domenica 14 aprile 2013

"Antonioni e le arti", estratti d'immagini filmiche e pittoriche ( mostra a Ferrara a Palazzo dei Diamanti)



Quello che costituisce la nuova immagine (tempo) è una situazione puramente ottica e sonora che si sostituisce alla messa in crisi del tradizionale schema sensori-motore dell’immagine-movimento. Se la banalità del quotidiano è  così importante è perché a partire dall’effrazione di tali schemi automatici e prestabiliti, dal più piccola rottura dell’equilibrio tra stimolo e risposta esso si può liberare all’improvviso dalle leggi di tale logica e rivelarsi nella sua nudità visiva e sonora, in quella crudezza e brutalità che lo rende intollerabile dandogli il passo d’un sogno o d’un incubo”.

 “Oggetti e luoghi assumono una dimensione autonoma, materiale che attribuisce loro un’importanza in sé” perché non soltanto gli spettatori ma per primi i personaggi investono i luoghi con il loro sguardo, misurano il loro tempo interiore, la durata attraverso quello sguardo, percepiscono e ricevono stimoli, dilatazioni o restrizioni alla loro vita del pensiero, permettono ad azioni o pre-azioni di irrompere alla soglia di coscienza, a un livello  di pre-gesto quotidiano.

 “Incorriamo in un principio di indeterminabilità, di inconoscibilità: non sappiamo più quello che è immaginario o reale, fisico o mentale nella situazione non perché sono confusi ma perché non ci è dato sapere e non c’è neppure un luogo dal quale chiedere. Come se il reale e l’immaginario stessero incorrendo l’uno dietro l’altro, come se ognuno si riflettesse nell’altro, intorno a un punto di inconoscibilità."


“Da Eclissi in poi gli spazi qualunque hanno raggiunto una seconda forma: spazi svuotati o disertati. Quello che accade è che dall’uno all’altro i personaggi  sono oggettivamente svuotati. Soffrono meno per l’assenza dall’altro che per l’assenza da loro stessi. Questo spazio si riferisce ancora allo sguardo perso dell’essere che è assente dal mondo quanto da sé stesso e sostituisce il dramma tradizionale con una sorta di dramma ottico vissuto dal personaggio”[1].









La vastità di orizzonti desertici e polverosi situano, a più riprese, nella poetica antoniana situazioni-limite dove l’azione s’arresta, il cinema smette di funzionare e agire come una registrazione d’eventi e comincia a errare attraverso lo sguardo in immagine ottiche e sonore, comincia a vedere, cogliere qualcosa di intollerabile, incomprensibile, incommensurabile in quella realtà, qualcosa di eccessivo o che eccede il suo dispiegamento narrativo classico, la sua capacità di d’azione o reazione in una sequenzialità lineare imponendo invece questi momenti di stasi, di “nulla fare”, “nulla comprendere”,
di “tempi morti”, “gesti inutili”, dilatazioni temporali assolutamente soggettive,
la perdita di senso di quella realtà e, insieme, l'insistenza significativa sulle cose in una loro implicita metaforicità o constatazione di presenza attraverso lo sguardo della telecamera.
Sono spazi vuoti, paesaggi disconnessi, non-luoghi  che riassorbono gli oggetti e i personaggi rendendoli inventari astratti di realtà, immagini desunte da un presente ma viste a distanza, in profondità, in un guardare che è insieme al di fuori e al di dentro del personaggio, per uno sguardo che é ora quello d'una soggettività in atto, ora constatazione oggettivante e astratta sulle cose, ora coscienza in azione dell'immagine  filmica in traffico costante con il proprio subcosciente visivo.





Il deserto (finale in professione reporter)

Una cancellata rettangolare in ferro battuto fatta di linee perpendicolari oppone uno schermo, una griglia occlusiva, forviante che in qualche modo inquadra e ritaglia la visione, limita e impone uno sguardo estraniante, una distanza oggettiva posta a una realtà irriconoscibile o comunque vista attraverso la coscienza d’uno scollamento o d’una mancata empatia all’evento da parte di chi lo vive o chi guarda. Attraverso tale schermo occludente un’arena desertica e disertata, apparentemente svuotata d’ogni presenza umana, l’esterno d’un anfiteatro romano sembrerebbe dalle mura massicce, compare perseguendo ininterrottamente in forma circolare  intercalato da un portale purpureo.

I sassi e le pietre sgretolano contro la terra arsa, brulla, nella calura bruciante del mezzogiorno,
la polvere si solleva a fiotti, folate di fumo polveroso.
In esterno in una sorta d’ anfiteatro romano un cerchio, una circonferenza invisibile è tracciata al suo centro sul suolo ocra. Una serie di attraversamenti seguono su una scena fittizia, provvisoriamente creata  o casualmente emersa come baluardo da questo margine desertico, esiliante, bordo ultimo della terra come ultimo anello della catena che chiude il destino bizzarro di questo personaggio nel suo tentativo di metamorfosi e sparizione assumendo la contraffatta identità di qualcun altro, il suo appuntamento ultimo con  la morte lì ad attenderlo.
Un’auto bianca solleva polvere al passaggio,
un randagio solitario attraversa, poi un ragazzino correndo,  grida di bambini attraverso la risonanza vuota, echeggiante dell’arena, un vecchio  solitario cercando riparo dalla calura cocente del mezzogiorno contro la parete raccolto.
Insondabile, spessa la muraglia esterna s'erge. La ragazza ora al centro della scena, esile, rapida attraversa, sul suolo polveroso s’arresta, getta uno sguardo contro l’inferriata del fondo, poi scompare. Infiltrandosi tra le sbarre in ferro, la cornice e la griglia della cancellata esterna l’inquadratura s’avvicina a poco a poco entro l’effetto scena. Astrazione visiva di forme epurate, in spostamento come figure sostanzialmente posizionandosi in uno spazio plastico dato.
Fumo sollevato a fiotti dall’auto della polizia arrivando in un vortice polveroso di figure e comparse per portare via l’uomo. Entrano nella casa bianca adiacente, la ragazza, gli uomini della polizia, un’altra donna, la folla, corrono tutti verso la casa per cercare l’uomo da eseguire. Ancora una griglia, ancora immagini viste attraverso la cancellata della casa, poi la stanza dove giace addormentato l’uomo, filmata in esterno dall’inferriata d’una finestra che già lo vede preso, inquadrato, serrato da sbarre d'acciaio perpendicolari.


Su una terra rossa , arsa, dissecata dalla calura d’una sconfinata  vastità desertica, un uomo arrestato in mezzo al nulla (la sua auto dissepolta da una tempesta di polvere)  violentemente spazza via sabbia dal cammino con le mani in un gesto rabbioso, frenetico, in un grido disperante quanto solitario, inudito.













Zabriskie Point (scena finale)


Un edificio, una villa-dimora arroccata sulle coste rocciose e brulle dell’Arizona è visto violentemente saltare in aria da un’esplosione, fatto esplodere in aria ripetutamente, violentemente, a ripetizione attraverso lo sguardo della ragazza fissandone a distanza il sito.

Luce abbagliante, fuoco e fiamme e ovunque pervasive in un sol tratto esplose come un’irruzione , l’irrompere di un boato, la violenza dell’ evento che deflagra inatteso, che salta in aria e manda in frantumi la materia come massa di pulviscoli, frammenti e polvere ovunque implosi, fumo salendo a nugoli. Fuoco e fiamme d’un sol colpo divampano riversandosi come massa vulcanica in eruzione alla luce del giorno.  Tra i rumori assordanti, una combustione indefinita, pervasiva e inarrestabile segue. Poi, d’un tratto, in un cambio repentino di immagine, quelle stesse scorie, oggetti, rottami, polveri e pezzi di cose partite in mille frammenti alla deriva appaiono fluttuare in aria leggeri, galleggianti, aerei come fossero senza peso, senza forma, senza costrizione alcuna danzando, lasciandosi portare come piume volteggianti in ondulazione dal vento sospinte,
dalla semplice forza di gravità contro il fondale trasparente o etereo del cielo.


Esplosione di pezzi ovunque, fumo grigio e polveroso, fuoco che brucia incessantemente, incandescente nel rosso elettrizzato, intenso, assordante del boato. Poi d’un tratto in una visione di dripping  pollockiano quella stessa miriade di polveri discendono come una pioggia di coriandoli colorati sul fondo di un cielo imploso: pezzi di mobili, tavoli, sedie, abiti e scarpe dipanandosi al vento in ondulazioni di tessuti morbidi multicolori ,
gli elettrodomestici e i loro circuiti interni saltati in aria,  i frigoriferi e la loro massa di cibi svolazzando qua e là al vento, i televisori e i loro interni apparati elettrici, micro-chip, pezzi di ferro e plastica, e poi tutti quegli oggetti qualunque, armadi riempiti di materiali, 
scaffali riempiti di libri, stanze riempite di ricordi, case riempite di cose, tutti quegli oggetti volatizzati, mandati in fumo eppure non distrutti no, semplicemente convertiti in altro,
 in pezzi, pezzetti, schegge e lasciti sempre più piccoli, pulviscoli colorati in aria ora volteggianti leggeri, deponendosi lentamente verso il suolo come aquiloni alla deriva.
Ora sono libri sfogliandosi in pagine aperte nel volo, giornali, fogli, pezzi di scrittura alla deriva, pioggia di pagine stampate, miriade di fogli di carta riempite di segni, miriade di lettere scritte e poi gettate, parole divenute inutili, inutilizzabili in questo stadio eppure ancora lì viventi come corpi galleggianti di vita propria, pezzi di parole alla deriva, librandosi dense, corpose, liberandosi in aria nel volo.




In Watery path di Pollock la stessa immagine filmata da Antonioni in movimento nel divenire filmico compare in forma pitturale, il vedere qui ricondotto al ritmo d’un segno tendente tuttavia a travalicare i limiti della sua propria staticità attraverso il procedimento del dripping  pollockiano.  Alla  comune necessità di “vedere” risponde da una parte “il tutto indecomponibile dell’immagine filmica (in Antonioni),  suono e visione insieme, esteso in una sua durata che ne determina l’esistenza stessa” [2] come una realtà che muta e si consuma nel suo proprio incessante avvenire, scorrere, perseguire di immagine in movimento.
Dall’altra parte, ad essa risponde, l’immagine pitturale creata dal dripping pollockiano di Watery Path;
campo d’azione o di deflagrazione del corpo sulla tela, il percorso di immersione acquatica in linea ininterrotta e ondulata per filamenti d’inchiostro volteggianti liberi nello spazio del fondo grigio é qui messo a distanza, nell’estraniarsi del segno fissato in una  sua configurazione pittorica astratta che si appropria tuttavia dell’elemento acquatico,
il flusso, il fluido continuo del suo liquido manifestarsi.
La caoticità apparente di linee e colate di colore nate dall’aleatorio d’un gesto performativo,  sulla superficie-tela del corpo nell’attraversamento trovano, tuttavia, in questa tela un proprio ordine interno di pieni e vuoti armoniosamente distribuiti attraverso l’istaurarsi di una ritmica ineluttabile.

 Nella pittura astratta di Rothko ugualmente accostata al lavoro di Antonioni, la visione ocra e rossa del paesaggio desertico essenzializza lo stato metaforico di svuotamento associato al deserto nella poetica antoniana; esso è qui restituito attraverso la densità cromatica di un  giallo-ocra intenso disteso à plat in cornice rossa vista in inquadrature successive a ripetizione.


In Mario Schifano, Tutti morti, altro dipinto messo in dialogo con Zabriskie Point, corpi morti o addormentati fluttuano sull’acqua distesi come figurine in semi-rilievo, quasi collage sul fondale giallo-ocra intenso in primo piano dileguando in uno scenario acquatico, emulsionato di vernice celeste smaltata. Anche qui sono ombre o macchie di figure fluttuanti sull’acqua, galleggianti, anche qui è l’idea di deflagrazione, di dispersione voluta di figure su un suolo ora acquatico ora sabbioso , anche qui sono derive di corpi o di cose come materia morta lasciata emergere, fluttuare, pesare sul suolo come macchie dense e smaltate tra gli arbusti,  oleose e indelebili sull’acqua, contro la sabbia o il blu semi-marino di questa “valle di morte”.


Le montagne incantate è una serie di dipinti e ingrandimenti fotografici su cui lavora Antonioni a partire dagli anni sessanta: una massa rocciosa dilegua  in ingrandimento visivo come distesa eterea  e rossiccia; dune ricoperte d’una pioggia di sabbia in ondulazioni cromatiche lasceranno emergere sotto l’effetto della combustione una banda larga e nera frastagliata sui bordi dissolvendo la solidità della roccia sotto l’effetto del fuoco e dell’ incenerimento.
“Montagne incantate” sono ancora eruzioni vulcaniche in ingrandimenti fotografici di rossi, aranci o purpurei colori-materia, in sensazioni magnifiche d’un grande Vesuvio esploso al centro dell’esperimento pittorico ingrandito fino a far perdere la nozione della forma originaria  per entrare in immersione dentro la sua sostanza cellulare.
In altre sperimentazioni le deformazioni fotografiche delle rocce creano dissolvenze delle forme come se fossero soggette a combustioni o  si penetrasse dentro il loro tessuto cellulare, dentro le fibre, i filamenti, le vene, le rigature o le cellule che ne compongono la materia organica, come se nella dissolvenza fotografica si passasse dalla forma finita, statica del segno pittorico al tutto indecomponibile, a una sorta di durata o movimento cellullare interno all’immagine filmica.







L’Eclisse (finale)
Antonioni:  “A Firenze per vedere e girare l’eclisse di sole. Gelo improvviso. Silenzio diverso da tutti gli altri silenzi. Luce terrea diversa da tutte le altre luci. E poi buio, immobilità totale. Tutto quello che riesco a pensare è che probabilmente durante l’eclissi si fermano anche i sentimenti. ”[3]
Quartiere periferico romano, crepuscolo, strade deserte, un bus attraversa. Strada grigia vuota e asfaltata vista dall’alto incedendo dritta, assoluta, epurata come un tracciato geometrico svuotato di presenze, scandita attraverso una serie di lampioni, linee curve e regolari in acciaio freddo poste a una stessa distanza. Procede verso un proprio assoluto come verso un punto di fuga invisibile oltre  inquadratura.
Quartiere periferico romano, luci a neon, strade deserte, un bus attraversa. L’oscurità discende rivelando gli edifici sempre più come costruzioni astratte, essenzializzate in forme geometriche angolari, epurate d’ ogni appartenenza umana, d’ogni possibilità di scambio, di parola o d’empatia con l’ambiente  circostante ricondotto a una messa a distanza visiva astratta.
Allo stesso modo nel quadro di De Chirico adiacente lo spazio e il tempo sono arrestati in questa visione immobile, fuori dal tempo  d’una piazza d’Italia colta nella folgorazione della luce solare all’apice del giorno; i colori sono netti, ocra al suolo, le architetture classiche dominano sullo sfondo nell’eternità di un fuori-tempo onirico, malinconico, carico d'assenza nell’ambientazione metafisica dechirichiana.
La notte discende come l’oscurità totale sugli edifici, sui volti in attraversamento come ombre anonime attraverso la strada. Profili grigi e geometrici di costruzioni  sullo sfondo.
Neon, luci dei lampioni, i fari delle auto nella notte, poi la strada deserta appare ancora  rischiarata da una fonte luminosa fredda, a distanza. Dalla fioca luce a neon filtrata nel riflesso d’una lampada irradia una folgorazione luminosa generata nell’eclissi di luce elettrica improvvisa. In tale deserto urbano, una luce raggelante irradia e distanzia, lo spazio vuoto diviene una superficie bianco-luminosa: constatazione visiva d’assenza di parola, di sentire, d’umanità.   

Altrove


Kumbh Mela è un rituale religioso un, che si celebra in quattro luoghi principali dell’India ogni tre anni a rotazione, pellegrinaggio hindu di massa per bagnarsi nelle acque d’un fiume sacro o alla confluenza del Gange e del Yamuna. 


Kumbh Mela (Estratto video del documentario di Antonioni)

I colori dell’India, un’infinità di uomini e donne avanzano verso le rive alla confluenza dei due fiumi sacri. Veli gialli si stagliano tra la folla, avvolgendo i capi delle donne nella marcia lenta, nel passaggio rituale verso le acque . Musiche sacre di mantra induisti accompagnano. Al crepuscolo le acque del fiume, acque scure, opache, dai fondali fangosi sprovviste d’una reale lucentezza o trasparenza appaiono irradiate d’una miriade di riflessi brillanti e dorati come provenienti da una fonte di luce lontana, riflessa, lentamente eclissandosi oltre l’orizzonte eppure, ancora, estremamente rilucente alla fine del giorno; lì anche i residui, i lembi fangosi delle riva nell’estrema indigenza del contorno appaiono trasmutati in una singolare epurazione luminosa.

Un’infinità di volti nella folla, abiti lunghi, veli, copricapi finemente intessuti, barche cariche di gente sul fiume alla confluenza dei due corsi sacri.
Si bagnano per purificarsi nelle acque del Gange in un gesto collettivo, rituale, alla ricerca d’una trasmutazione, rinascita o semplicemente  liberazione karmica, schiera infinita di uomini e donne, vecchi e bambini, maestri hindu o gente comune nei passaggi lenti di un’infinità di volti attraverso la telecamera.

Camminano sulla banchina provvisoriamente posta lungo le rive fino a raggiungere le acque per immergersi, metaforicamente tergersi, prendere contatto con il segreto del fiume sacro.  A piedi nudi attraversano; immersi nell’acqua fino al bacino, camminano.
 Si bagnano le mani, il volto, affondano i piedi nudi, parti del corpo nelle acque. I gesti sono lenti, meditati, soppesati da una strana gravità, filmati con una loro insita bellezza nell’unicità del momento, dell’avvenimento. Sprofondano fino a mezzo busto; alcuni portano via l’acqua  in contenitori, i bambini vi sguazzano dentro gioiosamente. I lembi degli abiti, i piedi, i tessuti dei copricapi sono imbevuti, impregnati in quel rituale. Nel rito collettivo ora come una schiera di figure e volti avanzano verso il crepuscolo come questo popolo di Dio, rinato, terso  lasciandosi alle spalle le acque del fiume verso il profilo della città promessa, il tramonto sulle acque del Gange.   















[1]Gilles Deleuze su Antonioni in Cinema 2, l’immagine-tempo, Milano, Ubulibri, 1984, p. 29
[2] Cfr. Giorgio Tinazzi, Michelangelo Antonioni, Il Castoro Cinema, p.7
[3] Ibid., p. 18




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