colpi dalle correnti, trasportato, spazzato via violentemente approdando su territori sconosciuti, lui straniero, a sé stesso divenuto estraneo, irriconoscibile a chi lo riceve.
“Corpi che naufragano e rendono visibile il naufragio di chi li indossa” (Zappalà)
Possono essere corpi naufraghi tra le pareti domestiche inghiottiti come attraverso un buco nero al suolo, risucchiati dalla loro stessa deriva interiore oppure reali corpi della peregrinazione, dell’emigrazione, della dislocazione, di chi approda clandestinamente sulle coste d’un paese, o di un’isola nella speranza d’un illusoria salvezza, di chi è percepito come straniero, altro, non-riconoscibile, potenzialmente pericoloso perché non-identificabile da effettivi documenti, dunque nella sua non-esistenza o non-riconoscibilità giuridica. Diventa metafora del corpo fuori dalla norma sociale, fuori dalle sue convenzioni comportamentali e comunicative, dunque a stretto contatto con quello che Zappalà definisce un corpo-strumento, scavato dalla sofferenza della sua non-esistenza.






Instrument2 “La sofferenza del corpo” esplora la nozione di corpo in quanto esistenza incarnata, incisa o comunque contaminata dall’esperito, subito o attraversato,qui facendosi strumento segnico nel suo divenire-traccia, fonte inesauribile di trasmissione o trasmutazione estetica di quella stessa materia. E’ visto nella disarticolazione d’un corpo dilaniato come quello della santa protettrice della città alla quale la performance si ispira, corpo martire e mistico insieme,di sangue irradiato, oggetto di culto, di preghiera e di supplica nella processione collettiva, invocato e custodito nel fervore, nell’eccitazione o nel fanatismo del rito religioso.

Nella sua ricerca coreografica cruciale diventa l’attenzione data a corpi per le forze cui sono soggetti, per quello che violentemente o dolorosamente agisce in loro, per come si alimentano di tali stati spesso intimamente scavati, abitati fin nelle cellule, nella matrice del loro essere, come questa trama si imprime sui medesimi e li metaforizza. Corpi mutilati, violati, offesi, depressi, repressi, disarticolati o frammentati; il lavoro coreografico “crudo e crudele ma sempre onesto e naturale” consiste a trasportare tali stati in immagini e suggestioni fino a farli divenire composizione coreografica. Renderli poesia e metafora attraverso la danza, trasmutarli e trasformarli, costantemente elaborare attraverso un lavoro “duro e crudele” istintivo se vogliamo, di estromissione senza pudore ma tuttavia funzionale alla creazione, dettato dalle sue interne dinamiche di costruzione scenica.





Pudore

“ Non credo che il corpo possa essere onesto fino in fondo senza che il pudore venga espulso, (estromesso) proiettato al di fuori del nostro sistema corporeo. (..) In tutti i nostri laboratori la pudicizia, la compostezza, la misura devono essere sostituiti dalla spudoratezza, l’amoralità del corpo”. Immaginando di andare sempre oltre nella ricerca, oltre quelle barriere di pudore, quei limiti dettati dalla norma o normalizzazione sociale dell’educazione, delle convenzioni che segnerebbero qui delle zone di non-credibilità, di non plausibilità d’un corpo su scena in uno spazio non totalmente riempito dal suo esterno proiettarsi nel movimento. Esso, in questo senso, è pensato sempre più fuori dal linguaggio “danza”, come un moto continuo che si invia e si riceve, va e viene, parte e ritorna, in una scioltezza, una facilità apparente del suo darsi, apparentemente disinvolto, al limite “non-curante”, senza pretensioni e tuttavia riempito d’una sostanza, d’un fondo vivente oltre la sua semplice forma.

La forza della danza parte da qualcosa di molto fisico, si è nella carnalità più pura dell’essere, lui, il danzatore, un essere essenzialmente corporeo, totalmente devoto al movimento là dove l’espressione, il senso, il pensiero passano direttamente dentro i muscoli, le vertebre, le ossa, lasciati al continuo dell’energia messa in circolazione attraverso il movimento nello spazio.
Immaginare di andare sempre oltre nell’in-pudore inteso come verità dell’esserci implica per il danzatore di riconoscere quella parte di sé o del movimento che inevitabilmente emerge per sua natura incompiuto, impuro o spurio scaturito in stretto contatto con il suo fondo come massa informe o non-finita.





Onestà

“Che un corpo si conformi a una pura forma estetica resta di secondaria importanza” per Zappalà; sottratto a questa pretesa deve invece restaurare “ la sua istintiva natura”, aderire al proprio intimo stato, riguadagnare una vera e indiscussa carnalità dell’ esserci. Può esistere solo in questa “onestà” superando le barriere del pudore per essere completamente nell’atto, nel momento, anche a volte nell’eccesso, nell’esubero, nel consumo o nella spesa senza ritorno del suo potenziale energetico. In questo modo, solo, potrà riappropriarsi della sua vera esistenza, della sua natura fatta di carne e sangue, sudore e sofferenza, animalità e spiritualità, sentito e vissuto, cosciente e inconscio, dei suoi eccessi come delle sue mancanze. Solo in questo modo riconquista la propria unità fisica e spirituale uscendo dalla semplice forma come involucro, guscio o scheletro svuotato di senso per divenire corpo abitato attraverso la danza e il movimento. Se esiste una drammaturgia, in questo senso, per il coreografo siciliano essa deve nascere dal corpo in tutti i suoi stati di motion/emotion , essere intrinsecamente connessa al movimento e non imposta dall’esterno come forma o idea drammaturgica pre-esistente.








Centro-periferia

Conoscere è avere consapevolezza, divenire coscienti di qualcosa attraverso la sua percezione e poi il suo passaggio alla coscienza. Per esempio, occhi bendati nell’oscurità sviluppare consapevolezza dello spazio, dell’ambiente circostante, del nostro esserci nello spazio sensibilmente ritrovando punti d’ancoraggio, di riferimento, di misurazione del medesimo nell’oscurità, oppure, al contrario, esplorando questo stato di disorientamento, di smarrimento, di perdita delle coordinate spazio temporali. Ripetere una stessa esperienza nel tempo sviluppa diversi livelli di comprensione della medesima, gradi diversi di ascolto, di decifrazione esecuzione d’un semplice compito affidatoci.

Di solito, afferma Zappalà, si allena un corpo attraverso una serie di esercizi ripetuti per imparare a recepirne il funzionamento , riconoscerequali sono le parti indotte in un movimento, le dinamiche che lo muovono, i suoi punti d’appoggio, le sue leve, i suoi centri d’equilibrio, le leggi della sua stabilità. Alleniamo la coscienza, ricerchiamo questo controllo faticoso sul corpo eppure vogliamo, ugualmente, lasciarci sorprendere dall’inatteso dell’avvenimento, del gesto, lasciare questa porta aperta all’imprevisto, attenderci all’incidente, allo sbaglio voluto, all’occorrenza che rompe il funzionamento d’un corpo educato, impostato sulla norma, ricondotto al controllo della propria interna formattazione.

Il centro si lega alla periferia attraverso una distribuzione energetica fluida, diffusa passando per i differenti canali; possiamo individuare diversi centri energetici, afferma Zappalà, il ventre, lo sterno, le ginocchia, i gomiti, la testa, isolarne ognuno separatamente e prenderlo come punto di partenza, come motore al nostro movimento per poi individuare diversi circuiti cinetici attraverso l’organismo. L’energia parte da un centro e fluisce fino alle estremità di dita, mani, piedi, punta dei capelli, punta del naso; le estremità divengono importanti quanto il centro se il movimento è continuo, fluido, illimitato, pensato come “senza fine”, espandendosi o rimpicciolendosi secondo necessità, minuscolo, impercettibile a tratti, esploso, portato fuori, espulso violentemente altre volte. Sempre il suo fluido deve essere mantenuto in circolazione, e, a un secondo grado, coinvolge la nozione di spazio, la consapevolezza del medesimo per il corpo nella sua proiezione attraverso il movimento.

Ugualmente altre polarità emergono nel lavoro di laboratorio che potranno essere oltrepassate scivolando da un estremo all’altro attraverso delle esercitazioni per esempio
scivolare/sollevare, contrarre /distendere, rilassato/in tensione, elevazione/caduta, abbandonare/sostenere,stabilità/sospensione.


Caduta

I corpi e le loro parti si muovono a una velocità proporzionale al loro peso in un movimento naturale che asseconda la legge di gravità e li fa precipitare verso il basso, li fa cadere, ritornare al suolo, ritrovarsi in qualche modo a contatto con il medesimo in una posizione fetale o raccolta, distesa o allungata. Di qui, la ricerca di questa condizione di caduta fluida e naturale dell’andare verso il suolo, dell’assecondare la legge di gravità in un moto che non e mai brutale, violento e improvviso come una rottura, mai un lasciarsi cadere pesantemente insieme al proprio fardello ma, invece, un assecondare attraverso dei contrappesi una legge naturale di gravità, in questa discesa o scivolata verso un suolo organicamente percepito, ritrovato quicome un appoggio, magari una leva per prendere nuovo slancio, ripartire e proiettarsi nuovamente verso l’alto.
La legge di imprevedibilità agisce allora contro la solidità affermata del corpo in piedi nell’evenienza del suo imprevedibile precipitare, scivolare, lasciarsi portare o attrarre dal suolo.



Respiro/voce

Esiste un preciso percorso del respiro nel corpo rintracciabile attraverso gli organi e le fasi che lo compongono, partendo da un punto e ritornano al medesimo attraverso un circuito naturale che si instaura. Dunque il respiro, afferma Zappalà, come “strumento sonoro vocalizzato” si fa portatore d’una ritmica ineluttabile che può sostituirsi o venire prima di quella propriamente musicale. La voce, ugualmente, può essere utilizzata nel lavoro sulla danza per intercettare delle ritmiche innate al corpo e, dunque, sintonizzarsi con quelle per trovare un movimento naturale.
Per Zappalà può divenire “ strumento di assimilazione del ritmo che dalla voce viene trasmesso al corpo e quindi al movimento”. E’ forse il mezzo più semplice ed essenziale che ci fa capire come il ritmo venga dall’interno, simile a un tempo musicale, a un battito ritmico innato che possiamo ritrovare o scoprire istintivamente in noi sollecitando ritmi esistenti in natura, dunque non imposto o puramente dettato dall’esterno.
Tale processo mette il corpo del danzatore ancora una volta in contatto con quell’ onestà d’espressione che deve esigere da sé stesso, nonché con una migliore consapevolezza della propria ritmica interiore. La voce induce una partitura ritmica di movimento che si manifesta in segni, tracce, un percorso nello spazio coinvolgendo in questa dinamica d’elementi condivisi una terza dimensione dell’esserci, la propria proiezione- espansi, presenti, fluidi- attraverso lo spazio.






domenica 14 aprile 2013

"Antonioni e le arti", estratti d'immagini filmiche e pittoriche ( mostra a Ferrara a Palazzo dei Diamanti)



Quello che costituisce la nuova immagine (tempo) è una situazione puramente ottica e sonora che si sostituisce alla messa in crisi del tradizionale schema sensori-motore dell’immagine-movimento. Se la banalità del quotidiano è  così importante è perché a partire dall’effrazione di tali schemi automatici e prestabiliti, dal più piccola rottura dell’equilibrio tra stimolo e risposta esso si può liberare all’improvviso dalle leggi di tale logica e rivelarsi nella sua nudità visiva e sonora, in quella crudezza e brutalità che lo rende intollerabile dandogli il passo d’un sogno o d’un incubo”.

 “Oggetti e luoghi assumono una dimensione autonoma, materiale che attribuisce loro un’importanza in sé” perché non soltanto gli spettatori ma per primi i personaggi investono i luoghi con il loro sguardo, misurano il loro tempo interiore, la durata attraverso quello sguardo, percepiscono e ricevono stimoli, dilatazioni o restrizioni alla loro vita del pensiero, permettono ad azioni o pre-azioni di irrompere alla soglia di coscienza, a un livello  di pre-gesto quotidiano.

 “Incorriamo in un principio di indeterminabilità, di inconoscibilità: non sappiamo più quello che è immaginario o reale, fisico o mentale nella situazione non perché sono confusi ma perché non ci è dato sapere e non c’è neppure un luogo dal quale chiedere. Come se il reale e l’immaginario stessero incorrendo l’uno dietro l’altro, come se ognuno si riflettesse nell’altro, intorno a un punto di inconoscibilità."


“Da Eclissi in poi gli spazi qualunque hanno raggiunto una seconda forma: spazi svuotati o disertati. Quello che accade è che dall’uno all’altro i personaggi  sono oggettivamente svuotati. Soffrono meno per l’assenza dall’altro che per l’assenza da loro stessi. Questo spazio si riferisce ancora allo sguardo perso dell’essere che è assente dal mondo quanto da sé stesso e sostituisce il dramma tradizionale con una sorta di dramma ottico vissuto dal personaggio”[1].









La vastità di orizzonti desertici e polverosi situano, a più riprese, nella poetica antoniana situazioni-limite dove l’azione s’arresta, il cinema smette di funzionare e agire come una registrazione d’eventi e comincia a errare attraverso lo sguardo in immagine ottiche e sonore, comincia a vedere, cogliere qualcosa di intollerabile, incomprensibile, incommensurabile in quella realtà, qualcosa di eccessivo o che eccede il suo dispiegamento narrativo classico, la sua capacità di d’azione o reazione in una sequenzialità lineare imponendo invece questi momenti di stasi, di “nulla fare”, “nulla comprendere”,
di “tempi morti”, “gesti inutili”, dilatazioni temporali assolutamente soggettive,
la perdita di senso di quella realtà e, insieme, l'insistenza significativa sulle cose in una loro implicita metaforicità o constatazione di presenza attraverso lo sguardo della telecamera.
Sono spazi vuoti, paesaggi disconnessi, non-luoghi  che riassorbono gli oggetti e i personaggi rendendoli inventari astratti di realtà, immagini desunte da un presente ma viste a distanza, in profondità, in un guardare che è insieme al di fuori e al di dentro del personaggio, per uno sguardo che é ora quello d'una soggettività in atto, ora constatazione oggettivante e astratta sulle cose, ora coscienza in azione dell'immagine  filmica in traffico costante con il proprio subcosciente visivo.





Il deserto (finale in professione reporter)

Una cancellata rettangolare in ferro battuto fatta di linee perpendicolari oppone uno schermo, una griglia occlusiva, forviante che in qualche modo inquadra e ritaglia la visione, limita e impone uno sguardo estraniante, una distanza oggettiva posta a una realtà irriconoscibile o comunque vista attraverso la coscienza d’uno scollamento o d’una mancata empatia all’evento da parte di chi lo vive o chi guarda. Attraverso tale schermo occludente un’arena desertica e disertata, apparentemente svuotata d’ogni presenza umana, l’esterno d’un anfiteatro romano sembrerebbe dalle mura massicce, compare perseguendo ininterrottamente in forma circolare  intercalato da un portale purpureo.

I sassi e le pietre sgretolano contro la terra arsa, brulla, nella calura bruciante del mezzogiorno,
la polvere si solleva a fiotti, folate di fumo polveroso.
In esterno in una sorta d’ anfiteatro romano un cerchio, una circonferenza invisibile è tracciata al suo centro sul suolo ocra. Una serie di attraversamenti seguono su una scena fittizia, provvisoriamente creata  o casualmente emersa come baluardo da questo margine desertico, esiliante, bordo ultimo della terra come ultimo anello della catena che chiude il destino bizzarro di questo personaggio nel suo tentativo di metamorfosi e sparizione assumendo la contraffatta identità di qualcun altro, il suo appuntamento ultimo con  la morte lì ad attenderlo.
Un’auto bianca solleva polvere al passaggio,
un randagio solitario attraversa, poi un ragazzino correndo,  grida di bambini attraverso la risonanza vuota, echeggiante dell’arena, un vecchio  solitario cercando riparo dalla calura cocente del mezzogiorno contro la parete raccolto.
Insondabile, spessa la muraglia esterna s'erge. La ragazza ora al centro della scena, esile, rapida attraversa, sul suolo polveroso s’arresta, getta uno sguardo contro l’inferriata del fondo, poi scompare. Infiltrandosi tra le sbarre in ferro, la cornice e la griglia della cancellata esterna l’inquadratura s’avvicina a poco a poco entro l’effetto scena. Astrazione visiva di forme epurate, in spostamento come figure sostanzialmente posizionandosi in uno spazio plastico dato.
Fumo sollevato a fiotti dall’auto della polizia arrivando in un vortice polveroso di figure e comparse per portare via l’uomo. Entrano nella casa bianca adiacente, la ragazza, gli uomini della polizia, un’altra donna, la folla, corrono tutti verso la casa per cercare l’uomo da eseguire. Ancora una griglia, ancora immagini viste attraverso la cancellata della casa, poi la stanza dove giace addormentato l’uomo, filmata in esterno dall’inferriata d’una finestra che già lo vede preso, inquadrato, serrato da sbarre d'acciaio perpendicolari.


Su una terra rossa , arsa, dissecata dalla calura d’una sconfinata  vastità desertica, un uomo arrestato in mezzo al nulla (la sua auto dissepolta da una tempesta di polvere)  violentemente spazza via sabbia dal cammino con le mani in un gesto rabbioso, frenetico, in un grido disperante quanto solitario, inudito.













Zabriskie Point (scena finale)


Un edificio, una villa-dimora arroccata sulle coste rocciose e brulle dell’Arizona è visto violentemente saltare in aria da un’esplosione, fatto esplodere in aria ripetutamente, violentemente, a ripetizione attraverso lo sguardo della ragazza fissandone a distanza il sito.

Luce abbagliante, fuoco e fiamme e ovunque pervasive in un sol tratto esplose come un’irruzione , l’irrompere di un boato, la violenza dell’ evento che deflagra inatteso, che salta in aria e manda in frantumi la materia come massa di pulviscoli, frammenti e polvere ovunque implosi, fumo salendo a nugoli. Fuoco e fiamme d’un sol colpo divampano riversandosi come massa vulcanica in eruzione alla luce del giorno.  Tra i rumori assordanti, una combustione indefinita, pervasiva e inarrestabile segue. Poi, d’un tratto, in un cambio repentino di immagine, quelle stesse scorie, oggetti, rottami, polveri e pezzi di cose partite in mille frammenti alla deriva appaiono fluttuare in aria leggeri, galleggianti, aerei come fossero senza peso, senza forma, senza costrizione alcuna danzando, lasciandosi portare come piume volteggianti in ondulazione dal vento sospinte,
dalla semplice forza di gravità contro il fondale trasparente o etereo del cielo.


Esplosione di pezzi ovunque, fumo grigio e polveroso, fuoco che brucia incessantemente, incandescente nel rosso elettrizzato, intenso, assordante del boato. Poi d’un tratto in una visione di dripping  pollockiano quella stessa miriade di polveri discendono come una pioggia di coriandoli colorati sul fondo di un cielo imploso: pezzi di mobili, tavoli, sedie, abiti e scarpe dipanandosi al vento in ondulazioni di tessuti morbidi multicolori ,
gli elettrodomestici e i loro circuiti interni saltati in aria,  i frigoriferi e la loro massa di cibi svolazzando qua e là al vento, i televisori e i loro interni apparati elettrici, micro-chip, pezzi di ferro e plastica, e poi tutti quegli oggetti qualunque, armadi riempiti di materiali, 
scaffali riempiti di libri, stanze riempite di ricordi, case riempite di cose, tutti quegli oggetti volatizzati, mandati in fumo eppure non distrutti no, semplicemente convertiti in altro,
 in pezzi, pezzetti, schegge e lasciti sempre più piccoli, pulviscoli colorati in aria ora volteggianti leggeri, deponendosi lentamente verso il suolo come aquiloni alla deriva.
Ora sono libri sfogliandosi in pagine aperte nel volo, giornali, fogli, pezzi di scrittura alla deriva, pioggia di pagine stampate, miriade di fogli di carta riempite di segni, miriade di lettere scritte e poi gettate, parole divenute inutili, inutilizzabili in questo stadio eppure ancora lì viventi come corpi galleggianti di vita propria, pezzi di parole alla deriva, librandosi dense, corpose, liberandosi in aria nel volo.




In Watery path di Pollock la stessa immagine filmata da Antonioni in movimento nel divenire filmico compare in forma pitturale, il vedere qui ricondotto al ritmo d’un segno tendente tuttavia a travalicare i limiti della sua propria staticità attraverso il procedimento del dripping  pollockiano.  Alla  comune necessità di “vedere” risponde da una parte “il tutto indecomponibile dell’immagine filmica (in Antonioni),  suono e visione insieme, esteso in una sua durata che ne determina l’esistenza stessa” [2] come una realtà che muta e si consuma nel suo proprio incessante avvenire, scorrere, perseguire di immagine in movimento.
Dall’altra parte, ad essa risponde, l’immagine pitturale creata dal dripping pollockiano di Watery Path;
campo d’azione o di deflagrazione del corpo sulla tela, il percorso di immersione acquatica in linea ininterrotta e ondulata per filamenti d’inchiostro volteggianti liberi nello spazio del fondo grigio é qui messo a distanza, nell’estraniarsi del segno fissato in una  sua configurazione pittorica astratta che si appropria tuttavia dell’elemento acquatico,
il flusso, il fluido continuo del suo liquido manifestarsi.
La caoticità apparente di linee e colate di colore nate dall’aleatorio d’un gesto performativo,  sulla superficie-tela del corpo nell’attraversamento trovano, tuttavia, in questa tela un proprio ordine interno di pieni e vuoti armoniosamente distribuiti attraverso l’istaurarsi di una ritmica ineluttabile.

 Nella pittura astratta di Rothko ugualmente accostata al lavoro di Antonioni, la visione ocra e rossa del paesaggio desertico essenzializza lo stato metaforico di svuotamento associato al deserto nella poetica antoniana; esso è qui restituito attraverso la densità cromatica di un  giallo-ocra intenso disteso à plat in cornice rossa vista in inquadrature successive a ripetizione.


In Mario Schifano, Tutti morti, altro dipinto messo in dialogo con Zabriskie Point, corpi morti o addormentati fluttuano sull’acqua distesi come figurine in semi-rilievo, quasi collage sul fondale giallo-ocra intenso in primo piano dileguando in uno scenario acquatico, emulsionato di vernice celeste smaltata. Anche qui sono ombre o macchie di figure fluttuanti sull’acqua, galleggianti, anche qui è l’idea di deflagrazione, di dispersione voluta di figure su un suolo ora acquatico ora sabbioso , anche qui sono derive di corpi o di cose come materia morta lasciata emergere, fluttuare, pesare sul suolo come macchie dense e smaltate tra gli arbusti,  oleose e indelebili sull’acqua, contro la sabbia o il blu semi-marino di questa “valle di morte”.


Le montagne incantate è una serie di dipinti e ingrandimenti fotografici su cui lavora Antonioni a partire dagli anni sessanta: una massa rocciosa dilegua  in ingrandimento visivo come distesa eterea  e rossiccia; dune ricoperte d’una pioggia di sabbia in ondulazioni cromatiche lasceranno emergere sotto l’effetto della combustione una banda larga e nera frastagliata sui bordi dissolvendo la solidità della roccia sotto l’effetto del fuoco e dell’ incenerimento.
“Montagne incantate” sono ancora eruzioni vulcaniche in ingrandimenti fotografici di rossi, aranci o purpurei colori-materia, in sensazioni magnifiche d’un grande Vesuvio esploso al centro dell’esperimento pittorico ingrandito fino a far perdere la nozione della forma originaria  per entrare in immersione dentro la sua sostanza cellulare.
In altre sperimentazioni le deformazioni fotografiche delle rocce creano dissolvenze delle forme come se fossero soggette a combustioni o  si penetrasse dentro il loro tessuto cellulare, dentro le fibre, i filamenti, le vene, le rigature o le cellule che ne compongono la materia organica, come se nella dissolvenza fotografica si passasse dalla forma finita, statica del segno pittorico al tutto indecomponibile, a una sorta di durata o movimento cellullare interno all’immagine filmica.







L’Eclisse (finale)
Antonioni:  “A Firenze per vedere e girare l’eclisse di sole. Gelo improvviso. Silenzio diverso da tutti gli altri silenzi. Luce terrea diversa da tutte le altre luci. E poi buio, immobilità totale. Tutto quello che riesco a pensare è che probabilmente durante l’eclissi si fermano anche i sentimenti. ”[3]
Quartiere periferico romano, crepuscolo, strade deserte, un bus attraversa. Strada grigia vuota e asfaltata vista dall’alto incedendo dritta, assoluta, epurata come un tracciato geometrico svuotato di presenze, scandita attraverso una serie di lampioni, linee curve e regolari in acciaio freddo poste a una stessa distanza. Procede verso un proprio assoluto come verso un punto di fuga invisibile oltre  inquadratura.
Quartiere periferico romano, luci a neon, strade deserte, un bus attraversa. L’oscurità discende rivelando gli edifici sempre più come costruzioni astratte, essenzializzate in forme geometriche angolari, epurate d’ ogni appartenenza umana, d’ogni possibilità di scambio, di parola o d’empatia con l’ambiente  circostante ricondotto a una messa a distanza visiva astratta.
Allo stesso modo nel quadro di De Chirico adiacente lo spazio e il tempo sono arrestati in questa visione immobile, fuori dal tempo  d’una piazza d’Italia colta nella folgorazione della luce solare all’apice del giorno; i colori sono netti, ocra al suolo, le architetture classiche dominano sullo sfondo nell’eternità di un fuori-tempo onirico, malinconico, carico d'assenza nell’ambientazione metafisica dechirichiana.
La notte discende come l’oscurità totale sugli edifici, sui volti in attraversamento come ombre anonime attraverso la strada. Profili grigi e geometrici di costruzioni  sullo sfondo.
Neon, luci dei lampioni, i fari delle auto nella notte, poi la strada deserta appare ancora  rischiarata da una fonte luminosa fredda, a distanza. Dalla fioca luce a neon filtrata nel riflesso d’una lampada irradia una folgorazione luminosa generata nell’eclissi di luce elettrica improvvisa. In tale deserto urbano, una luce raggelante irradia e distanzia, lo spazio vuoto diviene una superficie bianco-luminosa: constatazione visiva d’assenza di parola, di sentire, d’umanità.   

Altrove


Kumbh Mela è un rituale religioso un, che si celebra in quattro luoghi principali dell’India ogni tre anni a rotazione, pellegrinaggio hindu di massa per bagnarsi nelle acque d’un fiume sacro o alla confluenza del Gange e del Yamuna. 


Kumbh Mela (Estratto video del documentario di Antonioni)

I colori dell’India, un’infinità di uomini e donne avanzano verso le rive alla confluenza dei due fiumi sacri. Veli gialli si stagliano tra la folla, avvolgendo i capi delle donne nella marcia lenta, nel passaggio rituale verso le acque . Musiche sacre di mantra induisti accompagnano. Al crepuscolo le acque del fiume, acque scure, opache, dai fondali fangosi sprovviste d’una reale lucentezza o trasparenza appaiono irradiate d’una miriade di riflessi brillanti e dorati come provenienti da una fonte di luce lontana, riflessa, lentamente eclissandosi oltre l’orizzonte eppure, ancora, estremamente rilucente alla fine del giorno; lì anche i residui, i lembi fangosi delle riva nell’estrema indigenza del contorno appaiono trasmutati in una singolare epurazione luminosa.

Un’infinità di volti nella folla, abiti lunghi, veli, copricapi finemente intessuti, barche cariche di gente sul fiume alla confluenza dei due corsi sacri.
Si bagnano per purificarsi nelle acque del Gange in un gesto collettivo, rituale, alla ricerca d’una trasmutazione, rinascita o semplicemente  liberazione karmica, schiera infinita di uomini e donne, vecchi e bambini, maestri hindu o gente comune nei passaggi lenti di un’infinità di volti attraverso la telecamera.

Camminano sulla banchina provvisoriamente posta lungo le rive fino a raggiungere le acque per immergersi, metaforicamente tergersi, prendere contatto con il segreto del fiume sacro.  A piedi nudi attraversano; immersi nell’acqua fino al bacino, camminano.
 Si bagnano le mani, il volto, affondano i piedi nudi, parti del corpo nelle acque. I gesti sono lenti, meditati, soppesati da una strana gravità, filmati con una loro insita bellezza nell’unicità del momento, dell’avvenimento. Sprofondano fino a mezzo busto; alcuni portano via l’acqua  in contenitori, i bambini vi sguazzano dentro gioiosamente. I lembi degli abiti, i piedi, i tessuti dei copricapi sono imbevuti, impregnati in quel rituale. Nel rito collettivo ora come una schiera di figure e volti avanzano verso il crepuscolo come questo popolo di Dio, rinato, terso  lasciandosi alle spalle le acque del fiume verso il profilo della città promessa, il tramonto sulle acque del Gange.   















[1]Gilles Deleuze su Antonioni in Cinema 2, l’immagine-tempo, Milano, Ubulibri, 1984, p. 29
[2] Cfr. Giorgio Tinazzi, Michelangelo Antonioni, Il Castoro Cinema, p.7
[3] Ibid., p. 18