domenica 18 febbraio 2024

LUDOVICA CARBOTTA “ Very well on my own” AL MAMBO DI BOLOGNA








“Very well on my own” titola la mostra ontologica della giovane artista torinese Ludovica Carbotta attualmente in corso al Mambo di Bologna fino al 5 maggio nell’ambito di Art City, traducibile con l’espressione: “molto bene per conto mio”.  Filo conduttore della selezione d’ opere, infatti, come allude il titolo, è l’individualità, la sfera privata di ciascuno di noi in quanto spazio intimo e personale insieme da  preservare e mettere in relazione con l’esterno: la città, le istituzioni ma anche i social media nel rapporto complesso che oggi intratteniamo con i medesimi. Contro la  ricerca ad ogni costo di visibilità per il singolo _ la nostra costante sovraesposizione sul web e i social _ si erge l’affermazione di una qualche forma di privacy come difesa contro l’ingerenza del mondo esterno che nel suo punto limite coincide con la scelta all’auto-isolamento . Da tale dicotomia trae origine il lavoro dell’artista torinese nella sua prima mostra ontologica che ripercorre i lavori degli ultimi quindici anni spaziando liberamente tra scultura, performance, installazione in sito e video.


Pensare come una strada




La città è il luogo per eccellenza dove l’individuo e l’ambiente si influenzano a vicenda e  si plasmano l’un l’altro. Le città definiscono il nostro campo d’azione secondo l’artista e entrano nello spazio individuale modificandolo. La città, dunque, appare in una serie di pratiche artistiche di Carbotta come uno spazio fisico da filmare ma anche e soprattutto come uno spazio concettuale da indagare attraverso l’immagine video o l’esplorazione fisica del corpo.

Già all’inizio della mostra, all’ingresso della grande Sala “Cast block” si pone come una barriera fisica e architettonica in gesso gettata lì al suolo per impedire o comunque rendere difficoltoso, problematico il passaggio dei visitatori. Creare un ostacolo nello spazio significa problematizzarlo, renderlo un oggetto di riflessione , quasi uno scontro o un inciampo per il pensiero, mai comunque un percorso ovvio e scontato. Quasi che lo spettatore dovesse trovare un modo per circumnavigare l’ostacolo, una strada per accedere alla poetica non immediata  dell’ artista, o ancora trovare una soluzione al quesito spaziale qui sollevato.

In “ Il viaggio è andato a meraviglia” assistiamo a un piano sequenza lungo 120 minuti su uno scorcio di strada urbana mentre la Carbotta si pone immobile e a distanza nel video sostenuta da un lampione come cercasse una fusione con lo spazio urbano fatto di suoni e movimenti sulla cornice immobile dello sfondo.  Quasi nel tentativo mimetico di divenire parte integrante di quello spazio che si muove nonostante la sua presenza, l’artista si pone in maniera neutrale, senza esporsi con la propria individualità per osservare invece il movimento omogeneo  delle cose intorno a lei. Ironicamente l’idea di un viaggio “andato a meraviglia” si realizza nell’immobilità del piano sequenza sulla strada.

La città altrove si presenta attraverso la polvere e la sporcizia  delle strade che divengono parte integrante dell’opera in  un’azione performativa all’origine di “Invisible Modulor” (2009). L’artista cammina a piedi nudi sulle strade limitrofe lo studio, poi imprime la tela in modo del tutto casuale con impronte di piedi e di mani dando vita a questa improvvisazione  astratta in beige e in grigio: l’impronta stessa della città sulla tela data dai suoi pulviscoli, dai suoi detriti, dalla luce, infine dalla materia stessa che la compone.


 

 CRESCERE A DISMISURA ( nel corpo e nella scultura)

Il corpo compare al centro dell’allestimento “site-specific” al museo bolognese nell’installazione “Images of others have become parts of the self” (2004) Come il sottotitolo “ crescere a dismisura” allude,  il corpo dell’artista è il punto di partenza, il principio generatore di tale installazione. Allo stesso modo in cui le immagini degli altri o ciò che essi rimandano di noi_ in altre parole il riflesso dell’ambiente esterno_ diventano parte integrante dell’io, una struttura lignea prende forma visibilmente nella sala espositiva, espandendosi in altezza e incorporando orizzontalmente altri supporti in legno per tradurre concretamente tale dinamica concettuale. Una grande impalcatura lignea al centro della galleria si erge verso l’alto sostenendo  il peso del corpo e le sue proiezioni dall’esterno all’interno dell’individuo con l’intento di crescere in altezza il più in alto possibile secondo le intenzioni della Carbotta.




“Paphos” ( 2021-24)

Ancora di crescita si tratta nella serie “Paphos” ma questa volta relativa alle sculture viste come costante evoluzione e modifica di un modello originario sottoposto a una serie di distorsioni e aggiunte nel tempo per dare vita a creature ibride che non smettono di incorporare gli oggetti che incrociano sul loro cammino e i materiali più svariati nella loro composizione. Ogni scultura della serie incorpora in sé l’idea di crescita attraverso i più desueti oggetti presi dall’ambiente circostante come sgabelli, metri, materiali di lavoro che finiscono per divenire parte o rimanere impigliati, intrappolati per errore ai manufatti originari di bronzo, ceramica o resina ad acqua. 

La forma originaria della scultura è così manipolata nel tempo dall’artista sempre allacciandosi a un’idea di evoluzione ma anche di casualità, inciampo o contingenza del tutto aleatoria. Così troviamo la serie in triplice copia in ceramica verde “One thing after another” oppure ancora l’allestimento di oggetti incorporati alla scultura; “ Where one ends the other begins”.

I Telamoni ( 2020-2024)






















Come scrive Carbotta: “ C’è una serie del 2020, “i Telamoni”, un gruppo di sculture realizzate con diverse tecniche e legate a personalità diverse della famiglia Telamoni: figure identificate da forme diverse per età, genere e ornamenti a cui sono arrivata lasciandomi guidare dai ricordi e dando così una forma fisica al tempo”. Si tratta di una famiglia di sculture discrepanti, diversissime tra loro, idiosincratiche dal modello che ci si attenderebbe, al limite, al margine quasi in alcuni casi tra materia e forma scolpita, tra figura e fondo, tra il rappresentabile e l’irrappresentabile del loro ultimo e indefinito apparire. Appaiono così, guardandosi a distanza l’un dall’altro nello spazio in una sorta di composizione d’insieme malgrado tutto come membri di una famiglia dispersa; loro distanti, separati e agli antipodi l’uno dell’altro eppure in qualche modo connessi, per una stessa energia di relazione, per quella sorta di legame magnetico e primario nel quale si innestano i vincoli famigliari.  Come afferma Carbotta, i Telanomi sono “segnati da un peso che proviene dal proprio passato”. Così, il peso effettivo di queste statue che si stagliano come blocchi di gesso immensi e isolati l’uno dall’altro eppure in connessione nella grande hall del Mambo  corrisponde a un peso “emozionale”: una sorta di carica emotiva che anima ogni membro della famiglia in relazione agli altri. Mettendo in discussione il vincolo biologico, cioè la diretta filiazione dell’uno dall’altro o da un modello si realizzano  in nuove emergenze concrete e simboliche, nelle più svariate posture, in alcuni casi in mutilazioni di membra, sempre e comunque nel proprio unico peso specifico. Decidono insomma di autodeterminarsi con una singola personalità e storia interiore che si traduce in una forma fisica e scultorea ben precisa; ognuno a sé, distante, isolato dagli altri eppure nonostante tutto in quello spazio comune di connessione.

In definitiva attraverso i più svariati mezzi espressivi, il video, l’installazione o la scultura l’artista torinese continua a disegnare coreografie del corpo all’interno dello spazio, sia esso quello fisico della città, oppure quello intimo e personale della propria sfera d’azione in quanto opposto a una pubblica visibilità condivisa sul web. Sempre e comunque attraverso  il suo lavoro Carbotta crea e dà vita a una serie di spazi immaginativi, fittizi, costruiti attraverso la pratica artistica che necessariamente interrogano aprono una riflessione sul singolo e il modello di società esistente,  forse suggerendo un’alternativa ancora possibile _ una personale idea di spazio e comunità_  per lasciare infine gli spettatori trarre le proprie conclusioni. 


martedì 16 gennaio 2024

Eve Arnold, “Photography” ( un excursus dai Musei San Domenico)





“Eve Arnold, l’opera, 1950-1980” recentemente presentato ai Musei San Domenico di Forlì restituisce un excursus, un’immersione a tutto tondo nel lavoro poliedrico e sfaccettato per quanto ancora poco conosciuto in Italia della fotografa americana Eve Arnold, prima donna a far parte della prestigiosa agenzia Magnum nel 1951, le cui immagini spaziano dal mondo dello spettacolo alla comunità di Harlem, dai temi sociali ai reportage in giro per il mondo, e ancora dal bianco e nero al colore in un vero e proprio viaggio attraverso la fotografia moderna. Al centro del suo lavoro come sottolinea la curatrice Monica Poggi: “ c’è sempre l’essere umano, sia che i suoi soggetti siano celebrità acclamate in tutto il mondo o migranti vestiti di stracci, poco cambia”. E la fotografia permane prettamente per Arnold come un “atto dello sguardo”_ nei ritratti delle star svelate in modo intimo e umano  ma anche nei reportage di forte impatto sociale che toccano temi come il razzismo, l’emancipazione femminile o l’integrazione tra bianchi e neri in America. In definitiva la macchina fotografica è per l’artista uno strumento di indagine, di esplorazione sottile, di osservazione critica e creativa della realtà a lei contemporanea in questo “imparare a guardare” attraverso la focalizzazione fotografica.

New York Times Square”, (1950)

New York appare dall’alto come un’immensa metropoli, un magnificente, fantasmagorico crocevia di strade e di vite, di etnie e di culture, nel traffico ininterrotto di auto e taxi inquadrati  probabilmente da uno dei grattacieli dello skyline newyorkese. Scintillante di luci e del bagliore elettrico delle sue insegne, dei suoi immensi edifici illuminati ad intermittenza nei riquadri a neon accesi o spenti nella notte, si staglia verso il cielo quasi a precorrere quella rivoluzione tecnologica già lì preannunciata, da lì a pochi anni nelle moderne metropoli del futuro eclettiche e digitali.  

Un approccio personale appassionato

Sono stata povera e ho voluto documentare la povertà; ho perso un figlio e sono stata ossessionata dalla nascita; mi interessava la politica e ho voluto scoprire come influiva sulle nostre vite, sono una donna e volevo sapere delle altre donne”. Il lavoro della Arnold resta sempre e in qualche modo autobiografico, là dove le immagini sono riflesso di situazioni che hanno una risonanza con la sua esistenza personale nella volontà di toccare “l’essenza delle cose e delle persone”. Particolare attenzione ricopre il tema della maternità dopo l’evento traumatico della perdita di un figlio quando l’artista decide di fotografare in vari reportage tutto ciò che avviene nei primi 5 minuti della vita di un bambino.

I neonati nascono nelle fotografie della Arnold e appaiono nei loro primi istanti di vita nello stupore, nello sgomento anche dell’essere gettati fuori, immersi nel mondo d’un tratto impetuosamente a partire dal loro primo grido di distacco dal precedente stato fetale. Negli scatti  che si susseguono madri distese ed esauste in primo piano guardano i piedini dei nascituri ancora avvolti dal calore fetale e arrivati alla vita con furore nel loro primo pianto sul ventre materno. Misurati con un metro dalle ostetriche, appesi a testa in giù per i controlli di routine oppure visti nel dettaglio di mani che si stringono, quella immensa e accogliente della madre, quella minuscola, tenue e spaventata avvolta da un braccialetto di plastica bianca del nuovo nascituro. Lo sfondo nero isola e evidenzia l’intimità e la delicatezza di tali gesti in un puro momentum fotografico. Ancora bambini e neonati sono fotografati deposti in cassette di frutta o scatole vuote di merci adibite a culle occasionali mentre le madri nere, migranti lavorano nei campi nella raccolta delle patate: loro le donne sottoposte a ritmi di lavoro estenuanti mentre sempre i bambini, allo stesso modo di quelli bianchi, appaiono in una loro intrinseca bellezza e innocenza. La Arnold, documentando la storia di una tipica famiglia americana di possidenti terrieri, i Davis, si sofferma anche sulla vita dei migranti neri sfruttati dall’America bianca e dominante tentando di restituire forza e dignità a questi individui stigmatizzati e ai margini della società americana. Sul bianco e nero esasperato nel contrasto chiaroscurale degli sfondi queste immagini giungono a far luce, infine anche, sul tema sociale delle disuguaglianze, delle ingiustizie razziali in America con una particolare attenzione, sempre, alla condizione femminile. Nell’immagine forse più idiosincratica della serie gli occhi inquietati, neri e scintillanti di una bambina di colore brillano insieme alla sua carnagione scura sullo sfondo di un jukebox che emerge nella luce del contrasto intenzionalmente esasperato tra le tonalità chiare e scure quasi a sottolineare l’ineluttabile disperazione d’un lato nel destino dei neri e lo splendore e la ricchezza, il miraggio di un’America bianca e benestante dall’altro.







Sfilate di moda ad Harlem (1950)

L’espressione “Black is beautiful” divenuto slogan condiviso durante I concerti di James Brown enfatizza un concetto di bellezza appartenente all’identità afro-americana nel suo affermarsi in opposizione alla classe dominante: un’estetica originale, piena di valore e pari dignità da opporre all’assimilazione forzata al mainstream della cultura bianca negli Usa. E’ anche il titolo di un reportage a sfondo sociale pubblicato dalla Arnold nel 1969 sul Sunday Times dove viene ribadito il tema della rivendicazioni dei diritti per gli afro-americani in ambiti culturali differenti quali la moda,la musica, l’arte ecc. Nella serie dedicata ad Harlem, Arnold si intrufola nei camerini dove alcune modelle di colore  sono intente a prepararsi per le sfilate di alcuni stilisti afroamericani quasi sconosciuti, in quell’unico spazio loro concesso di esposizione in quanto esclusi dall’industria della moda bianca in America.

La Arnold fotografa queste giovani donne nella loro intrinseca identità di genere tacitamente abbracciando sia il tema dell’emancipazione femminile che l’affrancamento dall’egemonia bianca. Il loro splendore emerge oltre gli stereotipi razziali mentre la fotografa cattura momenti di pura bellezza ed autenticità in gesti inconsapevoli dietro le quinte dei defilé, nel loro slancio insieme verso l’essere libere e rendersi visibili in quella società.  Lo vediamo in particolare nel’immagine dove “due giovani di profilo si sistemano il trucco”; le due ragazze appaiono in maniera speculare una di spalle all’altra guardandosi probabilmente in uno specchio posizionato oltre l’inquadratura fotografica. Come due metà imperfette, come due profili quasi identici e complementari l’uno all’altro studiano i dettagli del loro volto, ricercano le imperfezioni, scrutano il viso, la pelle, gli zigomi delle guance come volessero inscrivere attraverso il volto e in quella bellezza certa e incontestabile  il loro segno distintivo, la loro traccia singolare nel mondo. Un tentativo di definire  e affermare un nuovo io femminile, afro-americano, libero e emancipato in quella  società dominata da stereotipi e categorizzazioni di razza e di genere.

Altrove,  Arnold immortala il volto straordinario, il sorriso luminoso e lo stile inequivocabile e  affascinante della quasi sconosciuta attrice Cicely Tyson, e ancora acconciature afro e i capelli lunghi, crespi e neri di un’ altra modella afroamericana come segno dell’inedita differenza per un’estetica nera degna di essere elevata a pari dignità di quella bianca. In svariate immagini la fotografa gioca con il tema dell’identità razziale e di genere sfumando di proposito confini e categorie là dove marines bianchi in addestramento si tingono il volto di colori scuri, verdi e mimetici. Altrove, dei soldati neri si coprono il volto di bianche vernici per esigenze di mimetismo militare, un’ufficiale donna dell’esercito si assimila a un uomo in divisa, infine alcune aristocratiche afroamericane si rendono facsimili di bianche newyorkesi.

Dietro la macchina fotografica

Arnold apre le porte al mondo dello spettacolo in un’altra parte del suo lavoro fotografando nel corso degli anni famose celebrità come Marlene Ditrich, Marilyn Monroe o Joan Crawford. Sempre, tuttavia, l’estetica dell’essenziale nei soggetti fotografati permane là dove le sue fotografie implicitamente decostruiscono uno stereotipo smantellando il mito dell’ assoluta bellezza e perfezione esaltato dal divismo hollywoodiano per mostrare invece il volto più umano, la fragilità o la fatica dietro l’apparire, infine la lotta contro il passaggio tempo per tali celebrità messe a nudo. Arnold coglie, per esempio l’attrice Marilyn Monroe nel deserto del Nevada sul set del film “gli Spostati” con cui Magnum ha un contratto fotografico esclusivo. L’attrice è da poco uscita da un ospedale dopo una profonda crisi personale, il suo matrimonio in naufragio e le riprese si prolungano estenuanti  nel caldo torrido del Nevada. La fotografa si insinua in quel clima particolare, catturando tali momenti immersi nel deserto californiano, avvolti da un velo di silenzio e malinconia : un grido trattenuto di tacita angoscia che si alterna a momenti più leggeri e giocosi di naturale sensualità dell’attrice. Mostra tanto la vulnerabilità quanto l’intrinseco fascino della Monroe epurato però da quell’aria di falso divismo tipico della fotografia hollywoodiana dell’epoca. Quasi che la Arnold chiedesse alla fotografia di mostrare qualcosa di più autentico e sorprendente rompendo la maschera della rappresentazione, lo stereotipo  nel quale il soggetto era solitamente inquadrato.

Volti dal mondo

Nel 1969 Arnold parte insieme alla scrittrice Lesley Blanch per un viaggio durato diversi mesi attraverso l’Afghanistan, il Pakistan, L’Egitto e gli Emitati Arabi per la realizzazione di un grande progetto fotografico “Behind the veil” ispirato dall’esortazione dell’allora presidente tunisino rivolta alle donne del proprio paese a “togliersi il velo”.  Si tratta di una galleria di ritratti o volti femminili delle più svariate età e provenienze_ da bambine a anziane_ colti nel corso del viaggio in strada oppure durante le cerimonie più tradizionali, negli harem o ancora nelle scuole di Kabul. Le donne si mostrano con il viso coperto da un  burka o il capo parzialmente celato da un HIjad, altre come queste bambine afgane, probabilmente gitane, senza velo  ornate di medagliette e gioielli dorati oppure, ancora, i ritratti si stagliano limpidi e puri sotto il copricapo colorato. In Arnold i volti si mostrano o si nascondono secondo una focalizzazione che può variare in intensità e spazialità_ prestando particolare attenzione al femminile_ ma  sempre mettono a nudo con o senza maschere qualcosa di autentico come la limpida bellezza e unicità  insita in ciascuno di noi nella differenza e complessità di ogni cultura.

 




 





 









sabato 9 dicembre 2023

VIVIAN MAIER, “ANTHOLOGY”, a Palazzo Pallavicini a Bologna


 













 


Il teatro “straordinario” del quotidiano in quanto svelato, semplicemente da una macchina fotografica nel suo versante ora poetico ora ironico, sempre e comunque spontaneo, tale appare la fotografia di Vivian Maier  in una “anthology” di più di cento immagini in bianco e nero e un piccolo numero di foto a colori accompagnate da un inedito Super8 mm attualmente presentate a Palazzo Pallavicini a Bologna fino al prossimo 28 gennaio.  Se il gesto del fotografare come quello scatto casuale e istantaneo, quella ricerca del dettaglio che rivela o modifica la visione abituale ha accompagnato simile a una necessità o un’ossessione tutta la sua vita, il lavoro della Maier è rimasto nell’ombra fino al 2007 quando centinaia dei suoi negativi e rullini sono stati portati alla luce e divulgati da un collezionista americano per una contingenza di eventi, infine apprezzati a livello mondiale.  La notorietà arriverà solo dopo la sua morte nel 2009 quando le sue fotografie saranno  divulgate e esposte in una serie di retrospettive in tutto il mondo. Oggi più che mai il lavoro della fotografa americana spaziando dagli anni ’50 fino alla fine del XX secolo esplora il nostro rapporto complesso e continuo con il mondo di immagini di cui siamo circondati e sopraffatti nell’era digitale; allo stesso modo nella sua costante produzione fotografica, estemporanea e casuale, si rispecchia il quasi parossistico uso del visivo sul web e i social media attuali.

Tuttavia per la Maier, non dobbiamo dimenticarlo, la fotografia porta in sé sempre e comunque, un riflesso della propria interna visione, quindi in definitiva un modo per cercare sé stessa in  quel costante rispecchiarsi o apparire come ombra, riflesso o silhouette tra le cose del mondo, in un mondo dove non trova pubblico ruolo o riconoscimento come  artista. Di qui la peculiare  serie di ritratti e auto-ritratti visibili nella mostra bolognese, rielaborati e ripetuti nel corso di una vita dove i tratti personali si sovrappongono costantemente a quelli dei soggetti fotografati.




New York, “Public library"
 (1954)

D’avanti all’imponente facciata monumentale della biblioteca pubblica di New York il volto di una donna appare, elegante, incorniciato da una collana di perle e da un cappello che le tiene raccolti i capelli con stile, in uno scatto rapido e fugace probabilmente da un autobus in movimento.  Lei, di profilo appare inaspettatamente  vista camminare, persa tra i suoi pensieri come un volto sospeso, arrestato in quello spazio-tempo preciso, in quel momento di intimità svelato dallo sguardo attento e quasi in sordina della fotografa. La strada è per la Maier un teatro dove scorre la vita, il movimento, la miriade di volti del quotidiano, tutti potenziali soggetti al centro del suo obbiettivo. Un dettaglio o un gesto sul quel palcoscenico fanno la differenza ed è lì che compare, si esprime al meglio il potenziale della sua visione, per  esempio in questo sguardo enigmatico, pensieroso quasi inquieto della donna colto sotto la maschera di eleganza e bon ton che ne cela l’apparenza. In quei dettagli si aprono spiragli unici di poesia, scorci eccezionali che ci fanno accedere alla sua più autentica visione.  


    












   Altri scatti nella stessa serie di “Street Photography”restano come punti di sospensione aperti sulla realtà: l’enigma di un gesto da interpellare, scoprire o cogliere semplicemente sul fluire della vita, del tempo o della memoria. Evidenziare un dettaglio come mani che si stringono tra due fidanzati, le scarpe di un uomo, i tacchi di una donna o lei vista di schiena perché secondo la Maier è nell’estemporaneo, nell’arbitrario, nel minuscolo non visto che  emergono le peculiarità, i gesti inconsapevoli, quell’aspetto unico e irripetibile di ciascuno di noi che costituisce un vero e proprio paesaggio dell’anima. Tale serie di foto  sottratte dal teatro della strada delineano un affresco complesso della realtà somma dei  dettagli evocativi del quotidiano: gambe che sporgono per caso sotto il ginocchio, gonne al vento, mani che nascondono, stingono, accarezzano altre mani. Si tratta, in definitiva sempre, di un punto di vista differente che sposta la focalizzazione piena e diretta della straight photography americana per iscrivere l’idiosincrasia, la differenza o lo scarto significante del reale.

 

Childhood                                                                                                  

L’infanzia è un tema che attraversa come una costante l’opera della Maier in quanto a stretto contatto con i bambini nel suo lavoro  quotidiano di “nanny” tutta una vita. I bambini compaiono in maniera inconsapevole di fronte all’obbiettivo con la più grande empatia dell’artista oppure sono ritratti con naturalezza in strada nel quotidiano. Sempre e comunque visti con semplicità e poesia nel loro contesto, lontano dai miti d’America o dalle immagini stereotipate di un’ideale di infanzia edulcorata e fittizia. Spesso, al contrario, lo sguardo della Maier misura la distanza tra il loro mondo e quello degli adulti scegliendo punti di vista decentrati rispetto all’ottica frontale oppure ritagliata a misura del bambino, sul suo sguardo, sui suoi gesti e pose.


In una foto del 1962 per esempio sono unicamente le gambe ad apparire, i tacchi a stiletto sul collant nero e la gonna al ginocchio per la donna borghese e altolocata, il bianco dell’abitino e calze a maglia della bambina, minuscola ,candida, irradiante rispetto alle dimensioni immense della madre vicino. Si tratta ancora una volta del vedere, inquadrare il mondo attraverso gli occhi del bambino tra la frustrazione verso una realtà che sfugge ai suoi occhi e la contemplazione del gioco,  posizionando l’obbiettivo lì, alla sua altezza o nel punto di fessura, nella discrepanza tra i due punti di vista.


Auto-ritratti





Esistere nel mondo, essere e fotografare come una donna e un’artista; lasciare un segno, una traccia, vedersi mentre si guarda l’esterno, per esempio nel riflesso distorto di sé in uno specchietto dell’auto. E in quel gesto, in quella traccia incisa di luce propria ritrovarsi infine come donna e come fotografa. Tale la serie degli autoritratti o delle immagini scattate prima in bianco e nero poi a colori dove la Maier compare in sordina tra le cose o incorpora sé stessa in composizioni dove irrompe quasi per caso il suo riflesso o la sua ombra.  In una immagine del 1955, la fotocamera Rolleiflex si staglia posizionata al centro della scena su un treppiede quasi fosse il fulcro di tutto il quadro mentre la fotografa appare poco più avanti offrendosi nel suo sguardo diretto e frontale a noi spettatori.  Mentre lei fissa lo sguardo fuori e il suo riflesso attraverso lo specchio si staglia speculare al centro dell’obbiettivo resta forse la macchina fotografica la vera protagonista della composizione o, meglio, come Maier la definiva:  “quell’extra paio di occhiali che ci aiutano a vedere il mondo un po’ meglio, un po’ più definito”.  Sia che si tratti di sé stessa frontale in primo piano con aria investigativa, instancabile osservatrice della strade e di chi le abita, sia che si infiltri come un’ombra allungata al suolo, oppure come un profilo che d’un tratto rimbalza tra le cose per sfuggire via dall’inquadratura, sempre e comunque è con l’autoritratto che la Maier si confronta del tentativo instancabile di autodefinirsi, nella questione aperta sulla propria identità messa in gioco per trovare una strada nel mondo come donna e artista insieme.


Ritratti


 


Si tratta di anziani, vagabondi o poveri colti perlopiù non visti per strada oppure in incontri reali, sempre e comunque tenendosi a una certa distanza dal soggetto fotografato. Nei ritratti sono spesso gli umili, i marginali o il decentramento del punto di vista dominante di un’America  bianca, puritana, liberale e perbenista a comparire o, in ogni caso, a destare maggior interesse. Così, le immagini che li ritraggono stabiliscono un rapporto di distanza ma anche di dignità restituita nel sancire uno spazio fisico e mentale, una barriera da non oltrepassare per lasciar parlare le loro intoccabile umanità, singolare e irripetibile. Altrove, la fotografa si avvicina con sguardo ironico e divertito ai ritratti delle classi più agiate, per esempio questo ricco uomo d’affari americano ripreso nell’atto di fumare un sigaro guardando compiaciuto dall’alto i grattacieli ai suoi piedi appena costruiti.  L’obbiettivo della Maier si insinua lì con ironia beffarda quasi tra le linee, mostrando con sarcasmo il volto di un’America perbenista, benestante e autoreferenziale, totalmente centrata su sé stessa e sui propri profitti. Tra i ritratti colti in  strada, agli antipodi,  un uomo intento a chiedere l’elemosine è fotografato a propria insaputa dalla Maier. La fotografa sembra quasi voler illuminare la sua invisibilità di indigente qualunque non visto in quella società luccicante di fasto e benessere economico, come fosse uno di noi, rendendoci parte delle sue stesse emozioni  sulla base di una comune umanità contro questa cecità di fondo del nostro tempo verso i marginali e i reietti della terra.  


Lo sguardo della Maier si posiziona ancora frontale ma a distanza con una certa empatia ritraendo una serie di bambini canadesi: il primo piano il volto imbrattato e gli occhi lucidi dopo un pianto, l’espressione della bambina seria e accigliata e lo sguardo di sfida frontale alla camera. Ancora due piccole si abbracciano in un momento di naturale empatia estemporaneo e fugace che solo i bambini riescono a manifestare nel gesto spontaneo di stringersi e guardarsi occhi negli occhi un istante. Infine, un bimbo magro e timido, diffidente e quasi schivo all’obbiettivo guarda fisso di fronte a sé la fotocamera come attraverso una barriera o un vetro invisibile che lo separa da noi spettatori. Perché, come ha sempre inteso la Maier, tutto il suo lavoro di fotografa nel corso di una vita  nasce da questa “interna visione”, ora spontanea e poetica, ora irriverente e ironica che illumina tuttavia il soggetto attraverso lo scatto fotografico. Sempre, la sua fotografia porta questo “ riflesso di sé” in ciò che crea, in quello che guarda. Sempre, l’artista si insinua come una “spia nel mondo” tra le strade e attraverso i teatri più comuni del quotidiano per “catturare voracemente quello che vede o che intende vedere”. E in quel riflesso, di sé e del mondo attraverso l’immagine fotografata, il lavoro della Maier non smette di porre la domanda sul senso e la fotografia resta quella “lente extra di visione” che tenta di rispondervi; una miriade di auto-ritatti per comporre l’intero quadro della sua visione.


                                                                                        

Tutte le fotografie © Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy of Howard Greenberg Gallery, New York)



giovedì 9 novembre 2023

A proposito di “BurriRavennaOro”, al Mar di Ravenna

 









Alberto Burri, artista dal linguaggio poliedrico e assolutamente originale di cui non possiamo non ricordare le composizioni nei materiali più desueti come il catrame, i sacchi di tela juta, le plastiche e le loro combustioni approda al Mar di Ravenna con una monografia esclusiva, BurriRavennaOro, una selezione di opere ispirate alla cultura musiva della città in concomitanza con la parallela  Biennale di Mosaico Contemporaneo in corso.  Tra le cento opere in mostra la serie di tele denominate “Nero e Oro” (1993) attraverso la quale Burri rende omaggio in una sua interpretazione informale e prettamente materica alla grande tradizione degli ori bizantini mentre con il ciclo “San Vitale” realizza grandi monocromi neri in cellotex  cercando una via per trarre quella stessa luce intrinseca da sempre ai mosaici ravennati partendo da una valenza cromatica come il nero,  in sé stessa priva di luce. Altrove, infine,  pone al centro il contrasto netto tra l’oro e il nero, l’ombra e la luce. In questa stessa prospettiva si affiancano le serie di opere grafiche incentrate sull’ astrazione del segno ma ugualmente immerse in una grande potenza cromatica. Il nome dell’artista resta inoltre legato alla città attraverso l’opera in esterno al Palazzo Mauro de André del  “Grande ferro R” (1990) dove la propulsione della materia riemerge nel metallo in vernice arancio plasmato come un grande antro architettonico_ una gigantesca falange uncinata_ nella più grande libertà espressiva dell’artista.


“Oro”( 1992) una tra i primi monocromi esposti in foglia d’oro su cellotex appare come l’opera idiosincratica del rapporto tra l’artista e la città, attraverso la palese evocazione in termini informali e materici del sostrato di lucentezza emanato dai mosaici bizantini nella memoria collettiva. Tessuto di foglie d’oro splendenti irradiano dalla tela brillante come l’emanazione di un’energia che è propria della superficie buriana, lì dove si manifesta l’evento stesso dell’opera: segno, incisione o fessura nella sua sintesi ultima e estrema. Nella tela successiva “Sacco11” ( 1954) siamo posti di fronte alla combustione di materiali poveri, semplici o riutilizzati come la tela juta, poi ricomposti in collage insieme a colla, oro e lembi di sacchi bruciati. All’inizio dell’informale negli anni ’50 si sperimenta con il recupero dal basso dei più svariati materiali nel gesto di fare arte, nell’esplorazione di modalità espressive che spaziano dall’ happening, al dripping Pollockiano, alla polisemia di tracce e scrittura gestuale sulla tela . L’oro ritorna qui, ancora una volta, in margine all’opera, come l’esito finale e la metamorfosi ultima del sacco precedentemente bruciato, lacerato e ricucito in alchemica trasformazione mentre in una versione successiva esso scaturisce da un lembo di rosso colore.



Nero e Oro ( dalla serie “cretti, neri e oro”)



Aprire un varco, una strada concreta e materica, di corpo e di spazio su una superficie piana e astratta. Dare tridimensionalità, spessore e senso al fare dell’arte, così come dare nuova vibrazione al monocromo nero che poi si trasformerà in rifulgere d’oro. Si parte dalla bidimensionalità piatta del quadro per arrivare all’esubero di materia che esce dal piano e prende corpo, consistenza e vita. Una strada si apre di sassi, pietra e detriti in mezzo alla distesa piana e astratta del fondo nero in “Cretto” del 1973. Simile a crepa o fenditura, il “cretto” scavato dal sisma della cittadina siciliana di Gibellina cui Burri restituisce una memoria nell’omonima installazione in loco, ritorna in quest’opera informale come il varco che si apre sul rilievo in acrilico nero. Scrive Recalcati a tal proposito sull’opera di Burri: “L’arte non può accontentarsi di celebrare il visibile e il suo ordine, deve discendere nell’abisso dell’informe dove incontriamo insieme alle macerie del mondo le nostre.” Tale, precisamente, il tema dell’approccio informale in Burri secondo Recalcati, un discendere “ al cuore dell’urto, nell’abisso della materia e in quel mentre elevare il sisma, il vuoto della perdita a grande cicatrice plasmata dall’energia e dalla superficie dell’opera astratta. Dunque in “Nero e Oro  ( 1993) l’oro in foglia su tela rifulge in questa espansione luminosa, vibratoria e magnificente che si alterna e si intercala al monocromo ritagliato in nero dal quale sgorga per contrasto e complementarietà: rilucente come una sottile lamina dorata. Nella composizione successiva non è più il piano ma il rilievo, la concrezione materica del nero che emerge dalla superficie ancora in contrasto con il sottilissimo, lieve foglio d’oro. In un’ultima versione del 1994, “Cretto Nero e Oro”, la roccia bianca, arida e secca, screpolata da spaccature e distesa in acrilico a crepe sulla tela rinvia inevitabilmente alla grande installazione realizzata dall’artista a Gibellina nel luogo dove sorgeva l’antica città distrutta dal terremoto nel 1968. Là, una serie di blocchi di cemento e calce bianca composti con le macerie dei vecchi edifici rendono omaggio, ancora oggi, alla memoria storica della città scomparsa e disegnano grandi solchi simili a fenditure, “cretti” appunto,  che si intercalano tra un blocco e l’altro di cemento. Quella stessa cicatrice del territorio ricompare sulla tela di Burri, astratta e materica insieme, dove si contrappone alla controparte nera e si instaura, infine come cerniera d’oro, margine rilucente tra il bianco e il nero. Qui,  l’oro emerge come vibrazione luminosa e intrinseca alla materia che può emanare secondo Burri da ogni entità cromatica in sé, bianca o nera, chiara o scura che sia, immersa o sprovvista di luce propria.






Opere Grafiche

Nell’ultima parte della mostra appare una selezione di opere grafiche dove si intrecciano rigore estremo della forma e purezza espressiva nella cromia, opere che hanno valso a Burri il premio nazionale dei Lincei nel 1973. Nella serie degli “Otto cretti”, si ritorna al tema del grande “Gretto di Gibellina” con le sue fenditure e superfici in rilievo qui non incise sul territorio ma sui fogli di carta bianca utilizzando il retro della tecnica tradizionale dell’ acquaforte per creare il rilievo. Ancora nella serie serigrafica la rugosità, la screpolatura e l’infrazione della superficie piana rinviano alla crepa, cioè al cretto del grande sisma nell’opera ambientale di Burri. E’ il trarre il bianco dal nero, il nero dal bianco da un quadro all’altro della serie in una metamorfosi tonale dove gli opposti si ritrovano: dai  varchi sulla pietra ai  rilievi sul piano nel contrasto estremo dei monocromi.

 

 Serigrafia : trittico (1994)



La carta sottile accoglie al meglio l’alternarsi del nero, dell’oro e del bianco stampati mentre le foglie d’oro sono applicate finemente a mano sulla superficie piana in nette figure geometrizzanti che la luce delimita nei contorni. Siamo di fronte alla trasmutazione, alla metamorfosi: dal nero all’oro, dall’oro al nero, dal nero al bianco. Gradi di vibrazioni luminose si alternano scaturite da colori che per loro natura portano in sé la luce o la sua totale assenza. Le forme derivano da quella vibrazione  che definisce gli spazi, simile all’aurea spirituale che avvolge i mosaici nelle basiliche bizantine cui Burri rende omaggio tacitamente, sancendo come nella mostra, una sincronicità implicita tra la città e l’artista.