sabato 7 gennaio 2012

Zon-Mai, installazione, Sidi Larbi Cherkaoui, Gilles Delmas ( Parigi, Musée de la Porte Dorée)


 " Le immagini sono  ovunque intorno a noi, sui muri, i pavimenti, il tavolo da lavoro, sugli scaffali stracolmi di libri e nei libri pieni di fotografie .. C’ è là un sentore di felicità,  di candore e silenzio, la purezza forse di un tempo altro.."



Viviamo nelle città, le città vivono in noi. Ci spostiamo da un luogo all’altro, cambiamo d’abito tanto rapidamente quanto d’opinione, di faccia o di linguaggio. Abitiamo in qualsiasi luogo, facciamo qualsiasi lavoro, siamo persone qualunque in mezzo alla gente; ci muoviamo nella continuità spazio-temporale del presente, nel tessuto urbano e collettivo delle città come in quello elettronico e virtuale delle interconnessioni globali . Le immagini si moltiplicano intorno a noi, numeriche, digitali, create o sintetizzate al computer prendendo il posto dei tiraggi cartacei tradizionali,delle fotografie o i ritratti. Ugualmente  le immagini del passato venendo a sovrapporsi, a confondersi ad altre virtualmente affacciatesi dal futuro alle soglie del presente. 















“Zon-mai”, istallazione   

Una casa trasparente,  traslucida, senza porte né finestre  all’esterno; sui suoi muri liquidi, velati, immagini video si susseguono, scivolano l'una nell'altra, scorrono in sequenza ininterrotta  in montaggio video singolo, in taglio e ripetizione di sequenze su quattro schermi identici, si estendono su tutto lo spazio della casa ideata per l’installazione, sui tetti come sulle facciate, fino a fare eco nei muri esterni della hall immensa nell’oscurità.  Risalgono dal suolo alle pareti per  dileguare, scomparire in circolo ininterrotto, a ripetizione .
 Installazione  concepita per lunghe sequenze filmiche in moto continuo  seguendo il flusso emozionale che le porta: moto ipnotico, ripetitivo, incantatorio, cerchio perfetto di punti equidistanti da un centro dove puoi scegliere di entrare e uscire ad ogni istante, in qualsiasi punto, attraversare, prendere parte e poi di nuovo allontanarti. Circuito reale o onirico  con   montaggio a tagli  ritmici  sul continuo della partitura visiva in corso . 
Il movimento é 'potenzialmente infinito, prosegue di fuori, oltre il limite dello schermo, della telecamera in modo che essa,  virtualmente  puo' scegliere di seguirne il flusso, d’arrestarlo, d’“andare con”, andare “contro”, fare tagli casuali, incisioni ritmiche creando sospensioni sull’azione. Giustapporre o fare scontrare immagini apprentemente estranee e incomunicanti, creare similitudini paradossali o seguire il filo della disgiunzione ritmica;  ancora, creare rapporti di forze tra immagini apparentemente disgiunte, estranee in modo da aprire il campo della visione, il campo analogico della libera associazione.

Una casa tridimensionale lasciata all’istante vivente del singolo, all’immagine che viene a sorprenderla, liscia, trasparente, disabitata eppure popolata di presenze sui muri, fantomatiche, senza rilievo sugli schermi-veli che ne costituiscono la pelle esterna. Interdizione ad entrare: le immagini sono proiettate all’esterno in captazioni video che estraniano residui d'esperienza attraverso singole presenze.

Le costrizioni, i limiti, gli ostacoli posti dagli spazi chiusi, dagli interni dei  monolocali,  degli appartamenti,  delle camere da letto. Chiusi all'interno, presi dentro questi spazi ridotti, limitati ma anche abituali, spazi dell’intimo come possono esserlo  i luoghi che si sceglie di abitare, di investire con la propria presenza ma, anche, la gabbia dell’intimo nella quale si  rischia di restare intrappolati, barrati dentro, qui l’edificio liscio, unico, in continuità visiva il cui solo accesso diviene la proiezione delle immagini video . La costrizione del  piccolo o del troppo pieno, il rapporto tra intimo e esterno, tra l’esposizione e la ritrazione del sé, il gesto che rende lo spazio abitato, quello che appartiene al nostro vivere quotidiano  e quello che interroga o lotta contro il nostro senso di perdita, di non-appartenenza. Condizioni imprescindibili con le quali dover comporre, fare  “con” o fare “contro” nel processo di improvvisazione e scrittura coreografica di Zon-Mai.

Danzare nel proprio spazio, o inscrivere il proprio spazio attraverso la danza.
 Stanza da letto, camera, cucina, studio o appartamento, ci si muove all’interno della propria casa-corpo, la prima dimora, il primo luogo di identità o lotta per la propria appartenenza. I ritratti individuali ci guidano all'interno di queste stanze, energie diversissime  le abitano, lingue e culture tra le più distanti,  africane, indiane, europee o nordiche. La dimora come luogo di stabilità e appartenenza diviene, allora, luogo di transizione, di ridefinizione e ricerca di un sé identitario  nella costante di un'estraneità sentita, vissuta e attraversata: l'estraneità geografica e fisica della migrazione ma anche quella mentale e spirituale dell'individuo posto di fronte alla propria interna inconoscibilità, qui la figura dell' altro che danza nel luogo dell'io. 

Sradicamento e de-territorializzazione  sono le condizioni che aprono   alla ricerca di nuove possibilità identitarie. “Chez soi”, la nozione di appartenenza,   la  domanda dov' é "qui", che cos'é “ora”,  chi é “io”, che cosa significa “casa”, diventa, nella serie di questi ritratti, riterritorializzarsi, riaffermare, cogliere, raccogliere sé stessi, primariamente nel proprio involucro-corpo, primo luogo di lotta e affermazione del sé  per il danzatore.  Captazioni video suggeriscono la libertà di tracciare linee identitarie singolari, nomadiche, espressive,  linee di fuga sovversive, io corpo-pensiero, moi, ego in lotta  contro me stesso per riaffermarmi nella perdita spazio-temporale, alla ricerca d'un mio proprio modo d'essere, un pensiero in movimento incarnato nella mia esistenza sensibile, fisica e significante

Immagini dalla “Zon-Mai”


Un danzatore burkinese si muove in trance sotto l'effetto d'una cantica medievale reinterpretata in francese dalla voce d'una cantante libanese. Una strana armonia si crea tra il ritmo cadenzato, veloce, ripetitivo del danzatore africano, la testa gettata all'indietro in abbandono sul corpo, la schiena inarcata, le ginocchia leggermente piegate, un respiro, un'apertura, un'estromissione gridata verso l'esterno e questa melodia proveniente dal passato irrompendo nello spazio neutro della scena. La magnifica "impurezza” o mescolanza di cui essa si fa portatrice, all’immagine della nostra realtà attuale. La sua danza attinge alla forza del suolo in un battito ritmico continuo fino quasi a provocare o indurre una trance attraverso il movimento, abbracciando questa sorta di grande respiro rivolto verso l’esterno nel disordine della materia impura, mischiata che lo compone.





















Si ravvolge su sé stessa simile a conchiglia, nasconde la testa dentro l’involucro-corpo, assume, incorpora su sé la costrizione, il limite dello spazio ridotto, intimo, occluso della cucina in cui si trova ad agire. Investe l’ambiente con tale condizione di rimpicciolimento, di riduzione e insieme di rifugio. Si incastra come nucleo-cellula tra i mobili e le sedie, resta impigliata tra gli scaffali e il lavello, si infila sotto il tavolo, agli angoli della stanza, si rannicchia con la testa tra le gambe e cosi’ avanza infiltrandosi negli interstizi lasciati aperti dai volumi.




In un appartamento ampio, spazioso e ben arredato una giovane donna si concentra unicamente, con ostinazione quasi, su una una porta-finestra rimasta chiusa. Danza contro un vetro con movimenti leggeri e sensuali, gesti di mani e braccia nella staticità immobile del corpo richiamando alcuni motivi delle danze ritualizzate indiane. Le sue mani urtano il vetro, lo sfiorano, cercano con gesti acuti, accurati, precisi eppure incommensurabilmente lievi, l’apertura verso l’esterno, la luce, il passaggio verso il di fuori.


Di fronte a un portone chiuso, di fronte alla facciata squadrata, intonacata di bianco d’un edificio incorniciato dalla scritta Mauritania, un uomo si muove in un andirivieni frenetico di passi all'avanti e all'indietro. Poi, una scala appoggiata contro il muro, l’uomo sospeso tra il cielo e la terra, cerca un’apertura verso l’alto. si arrampica invano restando impigliato in mezzo alla parete, lui macchia nera contro lo sfondo bianco della barriera invalicabile sul fondo.



Dentro i limiti ristretti d’una stanza cerca la sua via d’espansione, sollevandosi dal suolo per raggiungere la verticale. Lo spazio ristrettissimo, i movimenti, ripresi a distanza ravvicinata dall’alto sono indotti, ritagliati forzatamente entro quello .



Una donna, al suolo, distesa sul pavimento del bagno. La traspirazione della sua pelle, il sudore, la qualità liquida del corpo, l’acqua ovunque intorno. Divincolandosi, attraverso gli ostacoli che ostruiscono il suo cammino, si solleva a poco a poco dal suolo per ritrovare la posizione eretta, in piedi, le braccia aperte in invocazione di fronte allo specchio ora .
Il corpo a metà madido di sudore o d’acqua striscia fuori dai limiti del basso per riguadagnare l’ampiezza, il pieno potenziale della sua estensione aprendosi, braccia e torso in preghiera.




In un appartamento vuoto la lotta di due corpi opposti come due chiazze di colore, rosso e nero. Un uomo e una donna, tra violenza e attrazione, contatto e repulsione, passano senza sosta dalla lotta fusionale alla separazione. Qui nell’incontro tra i due, il contatto sensuale parte da un lembo di tessuto, il margine d’un abito dal quale uno trascina, coinvolge l’altro, lo costringe quasi a forza caricandolo sulle sue spalle, portandolo in massa su sé. Seguono sovrapposizioni, passaggi violenti di peso, zone di contatto sensuale, di lotta intima, di continuità tra le masse dei corpi, poi violente separazioni, cadute al suolo, allontanamenti dell’uno o dell’altro, corpi abbandonandosi in sospensione immobile e di nuovo ripresa, ricerca di contatto con l’altro.




In una stanza riempita di scatole e cartoni pronti per un trasloco o appena arrivati da un’altrove, gesti di mani raccontano storie di spostamenti, migrazioni e solitudini, di partenze e ritorni al passato, gesti ora rabbiosi e brevi alla ricerca di quiete, ora lenti e sinuosi convocando la forma d’una nuova armonia.





Ancora al suolo, in una stanza da letto una donna si ravvolge, un involucro tra le braccia, evocando la presenza del figlio appena nato. Le sue movenze, dalla tenerezza all’abbandono , dal gesto avvolgente dell’abbraccio alle contorsioni lente, delicate al suolo stringendo l’involucro tra le braccia ritrovano l’appartenenza, la dimora identitaria nella stretta del corpo materno .








Di fronte a una libreria immensa coprendo tutta la parete della stanza, il volto della ragazza è coperto da una spessa cortina di capelli neri. Contro la libreria seduta, le gambe incrociate in posizione immobile e silenziosa. Solo le mani si muovono in linguaggio muto disegnando strane figure astratte in aria. Si intrecciano, s’annodano l’una all’altra, iscrivono lo spazio di fronte al volto, si allontanano infine in parti separate. La destra tenta di liberare il viso, capelli ricadono in avanti, ora la sinistra, invano. Solo quando i movimenti tra le due mani saranno perfettamente simmetrici, quando le intenzioni tra le braccia e il capo saranno perfettamente coordinate, il viso sarà definitivamente scoperto, liberato, portato alla luce.



Ancora nel soggiorno d’un appartamento di fronte a una libreria stracolma di volumi e oggetti, un giovane uomo cerca di dire attraverso azioni semplicissime qualcosa a un altro li’ seduto a guardarlo, semi-addormentato pare. La testa tra le mani, si infiltra dentro l’anta di un armadio, incorre in scaffali ricolmi d’oggetti, si insinua in passaggi stretti, difficoltosi per il corpo, finisce inghiottito dal mobilio pesante, o arrestato dalle estremità della stanza. Cerca invano un dialogo con l’altro immobile a guardarlo, si allunga infine contro il suo torso, sfiorandolo, avvolgendolo con le proprie braccia.














Su un tappeto rosso, un danzatore solitario sfiora il suolo per trovare nuovo slancio e rimbalzare dalla superficie verso l’alto, saltare e precipitare di nuovo utilizzando il pavimento come leva, come appoggio nella propulsione e ritorno costante alla terra, simile a molla impazzita d’un meccanismo a ripetizione.  





Abita il tempo presente con l’ ironia noncurante di passi leggeri portando campanelli ai suoi piedi, risuonanti come eco proveniente dalle sue caviglie. Nella ristrettezza del luogo, l’angolo d’una cucina, riesce a fare del tempo presente la sua dimora, abitare lo spazio con la sua danza.



Con gesti di braccia violentemente volti verso il centro, lotta al suolo presa da scosse frenetiche, da pause improvvise, da attimi di sospensione dolorosa. Sbatte contro il bordo del letto, inciampa, cade, si solleva, grida il capo a metà coperto d’un lenzuolo, poi si ferma in silenzio. E’ figura di profilo nel charoscuro d’ombra, trasparente contro la tenda della finestra.



Danza sulle soglie, agli ingressi degli appartamenti, tra l’ingresso e la porta d’entrata, entrando e uscendo senza sosta, senza luogo fisso dalla propria dimora. Danza in spostamento costante, in décalage da sé stessa, in dislocazione apparente rispetto alla propria esistenza, nell’apertura, nel ritmo, nel circuito tra interno e esterno del corpo, nelle zone di passaggio spostandosi in un eterno andirivieni alla ricerca di sé stessa.

  





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