martedì 31 gennaio 2012

A proposito di “Baselitz”, museo dell’arte moderna, Parigi






















Scavare la materia per scoprire una forma già là, pre-esistente, sommersa,
lavorare sul togliere, sul tagliare, sull’estrarre o affondare, mai sull'aggiungere, dare forma, affinare. Togliere il superfluo, strati su strati per arrivare all'oggetto in sé dove l'atto di scavare rinvia implicitamente alla terra, a un ritorno al suolo, all'impronta d'una matrice generativa, generante o rigenerante per l’immaginazione nella sua messa in spazio plastica d’altre possibilità sculturali.
La scultura  si vuole  in Baselitz  ritorno a un “grado zero” della medesima,  simile a un de-stratificare,  sfogliare, discendere in senso genealogico, strato su strato, ciò che corrisponde, anche,   a decostruire le sovra-strutture dell’estetica occidentale fino a toccare o raggiungere paradossalmente una sorta di “innocenza ritrovata” nel fare artistico, (innocenza a posteriori prodotta a ritroso d’una cultura). Partire dal gesto in presa diretta sul legno, gesto di “non-sapere” assoluto, non premeditato né razionale, violento, primordiale, gesto in togliere che porta in sé qualcosa di  irriducibile dandosi in primo luogo nel proprio potere di presenza  e di fascinazione, al di qua d’ogni preoccupazione formale o stilistica.

L'energia violenta implicata in tale atto, la brutalità del legno nella sua realtà ordinaria,
una materia “bassa”, a portata di mano attaccata direttamente dall'ascia o dalla segatrice;
lo stato d'urgenza, di necessità nell'approccio sculturale,
l'intempestività del suo darsi in presa diretta su tempo , contro il tempo, a contro-tempo sulla forma, in parte ridipinta, ripresa o ridisegnata a tempera, acquarello o vernice, aggiunta di stoffa o d'altri tessuti, 
presa infine tra il desiderio di figurare e il ritorno a una primordialità della materia _tronco-albero-legno_ in quanto forza emergente, agente o generante dalla natura.

 “ Le ragioni dell'apparire formale della mia prima scultura arrivarono solo in seguito” racconta l’artista tedesco. “ Avevo senza sosta, unicamente, l'impressione di fare qualcosa come scavare. Scavo il suolo e trovo qualcosa. Utilizzo un'ascia o una sega e non faccio che tagliare direttamente sul legno sculture alle quali non posso nulla aggiungere, nulla sovrapporre come  stessi lavorando sulla pietra. Malgrado ciò, quando l'oggetto é là resta la sensazione netta d'averlo estratto dalla terra, quasi esumato”. La scelta di lavorare a stretto contatto con il suolo, scavare partendo da quello che é là, presente e sovraccarico di strati,  significati e valori estetici matura con l’imporsi del real-socialismo negli anni 1945-46 in Germania orientale come  forma radicale di diffidenza o  opposizione verso ogni imposizione ideologica, impostura di potere, sistematizzazione estetica o politica d’ogni discorso dominante.

“ Ho cominciato a scavare il suolo, meno curioso di guardare il cielo che la terra e la sua interna oscurità, ossessionato dall'idea di fare un buco nel sottosuolo, un tunnel che avrebbe portato dall'altra parte del mondo, in Sud Africa forse”. Scolpire diventa, gettare questo ponte, arrivare da qualche altra parte, compiere un cammino sotterraneo per ricongiungersi con l’altro emisfero, l’altro lato della terra, un’altra idea di scultura, quella trasmetta dall’arte africana per esempio. Di qui la metafora e insieme la necessità di un rovesciamento , tale, volgere la figura dal basso verso l’alto, dipingere alla rovescia, portare la forma finita a un’ inconsueta discordanza di linee, spostarla in una voluta asimmetria o sproporzione nei tratti del viso o del corpo , amputarne parti isolate, frammenti ingigantiti di piedi, busti o teste, figurarne solo a metà apparizioni uscite dalla lotta tra l’energia e la materia.  

“Modello per una scultura” esposto alla Biennale di Venezia nel 1980 é la prima opera che apre il cammino verso “ la prefigurazione d’una nuova immagine”. Né seduto né in piedi il personaggio sembra estrarsi dal fondo del legno, intagliato direttamente in solchi, scavature, incisioni marcate a partire da un blocco monolitico, massa anonima, squadrata dalla quale cominciano a delinearsi alcune parti lasciate al non-finito: testa, bacino, torso, un braccio che si eleva obliquamente in saluto. Solo alcune abbozzi di linee riescono a emergere dalla materia grezza, ripresi, tracciati, rifatti a vernice come in quei disegni preparatori dove si delineano approssimativamente segni di matita su cui si andrà a tagliare o fissare una forma tranne che qui, ancora, la sua sagoma definitiva non esiste e non si vede che questo primo apparire volutamente lasciato allo stato dell’in-determinato.
Simile a uno scavare, manipolare, fare violenza in qualche modo al blocco unico, farne solchi, pieghe, fossati, farne una lotta, un faccia a faccia impulsivo,
farne una messa in luce, un dare alla luce, nella metafora della terra-matrice _ esumare una testa, un bacino, un busto, un capo.

Le teste dello stesso periodo, ugualmente, sono massicce, riprese a colpi o segnature di vernice blu o nera, nella cancellazione voluta, inevitabile dei tratti o di parti dei tali, nello sforzo di discendere, andare verso il basso, verso strati più antichi  lasciando nel processo occhi o bocche distorte.
Sono queste teste dell’incisione, tagliate o staccate dal resto del corpo, messe in rilievo, esse sole su un piedistallo,  verticali o distese, rovesciate; teste della discordanza interna tra le linee, dell’asimmetria voluta o del disaccordo tra il fondo e la figura,  una metà ancora immersa nel blocco massiccio del legno e l’altra graffiata, incisa, riversa fuori nell’atto scultoreo. 

Le “figure in piedi” degli anni ottanta si ergono a grandezza naturale di fronte ai nostri occhi quasi estratte dal suolo, in questo contatto diretto con le forze basse, libidiche, prime della terra  attingendo alle sue radici. Sono corpi-albero, corteccia, corazza, sughero, o legno intagliato elevandosi in verticale, simili alle sculture africane nate come statuette-emblemi medianti tra il mondo degli umani e quello degli spiriti. Dalle profondità delle radici il supporto-tronco si erge verso l’alto intagliato direttamente sull’unico del legno. Affila il busto  in estremità verticale, ora rigonfia la zona del ventre disegnata in circolo come ricettacolo nevralgico dell’insieme del corpo.

In “Gruss aus Oslo”, la figura sospesa su un piedistallo, a metà fluttuante in aria senza più piedi, si da nell’evidenza di volumi grottescamente portati verso l’esterno là dove la materia si scava o si accumula secondo le fluttuazioni energetiche del corpo: la testa dalla fisionomia marcata, il naso come protuberanza rossa enorme in orizzontale, gli occhi ugualmente tuberi rossicci, infine le zone del seno e del sesso messe in evidenza dalla tempera colorata.

In “G Kopf” la testa da identità individuale diviene un universo in sé, una mappatura circolare, un piccolo cosmo scomposto in parti interscambiabili, senza più fronte ne retro, modello in forma circolare e cubica insieme, fatto della combinazione, dell’incastro di tanti piccoli riquadri scomposti senza più trovare soluzione, armoniosa ricomposizione. Ancora, in primo piano, è l’intaglio sulla corteccia-cosmo ripresa a vernice blu.

La “testa tragica” del 1988 é un tronco lasciato ancora all’indeterminato della matrice dove la figura decide di non separarsi completamente dal fondo-legno o forse vi fa ritorno scavandosi nel tutt’uno d’uno stadio primigenio con essa. Scarnificata in verticale, i seni volumizzati e il naso rosso, sporgente d’un pinocchio messo alla berlina é figura tragica perché derisoria, presa in questo assurdo d’una presenza che ride sé stessa, deride e auto-deride, nella bizzarra distribuzione dei volumi spostandosi in pieni e vuoti attraverso la figura secondo la concentrazione dei suoi fluidi energetici. 









“Le donne di Dresda” (1989/90)

La serie evoca le vittime della distruzione della città nel 1945; un gruppo di figure plasticamente distribuite nello spazio, intagliate nella vivacità cromatica di un giallo vivido, anti-naturalistico in aperto contrasto con l’incarnato del modello classico. Forme tondeggianti, piatte o ovali, la prima riempita dei buchi d’una mitragliatrice sembrano dire che la scultura diviene, infine, questa impregnazione d’una materia grezza, presa di mira, giustamente colpita, messa in movimento da un’energia che le é propria, che si incarna perché assume sembianze plastiche nello spazio partendo dal blocco monolitico  del legno. Mettere in vibrazione la materia, attivarne un’energia che si imprime in una forma singolare,  in accumulazioni, scarnificazioni, scavature o incavi, tale é il senso possibile di questo modo di figurare.



Cinque teste nel coro delle donne di Dresda. E’ una schiera, un gruppo,
una disposizione a cinque nello spazio che quintuplica l’energia del singolo in un coro tragico ma distaccato, impersonale, le cui dimensioni espanse sovrastano lo spettatore.

Scalpello, ascia, punta affilata, i colpi, le cesellature si susseguono, scavano, si accaniscono sui visi, non solo rigati ma apertamente intaccati, tagliati, presi a colpi d’accetta, tanto che in alcuni non vi si distinguono neanche più i tratti. La massa si svuota, la durezza cede alla violenza del colpo, il pieno iniziale e compatto lascia posto a varchi scavati nel vuoto, a bocche distorte, a buchi o forme concave d’occhi. Rinviano insieme alla sfera soggettiva della pelle, epidermide-corteccia brutalmente incisa, lacrime senza nome rigate in solchi a vivo sui volti di Dresda, e a quella d’una materia alla quale é applicata la violenza singolare d’un rovesciamento come modo inedito di pensare la scultura.





I cinquantadue disegni realizzati in relazione al lavoro scultoreo nascono non tanto come abbozzi preparatori ma esprimono secondo Baselitz “la ricerca d’una idea”, un’idea che inevitabilmente terminerà altrove, andrà a deviare, prenderà direzioni inattese per realizzarsi in una serie di modificazioni, di micro-trasformazioni successive corroborate dal lavoro in serie. Costante resta la preoccupazione di indagare la discordanza interna al sistema dei volti e all’organizzazione dei corpi, la disarmonia ricercata nelle proporzioni o nell’isolamento di singole parti, il “fuori norma” compreso come altra estetica possibile.   Sono forme scomposte, demoltiplicate nella ripetizione, uscite dai cardini, scardinate dal meccanismo con parti che partono in tutte le direzioni.
Sono escrescenze, protuberanze, forme che si ergono sessualmente, teste che crollano a lato, teste che prendono il sopravvento e occupano tutto lo spazio della tela, masse, blocchi e poi la loro scomposizione, infiltrazione in altre griglie figurali. Ventri rigonfiati,  corpi assottigliati, masse energetiche che prendono il sopravvento su altre, ora frammenti singoli di teste, arti, un braccio o una gamba, figure dilatate in esterno o affilate in verticale, frammenti sparpagliati di qualcosa che ha perduto la propria unità.

Negli anni novanta sono le sculture fatte di frammenti smisurati, di parti di corpo ingigantite e isolate riprese brutalmente a tempera. “Teste e torsi rossi” giocano sulla dissimmetria ingigantita della figura  nell’amputazione di alcune membra, nella dissonanza incongrua d’ attributi femminili su corpi maschili o viceversa. Seni su un torso d’uomo in “Mannlicher torso”,  indici femminili violentemente sottolineati dal colore primario rinviano al tema di una sorta di reversibilità tra i sessi o androginia originaria che attraversa  questa fase del lavoro come ulteriore esplorazione sull’ibridità figurata  tra i sessi.

“Sonderling eccentrico” del 1993 é un viso che letteralmente esce dal proprio centro, si squaderna, si sposta, si“scom-posiziona”, sembra aver ricevuto questa scossa che d’un tratto lo smuove leggermente dai propri tratti, lo mette virtualmente fuori di sé pur restando nella cornice apparente della figura, nel confine tracciato del volto. In una versione successiva i tratti sono letteralmente spostati su un lato in una sovrapposizione grottesca dei medesimi sul contorno del viso. Emerge la portata incisiva del segno preso in questa lotta violenta sui visi contraffati e ancora, il disaccordo tra l’energia, la mobilità del fondo e il contorno fissato della figura.

La scultura in Baselitz è quello che da una forma tangibile, manifesta in uno spazio esterno a un’energia interna,
ciò che mette in vibrazione la materia, la attiva, la rende presente, d’  una presenza unica nello spazio nel confronto, nel corpo a corpo inevitabile, nella lotta quasi tra l’individuo, l’informe del legno allo stato grezzo o il suo presentarsi come blocco monolitico e indeterminato.

Aggredire, scavare, incidere, lasciare segni, spazio fisico abitato, spazio plastico intaccato, discendere, cercare il vuoto dal pieno, rigare, tagliare, intagliare,
togliere anziché aggiungere, tale la via aperta da Baselitz. E ancora, è l’approccio violento che stravolge e rovescia là dove il lavoro plastico tradizionalmente si vuole come un dare forma, un levigare e affinare, il comporre con un modello ideale. La scultura in Baselitz è un  linguaggio molto più fisico e primordiale, è infine questo “in-finire la materia”, renderla non-finita, metterne in gioco un’energia che si renderà a sua volta in una forma unica, a lei sola.

“Folk Ding Zero”, 2009  








“Autoritratto in forma di Cristo derisorio e sublime”. Desacralizza quella che potrebbe essere la postura meditativa , la posizione tragica e greve del “pensatore di Rodin” alla quale pure si ispira aggiungendo attributi fortemente sessuati, ironici, ludici o depersonalizzanti, un cappellino con la parola “zero”, scarpe da donna a tacchi alti. Autoritratto all’ennesima potenza in questo paradosso tra il gigantismo, la massa della forma espansa in un esubero di sé, la massa di questa testa possente, presente, ultra-pesante raccolta in meditazione ed elementi discordanti, indici sessuali, infantili o giocosi che disobbediscono all’insieme, desacralizzano e riportano l’identità greve del pensatore alla misura del bambino o a quella dell’artista in ironico auto-distacco.  



martedì 17 gennaio 2012

Sul film « Corpo Celeste », di Alice Rohrwacher




« Corpo celeste », quello cercato, sognato, desiderato, scrutato da vicino allo specchio giorno dopo giorno, interrogato nelle sue mutazioni costanti per la protagonista  tredicenne nel film. Questo corpo adolescente alla ricerca di sé, nella mutazione, nel processo di crescita, di divenire adulto con tutte le perturbazioni che tale passaggio può implicare.


E’ ancora lo sguardo « celeste » di Marta nel film, vestito d'una purezza, d'un candore di ricerca, di raggiustamento non cinico né corrotto, non assuefatto né contaminato  alla realtà sociale degradata della cittadina  calabrese dove la famiglia decide di trasferirsi .














Un paesino nell' Italia del sud vicino a Reggio Calabria dove Marta, con la madre e la sorella, é ritornata dopo lunghi anni passati all'estero. La protagonista, adolescente, é confrontata al difficile sforzo di adattamento alla nuova realtà in un quotidiano sordido sullo sfondo d’un sud preda della precarietà e dell’indigenza.

Dall’alto dei palazzi scruta la città in sopra-rilievo come fosse un paesaggio irriconoscibile, l’anonimato d’una terra straniera . A distanza,  appare l’invasione dominante del cemento nel pieno-vuoto delle costruzioni, nella proliferazione grigiastra del loro non-finito , nell’espansione indeterminata, a perdita d’occhio delle periferie urbane.


La città si disegna come un cantiere in abbandono in un sud anestetizzato dove scheletri di case e quartieri popolari sono lasciati a un stato di indeterminata sospensione.

La registra sceglie di mostrare una realtà più intima, più vicina a quella osservata, vissuta nel quotidiano, ricondotta infine all’esperienza della ragazzina: percezione a vivo, microcosmo altamente soggettivo di una comunità dove il modo di operare della politica si estende all’organizzazione sociale come a quella della chiesa. Filma un’ Italia dall’impronta fortemente berlusconiana, l’Italia “delle caste  e delle cricche”, dei “cortigiani e dei ladroni” nella definizione di Giorgio Bocca, un paese che si è seduto,  ha incrociato le braccia e ha smesso di lottare, o forse solo di credere in qualsiasi cosa, e così ha cominciato a declinare, a morire o a lasciarsi morire. Quello di Marta é uno sguardo che viene da fuori, estraneo, non parte, posizionato in una zona di dislocazione  rispetto alla realtà data in primo luogo perché precipitato da un’altrove inimmaginabile rispetto a questo sud,  poi portando con sé il disagio e l’inquietudine dell’adolescenza, il malessere o meglio la difficoltà d'essere d'ogni cambiamento di stato, a sé, agli altri, al proprio corpo.



La preparazione alla cresima per l' adolescente innesca il processo di messa a nudo di d’una realtà sociale e religiosa dal corpo molto meno ideale, “celeste” di quello che la promessa apparente lascerebbe intuire.  La religione  é ricondotta, qui, all’esteriorità dei rituali, nell'omologazione di codici e linguaggi alla televisione e alla politica: preti politicizzanti ben aggiustati al sistema , balletti di salsa preparati dalle bambine per intrattenere il vescovo, maquillage e elaborati cambi d’abito per la “cerimonia” della cresima. E ancora, sono i quiz e giochi a premi  dal piccolo schermo per inculcare ad adolescenti annoiati i dogmi della fede, infine lo schiaffo lanciato con violenza sul volto di Marta  nella crociata fervente d’una catechista per salvare il suo esercito di soldati  alla deriva.



In una delle immagini più belle del film la ragazzina cammina ai bordi d’una strada lasciandosi alle spalle i blocchi di cemento anonimi dell’ammasso urbano, gli edifici a metà costruiti, il grigiore delle impalcature sospese sull’asfalto riempito di cartacce, rifiuti, e foglie violentemente spazzate via dal vento. Scappa via correndo ai lati  d’una strada provinciale trafficata, sotto le raffiche mosse da camion e auto, il vento contro. E’ uno sguardo puro, trasparente non intaccato come la maggior parte della realtà e degli individui che la circondano, l’immagine d’ occhi bendati avanzando alla cieca, volti verso l’alto, ma, anche, la vulnerabilità e il non-sapere che l’adolescenza come processo di definizione implica. Sguardo soggettivo, velato di solitudine, separato rispetto a una comunità di cui cerca di decodificare i codici, i meccanismi di funzionamento per farne parte, poi non volendo più deliberatamente farne parte per averne toccato con mano la falsità, l’ipocrisia, l’ambiguità delle pratiche sociali e religiose.

Solitudine e difficoltà d’essere in questa realtà rendono l’estraniamento del punto di vista scelto ancora più acuto e percettibile. La camera, attraverso gli occhi, di Marta assiste, misura, osserva sottilmente gli avvenimenti, gli individui e le loro derive quotidiane. Della regista é lo sguardo sul presente dell’Italia d’oggi, constatazione e insieme contestazione, implicita, inevitabile, d’un certo stato di cose.




Un grido risuona alla fine del film, un grido di rivolta, di rabbia, di ribellione incarnato dalle parole d’un vecchio religioso solitario, grido proveniente da un altro luogo del sacro, dall’assoluto d’un messaggio dimenticato, tali le parole del Cristo pronunciate ai piedi della croce di cui la bambina continua a chiedere con insistenza la traduzione senza che nessuno sappia risponderle.
 “Eli, éli lama sabachtana,  Dio mio perché mi hai abbandonato”, esiste ancora un modo, un altro modo di credere, di sperimentare il sacro oltre l’esteriorità dei rituali e “l’intonaco bianco”delle facciate? Le sue parole si levano come un grido violento di risveglio contro un paese addormentato, un tessuto sociale atrofizzato, ronfante al rumore dei televisori, al suono dei telefonini, agli schiamazzi vuoti dei politicanti, sottomesso al gioco del tornaconto personale, della piccola corruttela per sopravvivere al quotidiano, nella precarietà ambiante e nel potere sempre più lasciato alle mani dei pochi.  E la piccola comunità di Roghudi, ne diviene la carta di tornasole, il micro-cosmo dove tale stato di cose é osservato al più da vicino.   

« Corpo celeste », è, infine, anche, il corpo d’una « quête spirituelle » malgrado tutto, del bisogno di spiritualità nel luogo nella sua assenza, all'immagine del crocifisso che il prete e la ragazzina andranno a prendere nella chiesa d'un villaggio vicino per celebrare la messa della cresima. Coperto di polvere e di detriti, dissepolto tra le macerie d’una chiesa disertata, inevitabilmente precipiterà nelle acque del fiume prima di poter arrivare a destinazione, portato via, lavato, terso dalle sue correnti. 
 Segni o indici poetici disseminati qua e là nel corso del film scintillano come sprazzi nell’oscurità generale del quadro aprendo la via  a un'altra possibilità o modo di guardare il mondo, più luminoso, più autentico, più umano: dalla percezione acuta, estraniata fatta della vulnerabilità e dei sogni di un’adolescente,  ai  canti popolari di vecchie donne calabresi tramandate di generazione in generazione, alla bellezza di alcuni scorci  a strapiombo sul mare, all’immagine, infine, del Cristo portato via dalle acque .  E’ il senso magico d’una dimensione religiosa segreta, fantasiosa, nata dal bisogno di credere, dalla ricerca d’una via spirituale propria che riemerge come visione in solitudine sul conformismo e l’ipocrisia dominanti.



sabato 7 gennaio 2012

Zon-Mai, installazione, Sidi Larbi Cherkaoui, Gilles Delmas ( Parigi, Musée de la Porte Dorée)


 " Le immagini sono  ovunque intorno a noi, sui muri, i pavimenti, il tavolo da lavoro, sugli scaffali stracolmi di libri e nei libri pieni di fotografie .. C’ è là un sentore di felicità,  di candore e silenzio, la purezza forse di un tempo altro.."



Viviamo nelle città, le città vivono in noi. Ci spostiamo da un luogo all’altro, cambiamo d’abito tanto rapidamente quanto d’opinione, di faccia o di linguaggio. Abitiamo in qualsiasi luogo, facciamo qualsiasi lavoro, siamo persone qualunque in mezzo alla gente; ci muoviamo nella continuità spazio-temporale del presente, nel tessuto urbano e collettivo delle città come in quello elettronico e virtuale delle interconnessioni globali . Le immagini si moltiplicano intorno a noi, numeriche, digitali, create o sintetizzate al computer prendendo il posto dei tiraggi cartacei tradizionali,delle fotografie o i ritratti. Ugualmente  le immagini del passato venendo a sovrapporsi, a confondersi ad altre virtualmente affacciatesi dal futuro alle soglie del presente. 















“Zon-mai”, istallazione   

Una casa trasparente,  traslucida, senza porte né finestre  all’esterno; sui suoi muri liquidi, velati, immagini video si susseguono, scivolano l'una nell'altra, scorrono in sequenza ininterrotta  in montaggio video singolo, in taglio e ripetizione di sequenze su quattro schermi identici, si estendono su tutto lo spazio della casa ideata per l’installazione, sui tetti come sulle facciate, fino a fare eco nei muri esterni della hall immensa nell’oscurità.  Risalgono dal suolo alle pareti per  dileguare, scomparire in circolo ininterrotto, a ripetizione .
 Installazione  concepita per lunghe sequenze filmiche in moto continuo  seguendo il flusso emozionale che le porta: moto ipnotico, ripetitivo, incantatorio, cerchio perfetto di punti equidistanti da un centro dove puoi scegliere di entrare e uscire ad ogni istante, in qualsiasi punto, attraversare, prendere parte e poi di nuovo allontanarti. Circuito reale o onirico  con   montaggio a tagli  ritmici  sul continuo della partitura visiva in corso . 
Il movimento é 'potenzialmente infinito, prosegue di fuori, oltre il limite dello schermo, della telecamera in modo che essa,  virtualmente  puo' scegliere di seguirne il flusso, d’arrestarlo, d’“andare con”, andare “contro”, fare tagli casuali, incisioni ritmiche creando sospensioni sull’azione. Giustapporre o fare scontrare immagini apprentemente estranee e incomunicanti, creare similitudini paradossali o seguire il filo della disgiunzione ritmica;  ancora, creare rapporti di forze tra immagini apparentemente disgiunte, estranee in modo da aprire il campo della visione, il campo analogico della libera associazione.

Una casa tridimensionale lasciata all’istante vivente del singolo, all’immagine che viene a sorprenderla, liscia, trasparente, disabitata eppure popolata di presenze sui muri, fantomatiche, senza rilievo sugli schermi-veli che ne costituiscono la pelle esterna. Interdizione ad entrare: le immagini sono proiettate all’esterno in captazioni video che estraniano residui d'esperienza attraverso singole presenze.

Le costrizioni, i limiti, gli ostacoli posti dagli spazi chiusi, dagli interni dei  monolocali,  degli appartamenti,  delle camere da letto. Chiusi all'interno, presi dentro questi spazi ridotti, limitati ma anche abituali, spazi dell’intimo come possono esserlo  i luoghi che si sceglie di abitare, di investire con la propria presenza ma, anche, la gabbia dell’intimo nella quale si  rischia di restare intrappolati, barrati dentro, qui l’edificio liscio, unico, in continuità visiva il cui solo accesso diviene la proiezione delle immagini video . La costrizione del  piccolo o del troppo pieno, il rapporto tra intimo e esterno, tra l’esposizione e la ritrazione del sé, il gesto che rende lo spazio abitato, quello che appartiene al nostro vivere quotidiano  e quello che interroga o lotta contro il nostro senso di perdita, di non-appartenenza. Condizioni imprescindibili con le quali dover comporre, fare  “con” o fare “contro” nel processo di improvvisazione e scrittura coreografica di Zon-Mai.

Danzare nel proprio spazio, o inscrivere il proprio spazio attraverso la danza.
 Stanza da letto, camera, cucina, studio o appartamento, ci si muove all’interno della propria casa-corpo, la prima dimora, il primo luogo di identità o lotta per la propria appartenenza. I ritratti individuali ci guidano all'interno di queste stanze, energie diversissime  le abitano, lingue e culture tra le più distanti,  africane, indiane, europee o nordiche. La dimora come luogo di stabilità e appartenenza diviene, allora, luogo di transizione, di ridefinizione e ricerca di un sé identitario  nella costante di un'estraneità sentita, vissuta e attraversata: l'estraneità geografica e fisica della migrazione ma anche quella mentale e spirituale dell'individuo posto di fronte alla propria interna inconoscibilità, qui la figura dell' altro che danza nel luogo dell'io. 

Sradicamento e de-territorializzazione  sono le condizioni che aprono   alla ricerca di nuove possibilità identitarie. “Chez soi”, la nozione di appartenenza,   la  domanda dov' é "qui", che cos'é “ora”,  chi é “io”, che cosa significa “casa”, diventa, nella serie di questi ritratti, riterritorializzarsi, riaffermare, cogliere, raccogliere sé stessi, primariamente nel proprio involucro-corpo, primo luogo di lotta e affermazione del sé  per il danzatore.  Captazioni video suggeriscono la libertà di tracciare linee identitarie singolari, nomadiche, espressive,  linee di fuga sovversive, io corpo-pensiero, moi, ego in lotta  contro me stesso per riaffermarmi nella perdita spazio-temporale, alla ricerca d'un mio proprio modo d'essere, un pensiero in movimento incarnato nella mia esistenza sensibile, fisica e significante

Immagini dalla “Zon-Mai”


Un danzatore burkinese si muove in trance sotto l'effetto d'una cantica medievale reinterpretata in francese dalla voce d'una cantante libanese. Una strana armonia si crea tra il ritmo cadenzato, veloce, ripetitivo del danzatore africano, la testa gettata all'indietro in abbandono sul corpo, la schiena inarcata, le ginocchia leggermente piegate, un respiro, un'apertura, un'estromissione gridata verso l'esterno e questa melodia proveniente dal passato irrompendo nello spazio neutro della scena. La magnifica "impurezza” o mescolanza di cui essa si fa portatrice, all’immagine della nostra realtà attuale. La sua danza attinge alla forza del suolo in un battito ritmico continuo fino quasi a provocare o indurre una trance attraverso il movimento, abbracciando questa sorta di grande respiro rivolto verso l’esterno nel disordine della materia impura, mischiata che lo compone.





















Si ravvolge su sé stessa simile a conchiglia, nasconde la testa dentro l’involucro-corpo, assume, incorpora su sé la costrizione, il limite dello spazio ridotto, intimo, occluso della cucina in cui si trova ad agire. Investe l’ambiente con tale condizione di rimpicciolimento, di riduzione e insieme di rifugio. Si incastra come nucleo-cellula tra i mobili e le sedie, resta impigliata tra gli scaffali e il lavello, si infila sotto il tavolo, agli angoli della stanza, si rannicchia con la testa tra le gambe e cosi’ avanza infiltrandosi negli interstizi lasciati aperti dai volumi.




In un appartamento ampio, spazioso e ben arredato una giovane donna si concentra unicamente, con ostinazione quasi, su una una porta-finestra rimasta chiusa. Danza contro un vetro con movimenti leggeri e sensuali, gesti di mani e braccia nella staticità immobile del corpo richiamando alcuni motivi delle danze ritualizzate indiane. Le sue mani urtano il vetro, lo sfiorano, cercano con gesti acuti, accurati, precisi eppure incommensurabilmente lievi, l’apertura verso l’esterno, la luce, il passaggio verso il di fuori.


Di fronte a un portone chiuso, di fronte alla facciata squadrata, intonacata di bianco d’un edificio incorniciato dalla scritta Mauritania, un uomo si muove in un andirivieni frenetico di passi all'avanti e all'indietro. Poi, una scala appoggiata contro il muro, l’uomo sospeso tra il cielo e la terra, cerca un’apertura verso l’alto. si arrampica invano restando impigliato in mezzo alla parete, lui macchia nera contro lo sfondo bianco della barriera invalicabile sul fondo.



Dentro i limiti ristretti d’una stanza cerca la sua via d’espansione, sollevandosi dal suolo per raggiungere la verticale. Lo spazio ristrettissimo, i movimenti, ripresi a distanza ravvicinata dall’alto sono indotti, ritagliati forzatamente entro quello .



Una donna, al suolo, distesa sul pavimento del bagno. La traspirazione della sua pelle, il sudore, la qualità liquida del corpo, l’acqua ovunque intorno. Divincolandosi, attraverso gli ostacoli che ostruiscono il suo cammino, si solleva a poco a poco dal suolo per ritrovare la posizione eretta, in piedi, le braccia aperte in invocazione di fronte allo specchio ora .
Il corpo a metà madido di sudore o d’acqua striscia fuori dai limiti del basso per riguadagnare l’ampiezza, il pieno potenziale della sua estensione aprendosi, braccia e torso in preghiera.




In un appartamento vuoto la lotta di due corpi opposti come due chiazze di colore, rosso e nero. Un uomo e una donna, tra violenza e attrazione, contatto e repulsione, passano senza sosta dalla lotta fusionale alla separazione. Qui nell’incontro tra i due, il contatto sensuale parte da un lembo di tessuto, il margine d’un abito dal quale uno trascina, coinvolge l’altro, lo costringe quasi a forza caricandolo sulle sue spalle, portandolo in massa su sé. Seguono sovrapposizioni, passaggi violenti di peso, zone di contatto sensuale, di lotta intima, di continuità tra le masse dei corpi, poi violente separazioni, cadute al suolo, allontanamenti dell’uno o dell’altro, corpi abbandonandosi in sospensione immobile e di nuovo ripresa, ricerca di contatto con l’altro.




In una stanza riempita di scatole e cartoni pronti per un trasloco o appena arrivati da un’altrove, gesti di mani raccontano storie di spostamenti, migrazioni e solitudini, di partenze e ritorni al passato, gesti ora rabbiosi e brevi alla ricerca di quiete, ora lenti e sinuosi convocando la forma d’una nuova armonia.





Ancora al suolo, in una stanza da letto una donna si ravvolge, un involucro tra le braccia, evocando la presenza del figlio appena nato. Le sue movenze, dalla tenerezza all’abbandono , dal gesto avvolgente dell’abbraccio alle contorsioni lente, delicate al suolo stringendo l’involucro tra le braccia ritrovano l’appartenenza, la dimora identitaria nella stretta del corpo materno .








Di fronte a una libreria immensa coprendo tutta la parete della stanza, il volto della ragazza è coperto da una spessa cortina di capelli neri. Contro la libreria seduta, le gambe incrociate in posizione immobile e silenziosa. Solo le mani si muovono in linguaggio muto disegnando strane figure astratte in aria. Si intrecciano, s’annodano l’una all’altra, iscrivono lo spazio di fronte al volto, si allontanano infine in parti separate. La destra tenta di liberare il viso, capelli ricadono in avanti, ora la sinistra, invano. Solo quando i movimenti tra le due mani saranno perfettamente simmetrici, quando le intenzioni tra le braccia e il capo saranno perfettamente coordinate, il viso sarà definitivamente scoperto, liberato, portato alla luce.



Ancora nel soggiorno d’un appartamento di fronte a una libreria stracolma di volumi e oggetti, un giovane uomo cerca di dire attraverso azioni semplicissime qualcosa a un altro li’ seduto a guardarlo, semi-addormentato pare. La testa tra le mani, si infiltra dentro l’anta di un armadio, incorre in scaffali ricolmi d’oggetti, si insinua in passaggi stretti, difficoltosi per il corpo, finisce inghiottito dal mobilio pesante, o arrestato dalle estremità della stanza. Cerca invano un dialogo con l’altro immobile a guardarlo, si allunga infine contro il suo torso, sfiorandolo, avvolgendolo con le proprie braccia.














Su un tappeto rosso, un danzatore solitario sfiora il suolo per trovare nuovo slancio e rimbalzare dalla superficie verso l’alto, saltare e precipitare di nuovo utilizzando il pavimento come leva, come appoggio nella propulsione e ritorno costante alla terra, simile a molla impazzita d’un meccanismo a ripetizione.  





Abita il tempo presente con l’ ironia noncurante di passi leggeri portando campanelli ai suoi piedi, risuonanti come eco proveniente dalle sue caviglie. Nella ristrettezza del luogo, l’angolo d’una cucina, riesce a fare del tempo presente la sua dimora, abitare lo spazio con la sua danza.



Con gesti di braccia violentemente volti verso il centro, lotta al suolo presa da scosse frenetiche, da pause improvvise, da attimi di sospensione dolorosa. Sbatte contro il bordo del letto, inciampa, cade, si solleva, grida il capo a metà coperto d’un lenzuolo, poi si ferma in silenzio. E’ figura di profilo nel charoscuro d’ombra, trasparente contro la tenda della finestra.



Danza sulle soglie, agli ingressi degli appartamenti, tra l’ingresso e la porta d’entrata, entrando e uscendo senza sosta, senza luogo fisso dalla propria dimora. Danza in spostamento costante, in décalage da sé stessa, in dislocazione apparente rispetto alla propria esistenza, nell’apertura, nel ritmo, nel circuito tra interno e esterno del corpo, nelle zone di passaggio spostandosi in un eterno andirivieni alla ricerca di sé stessa.