venerdì 12 novembre 2021

“Essere umane, le grandi fotografe raccontano il mondo” (Musei san Domenico, Forlì)






Dagli anni trenta del novecento ad oggi un nuovo sguardo al femminile inizia a emergere e imporsi sulla scena della fotografia moderna, restituendo nel rispecchiamento di sè le trasformazioni culturali e sociali di un’epoca. Tale, il filo conduttore della mostra attualmente in corso ai Musei san Domenico di Forlì “Essere Umane” curata da Walter Guadagnini.  Il percorso ci conduce cronologicamente attraverso un viaggio per immagini dalla prima parte del secolo scorso ad oggi, dalle figure leggendarie della grande fotografia americana alle artiste che hanno segnato l’emergenza di una nuova coscienza femminista negli anni ‘70 e ’80 in Italia e altrove; si dà, infine, voce alle identità emergenti dalle culture extra-occidentali del XXI secolo.

Una moltitudine di sguardi di donne artiste si susseguono in questo  racconto per immagini dagli stili diversissimi dove dominante resta, tuttavia, il reportage sociale agli inizi del novecento, la rivalsa femminile degli anni ‘80 e, sempre più all’inizio del XXI secolo, le voci dell’alterità, della differenza in senso lato_ personale e politica_ che oltre gli stereotipi femminili restituiscono spazio all’ espressione e alla libertà individuale. Le più di trecento fotografie in mostra si pongono come indagine nuda,  in presa diretta sulla società  di ieri e di oggi, ma, anche,  aprono spazi di narrazione individuale e poetica per raccontare storie, le proprie, catturando scorci di vita intima attraverso le immagini.

 

La fotografia americana degli anni ’30 ( dal reportage alla street photography)

 

Dorothea Lang, “ Migrant Mother” (1936)

Il volto si staglia in primissimo piano, nitido, sobrio, profondamente segnato da linee e solchi sulla fronte. La donna appare intensamente presente nella sua inquietudine, lo sguardo duro, l’espressione seria e taciturna del volto mentre stringe a sé i figlioletti avvolti alle sue spalle, un terzo visceralmente cinto al suo corpo. Se ne sta lì statuaria, immobile in tale fermezza senza tempo come fosse un pilastro a sostenerli, a proteggerli contro ogni evenienza o calamità. Solo il suo volto appare al centro della foto, attorno al quale tutto sembra volgere, gravitare per trovare lì infine un proprio ordine, nella fermezza di quello sguardo, oltre l’ansito disperante di quel presente. 

L’immagine nasce come foto documentaria sull’indigenza e dei lavoratori agricoli in nord America all’inizio del secolo scorso ma giunge a noi come un grido di verità nudo e senza compromessi: lì in ogni andito del suo corpo, una madre con i figli protesi tra le sue braccia e la miseria scritta indelebilmente sul suo volto.

 

Lisette Model, “Coney Isle” ( 1939)

All’antecedente opposto la fotografia di Lisette Model denuncia la società newyorkese perbenista e decadente di inizio XX secolo agli albori del consumismo, cogliendo attraverso le strade nelle istantanee fotografiche l’imperfezione esasperata dei corpi, la loro gestualità grottesca o sguaiata, gli abiti volutamente appariscenti.

La donna, abnorme, distesa sulla sabbia in una saturazione di presenza esprime l’eccesso, l’esposizione decadente di sé  in primo piano nella posa eccentrica, nella nudità fantasmagorica della sua carne, nell’uso e l’abuso di ricchezza mostrata senza remore in primissimo piano.

 

Gisèle Freund , “Brighton” (1935)



Uomini in cilindro e torso nudo sul bagna-asciuga, altri con pantaloni di rispettabili abiti borghesi arrotolati al ginocchio; donne sedute al sole in cappello e costume balneare di inizio secolo . Seduti sulla spiaggia fredda e atona della costiera atlantica britannica nei pressi di Brighton, sono sorpresi a crogiolarsi nella mitezza dei primi soli estivi: spensierati, schivi, in parte imbarazzati nel mostrare la propria nudità, a metà ancora nell’abitus mentale rigido della loro status sociale.  La fotografa sorprende l’agio della classe media inglese all’ inizio del ‘900 ma anche il momento in cui l’assoluto controllo sulla figura inizia a cedere per lasciare il posto all’imprevisto, all’evenienza inaspettata. La crepa si disegna sul muro e un’altra verità si lascia trapelare dietro il cedimento della superficie  convenzionale borghese o nell’accordo tacito sul suo apparire.

 

Anni 70-80 La nuova coscienza femminista

Una nuova forma di reportage a carattere concettuale emerge nella nuova generazione di artiste a partire dagli anni ’70 e per tutto il corso dei decenni successivi: centrali restano la ricerca di libertà e emancipazione al femminile, l’affermazione di identità e di genere per tali artiste donne in un mondo dominato da modelli patriarcali e maschilisti. Sullo sfondo è la nuova società dei consumi, la guerra in Vietnam e  le rivoluzioni sociali e di costumi delle generazioni post-sessantotto. 

Paola Mattioli, la donna e lo specchio, (1977)

Guardare il mondo, volgere il proprio sguardo al di fuori nei rivolgimenti sociali degli anni ’70,  poi all’interno verso sé stesse per cominciare a vedersi. La superficie dell’immagine è uno specchio che moltiplica e riflette le  percezioni dell’io femminile e le proietta verso l’esterno nelle fotografie di Paola Mattioli. La giovane donna è allo specchio; vede il suo viso, lo analizza, ne segue in sequenza le trasformazioni prodotte dal maquillage, poi nel mutare delle pose. Osserva sé stessa in divenire, si scruta, si cerca, si interroga forse alla ricerca di una conferma di sé. Si osserva come guardasse un’ estranea attraverso uno specchio, ora dietro un’inferriata, a margine dell' inquadratura, infine in primissimo piano fino a sorprendere in quella donna un’altra espressività,  sconosciuta, più autentica, celata dietro quella usuale e apparente.

Eve Arnold, “Harlem” ( 1950)

In questa serie incentrata sulla moda ad Harlem negli anni ‘50 è l’identità afro-americana a emergere come il volto di un’altra America nera e minoritaria, assoggettata o invisibile rispetto al main-stream della cultura dominante. Nello specifico queste modelle nere segregate ad Harlem rivelano una  forma di bellezza differente, una qualità dei volti dai tratti somatici marcati, le labbra carnose, gli occhi grandi e oscuri  capaci di restituire dignità a un canone estetico stigmatizzato rispetto a quello occidentale. “ Black is beautiful”, sarà lo slogan della rivalsa identitaria afro-americana negli anni ‘60 i cui antecedenti si situano nella rinascita di Harlem degli anni ’30. La donna colta all’uscita del locale sorprende per l’assoluta sensualità della figura, l’eleganza dell’abito e il suo offrirsi con naturalezza all’obbiettivo, nell’intensità  di uno sguardo simile a  diamante.  Altri scatti rivelano oltre il cliché femminile dell’epoca la naturalezza di gesti, volti o momenti comunitari nei backstage delle sfilate. Ci parla di un desiderio di affermazione e visibilità per l’identità femminile afro-americana in quella società bianca degli anni ‘30. Due profili di volti neri  appaiono qui sdoppiati,  uno di spalle all’altro come si scrutassero a uno specchio per ritrovare, nella loro complementarietà gemellare il superamento del conflitto etnico, la loro piena accettazione di fronte allo sguardo dominante. 

 


Dayanita Singh, “Myself, Moma Ahmed”, ( New Delhi, 1961)


Incaricata di un reportage  dal Times nella comunità trans-gender indiana di New Delhi la fotografa documenta in un “romanzo visivo”  tra autobiografia e finzione la vita di Moma Ahmed e della bambina Ayesha di cui si prende cura fino alla morte nel 2001. Le immagini danno spazio in maniera intima e commovente alla storia di Moma contribuendo allo stesso modo a decentrare la prospettiva sulle componenti marginali, minoritarie o stigmatizzate della società indiana. Si concentrano su un volto che con intrinseca drammaticità esprime la profonda umanità e pathos del personaggio raccontando la fragilità del singolo di fronte alla spietata violenza di un sistema di repressione e controllo sulla differenza discriminante. Colgono in uno squarcio d’anima, il suo dramma esistenziale di violenza ed esclusione, desiderio e resistenza verso una libertaria affermazione di sé. Lasciano spazio infine alla tenerezza di un abbraccio con gli animali domestici e con la bambina che accompagna parte della sua vita. 

 

Letizia battaglia, “la bambina con il pallone”, “Palermo” (1981) 

Era la Palermo delle stragi, dei morti assassinati in strada dalla mafia locale o le faide tra clan rivali   al centro della sua prima fotografia; poi a partire dagli anni ‘80 iniziano a comparire la bellezza e l’intensità degli sguardi, gli scorci su adolescenti e bambine viste per strada, il loro candore quasi come antidoto alle ferite inferte su quella terra dalla criminalità dilagante e dall’omertà diffusa tra i siciliani. Occhi scuri neri e ribelli per la “ bambina con il pallone”; primi piani di volti limpidi e autentici nella serie “Palermo”. Ancora, una piccola orfana è colta a vagabondare in uno scorcio di strada con la città di periferia alle spalle simile alla scenografia teatrale di un decadente rione napoletano.


 

Annie Leibotitz , serie di ritratti (2016)

Sono tredici ritratti di donne celebri che hanno avuto in diversi ambiti un impatto significativo sulla società contemporanea. Scrittrici, artiste, blogger, sportive e  manager appaiono sullo sfondo di un set fotografico essenziale, sulla nudità voluta di un fondale bianco per lasciar spazio alla loro autentica risonanza, illuminarla attraverso l’immagine. L’aspetto scenico di un volto , la natura intima di una personalità, la potenza enigmatica di uno sguardo: tale emerge dai ritratti di Lebovitz quando tutto il resto viene meno, in un progressivo togliere, svuotare sottrarre dall’immagine per lasciar parlare la verità di un soggetto, il suo intimo grido. Tra le altre immagini troviamo la bellezza assoluta ed enigmatica di Natalia Vodianova avvolta nella sua veste lucida e scura di raso con un bambino tra le braccia simile a una icona spirituale moderna. Ancora è la cantautrice poetessa dall’animo poetico e il corpo ribelle Patty Smith: anfibi militari, jeans e corpetto da cowboy, crocifisso al centro del petto e capelli al vento . Altrove, la tennista Serena Williams si rivela nella sua fisicità mascolina e possente esposta pienamente dalla foto; seguono Mellody Hobson dirigente industriale lucida e acuta dallo sguardo d’acciaio e la postura sobria e impeccabile.  Shirin Neshat fotografa e artista iraniana appare nello sguardo intenso e le mani in primo piano come opere d’arte al centro del suo lavoro di creazione: corrugate, venose, impresse dei segni del tempo per plasmare ogni dettaglio di realtà fino a farla propria. Infine la purezza limpida e ineguagliabile del volto di Yao Chen ci fissa in primissimo piano con la sua aura eterea e distante, quasi surreale.

 


La nuova fotografia contemporanea(1980-2020)

L’immagine fotografica si confronta con la realtà dominata dalla nuova rete di connessione globale mentre l’introduzione dell’immagine digitale e la nuove tecnologie  fotografiche cambiano completamente i paradigmi della precedente immagine analogica. Migrazioni di pensieri, merci e informazioni, sistemi di interconnessione globale, dell’informazione ma anche nei trasporti influenzano certamente il lavoro di molte artiste contemporanee. Sempre più ampio spazio è dato a fotografe provenienti da paesi extra-occidentali quali voci emergenti, asincrone o discordanti rispetto al main-stream della cultura bianca dominante. Ne deriva un decentramento di prospettive lasciando spazio  a voci dell’alterità,a racconti individuali o autoritratti ironici di sé come per la sud-africana Zanele Muholi ma anche a tematiche sociali, riflessioni sui paradossi della società attuale  come per la cinese Cao Fei.


Shadi Ghadirian, “Qajar 19”

L’artista iraniana ritorna in maniera ironica sull’iconografia della recente dinastia persiana per reinterpretarla in una versione originale da un punto di vista prettamente femminista.

Ritrae  sé stessa in un autoritratto sulla falsa riga dello Sha di Persia e delle sue numerose mogli: diviene una di queste spose iraniane del passato di cui riappropria l’abito, la posa, perfino l’immobilità del  ritratto stereotipato, immobile e quasi fuori dal tempo. Vi inserisce, tuttavia, un minimo elemento perturbante che contesta ironicamente lo statuto di quel passato. Compare una fotocamera Reflex moderna ai piedi della donna accanto al dagherrotipo del passato, quasi a significare un nuovo sguardo per la fotografa contemporanea. Forse è nell’inserzione di quell’oggetto simbolico, misterioso fonte di fascino e potere, di creazione di un nuovo linguaggio e di rottura con il vecchio modello gerarchico che si situa tacitamente tutta l’affermazione di una nuova presenza e potere al femminile.    







Nanna Heitman, “Sul fiume Yenisei”,  (2018)


Una serie di storie scorrono attraverso il fiume Yenisei in Russia, che nel suo lungo corso attraversa la repubblica di Tuva, il circolo polare artico e la fredda taiga siberiana. La serie fotografica vi gravita intorno inseguendo luoghi poetici sospesi fuori dal tempo ordinario, simili a paesaggi dell’anima.  Le immagini ci parlano di volta in volta di sogni irrealizzati, desolazione, speranza e abbandono. Incontriamo così il volto immobile, fisso e inespressivo di un ex-ufficiale tornato dalla guerra, la ragazza che si nascondeva dalla violenza del fiume Yenisei nel villaggio dei vecchi Credenti; ancora, la ballerina che danzava cinque ore al giorno all’accademia russa, un’eterea collezione di farfalle. Aspettando il bus una neonata dorme quieta mentre l’acqua che scorre lenta e incessante nel fiume nonostante la calura estiva; infine è la casa fatiscente d’avanti a cui Yuri siede di fronte a un piccolo traghetto che sembra lì perdersi e affondare nelle sue acque.


Silvia Camporesi, “Domestica”, (2020)



Come cercare nuovi orizzonti di libertà, spazi immaginativi  e di vita durante la chiusura, l’isolamento forzato del lockdown nell’inverno 2020? La fotografa ravennate immagina in questo quotidiano rarefatto e sospeso dove nulla più accade  un altro orizzonte possibile.  Un collage fotografico di libere associazioni visive dà vita a un diario intimo e poetico che ci parla di infanzia, di una madre e le sue figlie, della meraviglia infine di piccole cose che ancora ci salvano.  Sono frammenti di oggetti, tazze rotte e ricomposte, una piuma, una cartina di colori, uno specchio, una macchina da scrivere andata in fumo. Sono un’arancia rossa, un pupazzo, una bambina, un riflesso deformante, un’ombra oscura, un vortice, un vuoto, una marea, un’onda. Il rifrangersi chiaro della vita, un mosaico di ricordi, frammisti tra desiderio e memoria antica.