“Very well on my own”
titola la mostra ontologica della giovane artista torinese Ludovica Carbotta
attualmente in corso al Mambo di Bologna fino al 5 maggio nell’ambito di Art
City, traducibile con l’espressione: “molto bene per conto mio”. Filo conduttore della selezione d’ opere,
infatti, come allude il titolo, è l’individualità, la sfera privata di ciascuno
di noi in quanto spazio intimo e personale insieme da preservare e mettere in relazione con
l’esterno: la città, le istituzioni ma anche i social media nel rapporto
complesso che oggi intratteniamo con i medesimi. Contro la ricerca ad ogni costo di visibilità per il
singolo _ la nostra costante sovraesposizione sul web e i social _ si erge
l’affermazione di una qualche forma di privacy come difesa contro l’ingerenza
del mondo esterno che nel suo punto limite coincide con la scelta all’auto-isolamento
. Da tale dicotomia trae origine il lavoro dell’artista torinese nella sua prima
mostra ontologica che ripercorre i lavori degli ultimi quindici anni spaziando
liberamente tra scultura, performance, installazione in sito e video.
Pensare come una strada
La città è il luogo
per eccellenza dove l’individuo e l’ambiente si influenzano a vicenda e si plasmano l’un l’altro. Le città
definiscono il nostro campo d’azione secondo l’artista e entrano nello spazio
individuale modificandolo. La città, dunque, appare in una serie di pratiche
artistiche di Carbotta come uno spazio fisico da filmare ma anche e soprattutto
come uno spazio concettuale da indagare attraverso l’immagine video o
l’esplorazione fisica del corpo.
Già all’inizio
della mostra, all’ingresso della grande Sala “Cast block” si pone come una
barriera fisica e architettonica in gesso gettata lì al suolo per impedire o
comunque rendere difficoltoso, problematico il passaggio dei visitatori. Creare
un ostacolo nello spazio significa problematizzarlo, renderlo un oggetto di
riflessione , quasi uno scontro o un inciampo per il pensiero, mai comunque un
percorso ovvio e scontato. Quasi che lo spettatore dovesse trovare un modo per
circumnavigare l’ostacolo, una strada per accedere alla poetica non immediata dell’ artista, o ancora trovare una soluzione
al quesito spaziale qui sollevato.
In “ Il viaggio è
andato a meraviglia” assistiamo a un piano sequenza lungo 120 minuti su uno
scorcio di strada urbana mentre la Carbotta si pone immobile e a distanza nel video sostenuta da un lampione come cercasse una fusione con lo spazio urbano
fatto di suoni e movimenti sulla cornice immobile dello sfondo. Quasi nel tentativo mimetico di divenire
parte integrante di quello spazio che si muove nonostante la sua presenza, l’artista
si pone in maniera neutrale, senza esporsi con la propria individualità per
osservare invece il movimento omogeneo
delle cose intorno a lei. Ironicamente l’idea di un viaggio “andato a
meraviglia” si realizza nell’immobilità del piano sequenza sulla strada.
La città altrove si presenta attraverso la polvere e la sporcizia delle strade che divengono parte integrante dell’opera in un’azione performativa all’origine di “Invisible Modulor” (2009). L’artista cammina a piedi nudi sulle strade limitrofe lo studio, poi imprime la tela in modo del tutto casuale con impronte di piedi e di mani dando vita a questa improvvisazione astratta in beige e in grigio: l’impronta stessa della città sulla tela data dai suoi pulviscoli, dai suoi detriti, dalla luce, infine dalla materia stessa che la compone.
CRESCERE A DISMISURA ( nel corpo e nella
scultura)
Il corpo compare al
centro dell’allestimento “site-specific”
al museo bolognese nell’installazione “Images of others have become parts of the
self” (2004) Come il sottotitolo “ crescere a dismisura” allude, il corpo dell’artista è il punto di partenza,
il principio generatore di tale installazione. Allo stesso modo in cui le
immagini degli altri o ciò che essi rimandano di noi_ in altre parole il riflesso
dell’ambiente esterno_ diventano parte integrante dell’io, una struttura lignea
prende forma visibilmente nella sala espositiva, espandendosi in altezza e incorporando
orizzontalmente altri supporti in legno per tradurre concretamente tale
dinamica concettuale. Una grande impalcatura lignea al centro della galleria si
erge verso l’alto sostenendo il peso del
corpo e le sue proiezioni dall’esterno all’interno dell’individuo con l’intento
di crescere in altezza il più in alto possibile secondo le intenzioni della
Carbotta.
“Paphos” ( 2021-24)
Ancora di crescita
si tratta nella serie “Paphos” ma questa volta relativa alle sculture viste
come costante evoluzione e modifica di un modello originario sottoposto a una
serie di distorsioni e aggiunte nel tempo per dare vita a creature ibride che
non smettono di incorporare gli oggetti che incrociano sul loro cammino e i
materiali più svariati nella loro composizione. Ogni scultura della serie
incorpora in sé l’idea di crescita attraverso i più desueti oggetti presi
dall’ambiente circostante come sgabelli, metri, materiali di lavoro che finiscono
per divenire parte o rimanere impigliati, intrappolati per errore ai manufatti
originari di bronzo, ceramica o resina ad acqua.
La forma originaria
della scultura è così manipolata nel tempo dall’artista sempre allacciandosi a
un’idea di evoluzione ma anche di casualità, inciampo o contingenza del tutto
aleatoria. Così troviamo la serie in triplice copia in ceramica verde “One
thing after another” oppure ancora l’allestimento di oggetti incorporati alla
scultura; “ Where one ends the other begins”.
I Telamoni ( 2020-2024)
Come scrive
Carbotta: “ C’è una serie del 2020, “i Telamoni”, un gruppo di sculture realizzate
con diverse tecniche e legate a personalità diverse della famiglia Telamoni:
figure identificate da forme diverse per età, genere e ornamenti a cui sono
arrivata lasciandomi guidare dai ricordi e dando così una forma fisica al
tempo”. Si tratta di una famiglia di sculture discrepanti, diversissime tra
loro, idiosincratiche dal modello che ci si attenderebbe, al limite, al margine
quasi in alcuni casi tra materia e forma scolpita, tra figura e fondo, tra il
rappresentabile e l’irrappresentabile del loro ultimo e indefinito apparire. Appaiono
così, guardandosi a distanza l’un dall’altro nello spazio in una sorta di
composizione d’insieme malgrado tutto come membri di una famiglia dispersa;
loro distanti, separati e agli antipodi l’uno dell’altro eppure in qualche modo
connessi, per una stessa energia di relazione, per quella sorta di legame
magnetico e primario nel quale si innestano i vincoli famigliari. Come afferma Carbotta, i Telanomi sono
“segnati da un peso che proviene dal proprio passato”. Così, il peso effettivo
di queste statue che si stagliano come blocchi di gesso immensi e isolati l’uno
dall’altro eppure in connessione nella grande hall del Mambo corrisponde a un peso “emozionale”: una sorta
di carica emotiva che anima ogni membro della famiglia in relazione agli altri.
Mettendo in discussione il vincolo biologico, cioè la diretta filiazione dell’uno
dall’altro o da un modello si realizzano
in nuove emergenze concrete e simboliche, nelle più svariate posture, in
alcuni casi in mutilazioni di membra, sempre e comunque nel proprio unico peso specifico.
Decidono insomma di autodeterminarsi con una singola personalità e storia
interiore che si traduce in una forma fisica e scultorea ben precisa; ognuno a
sé, distante, isolato dagli altri eppure nonostante tutto in quello spazio
comune di connessione.
In definitiva
attraverso i più svariati mezzi espressivi, il video, l’installazione o la
scultura l’artista torinese continua a disegnare coreografie del corpo
all’interno dello spazio, sia esso quello fisico della città, oppure quello
intimo e personale della propria sfera d’azione in quanto opposto a una
pubblica visibilità condivisa sul web. Sempre e comunque attraverso il suo lavoro Carbotta crea e dà vita a una
serie di spazi immaginativi, fittizi, costruiti attraverso la pratica artistica
che necessariamente interrogano aprono una riflessione sul singolo e il modello
di società esistente, forse suggerendo
un’alternativa ancora possibile _ una personale idea di spazio e comunità_ per lasciare infine gli spettatori trarre le
proprie conclusioni.