venerdì 16 dicembre 2016

Salgado II : improvvisazioni poetiche e immagini fotografiche




Sebastiano Salgado, Fiume Dusty ghiacciato, Kleane National Park, Canada

Mappa geografica di sentieri percorsi o percorribili dall’immaginazione, 
vie di attraversamento della terra viste dall’alto oppure di fuga attraverso molteplici diramazioni.
Mappa di scorrimento del tracciato immaginario di tutta un’esistenza: tali gli incontri casuali che determinano un destino o designano una Parola che attende di rendersi manifesta, le deviazioni o le svolte inattese, i ritorni sui propri passi dopo lunghe assenze inspiegate in strani moti e circumnavigazioni del pianeta terra o dell’universo corpo.
 Spazi immensi e linee marcanti si designano lentamente, a fatica prendono corpo e forma sulla superficie del mondo e, nel mentre dell’affioramento  si plasmano insieme ad altre linee a loro estranee, si insidiano dentro gli spazi, e lentamente evolvono nei tratti, 
vibrano insieme ai moti della terra o a quelli del cuore, di tutti gli organi pulsanti di un battito di vita in una semi-immobilità o lentezza apparente del cosmo, insieme animato e inerte .
Fiume ghiacciato e strade dissecate, grandi arterie del corpo o del mondo , rete arteriosa ma di circolazione solidificata, apparentemente coagulata in masse glaciali o accumuli di linfa assiderata. Grande organo del cuore o polmone pulsante di vita ma arrestato lì, nell’istante del suo primo movimento, in un fulcro di ghiaccio.
Le linee fotografate visualizzano grandi mappe topografiche del corpo o della terra vista dall’alto nel suo ventre argenteo e gelato in fili d’acciaio, un cranio nel suo passaggio di onde elettromagnetiche, negli scorrimenti di flussi neuronali o di pensiero alle soglie del suo primo manifestarsi,  l’ecografia forse di liquidi distribuiti attraverso una rete estesa di diramazioni in corpo.
Ci sono vie che dobbiamo percorrere ma che restano ghiacciate sul nostro cammino; fiumi di lava bollente prima e di ghiaccio scintillante poi rimasti impressi e stampati sulle superfici di vetro dei ghiacciai.
 Flussi essiccati alle sorgenti  oppure risplendenti nella loro argentea, gelata ossidazione. Argento vivo stampato su ghiaccio, fiumi di seta condensata e impressa in argentee vie di fuga dell’immaginazione.  








Sebastiano Salgado, (Genesi)



Attraversano il golfo dell’Ob per entrare nel circolo polare Artico, il popolo itinerante degli eschimesi, ogni anno con tutta la loro scia di renne e slitte viaggiano per giorni e giorni attraverso cinquanta km sul ghiaccio per raggiungere la loro terra.

Una firma, una linea, una traccia scritta che segui sul bianco di una pagina del mondo, 
una vastità candida e perfetta, una distesa bianca e incontaminata che scopri al mattino guardando fuori attraverso i vetri di una finestra dopo un' immensa, calma nevicata notturna.
 Un esile filo di parole, una linea di pensiero, un cammino spirituale verso l’illuminazione, la trasformazione dal qui e ora  a una matrice più antica e lontana , divina, altra in te. 

Una parola su una pagina bianca, la mia firma, il mio gesto, il mio passo nel mondo su questa terra per lasciare una traccia, un segno del mio esserci. Un gesto, una parola semplicemente per dire, IO SONO, sulla bianchezza di un inferno da cancellare, di una terra vergine da ridisegnare.





mercoledì 30 novembre 2016

"Genesi" secondo Salgado: fotografia e scrittura per immagini ( ai Musei S. Domenico, Forlì)












"Genesi" per Salgado  è viaggio alla ricerca del mondo delle  origini, la natura tale che ha preso forma e si è manifestata per secoli prima che l’organizzazione delle società moderne iniziasse ad allontanarci, e renderci estranei ad essa, inconsapevoli della nostra originaria provenienza. Le immagini di “Genesi” esposte attualmente ai musei S. Domenico di Forlì scattate da Salgado dal 2003 al 2011 nel corso di 25 viaggi e  riproposte presso le più importanti istituzioni d’arte del mondo da Parigi, a New York, da Milano a Buenos Aires raccontano perlopiù di paesaggi terrestri e marini, sconfinano in regioni remote della terra dove la natura domina limpida, incontaminata nel silenzio della sua magnificenza; attraversano le foreste pluviali e tropicali dell’Amazzonia, la vastità delle savane o i deserti roventi d’Africa, le distese di ghiaccio nel grande nord delle zone antartiche più rigide della terra oppure le isole solitarie del Pacifico. Regioni troppo fredde o troppo aride perché la vita umana possa insediarsi se non in contingenze estreme o attraverso le sue forme più resistenti: specie rare di animali, piante e tribù indigene di popolazioni insediatesi lì da secoli a stretto contatto e in perfetta sintonia con le  leggi prime della natura. Come scrive Salgado: “nel corso di otto anni in cui ho viaggiato attraverso il mondo per questo progetto ho imparato a lavorare con altre specie che quella umana …non come fossi un etnologo o un giornalista ma per scoprire, mettere in luce, esplorare o dare voce, visibilità e bellezza al pianeta. Il paesaggio è vivo, immanente all’umano, come i minerali, i vegetali, gli animali, il pianeta è intrinsecamente connesso in tutte i suoi elementi, vivente a tutti i livelli. Ho capito quanto rispetto gli dobbiamo, un rispetto immenso”.  

In questo senso la fotografia per Salgado diviene nelle sue parole “ una lettera d’amore scritta al cosmo , verso una natura in cui gli umani devono sentirsi parte integrante ”,e, dunque, nel corso degli anni un grido di allarme, un monito sempre più chiaro perché il pianeta non  divenga oggetto di distruzione incondizionata da parte dell’uomo, esposto ai profondi disequilibri del suo eco-sistema generati ogni volta che si perde quella connessione profonda al mondo naturale perché si impone una logica di sfruttamento, di profitto incondizionato, di  uso e abuso senza limiti della straordinaria ricchezza di risorse che esso ci offre.

Salgado decide nel corso di un viaggio durato una vita di percorrere il mondo a piedi, a bordo di piccoli aerei, di barche, di canoe e persino d’una mongolfiera per fotografare “ l’immensa bellezza del continente”, i suoi santuari naturali, le sue isole.
In primo luogo si tratta di “incontrare il pianeta, “addentrandosi nelle zone più remote della terra o verso le sue estremità meno raggiungibili; contemplare il mondo dalle cime più alte agli abissi più profondi- minerali, vegetali e degli esseri animati-, vedere come gli uomini erano all’inizio della storia e come in essi si manifesti ancora, secondo Salgado, la parte più istintiva e viscerale dell’umano, quella che ci ricollega direttamente alla vita, alla sopravvivenza e alle leggi di natura negate portando all’eccesso l’individualità puramente razionale e logocentrica dell’individuo.
“Ho visto ciò che eravamo prima di lanciarci nella violenza della città dove il nostro diritto allo spazio, all’aria, al cielo e alla natura si è perso tra i muri delle case. Abbiamo eretto barriere che ci separano gli uni dagli altri, dal mondo naturale. Di colpo non siamo più in grado di vedere di sentire..di osservare. “Genesi” mi ha fatto prendere coscienza che a forza di allontanarci dalla natura per via dell’urbanizzazione siamo diventati animali molto complicati e che, diventando estranei al pianeta, diventiamo estranei a noi stessi”.  Il progetto “Genesi” si inscrive come un messaggio chiaro inviato all’umanità, una sorta di imperativo, grido o certezza inequivocabile  che tornare all’essenziale, al cosmo e al rispetto e delle sue leggi, della sua implicita e perfetta armonia sia il solo modo di garantire all’uomo la libertà, allo stesso tempo il rispetto dell’essere umano sulla terra contro il processo inverso di disintegrazione in atto prodotto da forze che implicitamente avversano i cicli naturali dell’esistenza.

Ancora le parole di Salgado mirano a dare un senso ultimo e unitario,  una visione poetica umanitaria e politica insieme a un progetto estesosi negli anni e sconfinato  attraverso i quattro continenti ai poli più estremi del pianeta: “Genesi mi ha insegnato che tutto è legato e tutto vive senza farmi dimenticare degli umani, perché anche loro sono parte di questa natura meravigliosa”.  

I- Il Pianeta Sud, l’antartico e le sue isole

Iceberg nel mare di Weddell tra l’isola di Paulet e le Shetland, (Antartide 2005)



Sono fluttuanti forme di ghiaccio in movimento, danzanti  su una immensa bianchezza d’eternità, poi la corrosione divorante delle medesime come se una schiuma o mousse soffice e spumosa fosse stata scavata e ritagliata dagli agenti atmosferici o dalle forze naturali in azione. Un bianco cielo di ghiaccio si riflette a specchio sulla superficie brillante e quasi immobile dell’oceano, nero petroleum nell’effetto del chiaro-oscuro estremo voluto dall’immagine in bianco e nero . Contemplare l’idea di perfezione attraverso la natura, opera e strumento nelle mani della divinità,  fonte di ispirazione  o di trasmutazione estetica per l’artista. Contemplare semplicemente le forze di creazione in atto in un estremo incontaminata dell’universo, la penisola antartica.

Dove esattamente finisce la terra, inizia l’acqua? Le leggi della natura vi agiscono innate, in maniera a noi quasi inconsapevole . Grandi blocchi antartici si staccano dai massi originari e fluttuano attraverso i mari del sud al largo delle Shetland australi. Dall’oceano emerge una grandiosa montagna di ghiaccio intagliata, internamente scavata e svuotata, corrosa dagli agenti del tempo o della materia: arco, rilievo, apice di iceberg ghiacciato sorge, elevandosi in un turbinio di flutti, onde e  rollii di correnti nordiche. Dove esattamente è il confine, dove finisce la terra e inizia l’acqua, dove l’oceano si perde a vista allo sguardo, domina e regna incondizionato, dove inizia quel luogo originario, della terra alle origini nel mentre della creazione, Genesi descritta nell’Antico testamento o grande diluvio biblico mandato come punizione divina su tutta l’umanità? Il vento passa attraverso le onde disegnando fluttuazioni, orbite cosmiche, sorprendenti circoli d’energia d’impronta divina sull’acqua.
La forma è là granitica, immota come una soglia che sorge attraverso l’oceano, un antro, un luogo di passaggio verso un altrove, quasi fosse il limite ultimo d’una dimora o castello di ghiaccio all'estremo della terra mentre immoti circoli d’energia si perpetuano in forma ciclica sulla superficie dell’acqua.


Antartico II





La terra è là granulare, granitica, squamosa come la pelle di una serpe, come quando sassi e limo restano pesantemente depositati al suolo, violentemente portati  a riva dalle correnti marine sulla banchina sottile che separa l’acqua dalla sabbia. La creatura marina, un elefante d’acqua dei mari antartici, ugualmente appare distesa a riva come fosse essa stessa un’epidermide rugosa in continuità con l’altra, a squame grigiastre incise sul suolo. Poi la sabbia invade lo spazio dell’immagine ovvero un amalgama di sassi e limo e l’acqua, elemento primario, avanza e irrompe: l’oceano-mare ovunque intorno. La forma immensa dell’animale sul suolo granulare e sgretolante si staglia in rilievo con un volto dai tratti quasi umani simile a una creatura preistorica, un fossile o un anfibio d’acqua magnificamente adagiato sulla terra mentre una marea invadente avanza fino a noi per guazzi, ondate e sciabordii di moti ondosi. Un equilibrio perfetto e sottile, in sé stesso indisturbato vige in quello scenario naturale dove tutti gli elementi si corrispondono di uno stato di purezza, di innocenza primigenia ritrovata al momento della fotografia. Là, lo sguardo del fotografo pare fondersi con quello del paesaggio e la costruzione dell’immagine riemerge, nitida di fronte agli occhi mentre tutti gli elementi si rispondono, magicamente si ricompongono in un equilibrio perfetto: le linee, le forme, il vento, gli esseri, lo sfondo e la luce che gioca attraverso, incidendo le sue trame in riflessi e  ombre su quello.

II. Santuari

Sulle isole Galapagos o in Madagascar queste fotografie  raccontano di una vegetazione endemica, originaria dei luoghi minacciata dagli insediamenti urbani invasivi: specie di animali e piante rare come le orchidee o i lemuri,  di dune naturali di sabbia scavate dal mare e letti di fiumi prosciugati, di immense tartarughe d’acqua o correnti di lava in eruzione attraverso i vulcani attivi. Superfici calcaree e taglienti come vetro in frantumi appaiono ricoperte da conchiglie e stalagmiti di accumuli minerali, foreste pluviali e colonne di fumo si stagliano verso l’alto attraverso l’aria disegnandosi in linee grigiastre all’orizzonte dagli insediamenti degli indigeni autoctoni.

Iguana Marina, Galapagos (2004)

Fotografata un primissimo piano nel corso di un reportage alle Galapagos  Salgado racconta a proposito dell’iguana al momento dello scatto: “ guardando una delle sue zampe anteriori improvvisamente ho visto la mano d’un guerriero del medioevo. Le sue squame mi hanno fatto pensare a una giubba di maglia di ferro sotto la quale ho visto dita simili alle mie". La zampa espansa e enorme dell’animale in primo piano ci fa pensare a una mano del tutto umana, istrionica, ricoperta di alluminio quasi o di acciaio rigido e grigio come indossasse appunto un guanto o una maglia metallica per proteggersi dai predatori o dagli agenti atmosferici esterni. Artigliata fende la terra, al fondo della medesima affonda l’unghia nel vivo della carne o del suolo. Artigliata appare simile, tuttavia, a una mano umana vista come un scintillante magnete di metallo in una postura d’allerta o di vigile posizionamento. E’ insieme la corazza dell’animale che ci portiamo addosso e la parte istintiva e viscerale presente al più vivo dell’umano.
Come sottolinea il fotografo: “con Genesi ho voluto raccontare la dignità e la bellezza della vita nelle sue diverse forme e mostrare come abbiamo tutti la stessa origine.”  Il termine non assume infatti per lui una connotazione prettamente religiosa ma indica “ quell’ armonia delle origini che ha permesso la diversificazione della specie. Ovvero, il prodigio di cui facciamo tutti parte”.

Ritratti di  indigeni



Un volto-maschera appare scavato dal tempo e dalla ardue condizioni di vita nella foresta amazzonica per questo primo piano scattato tra le popolazioni indigene con cui Salgado entra in contatto nel corso di uno dei sui innumerevoli viaggi nelle isole indonesiane della Nuova Guinea.
Volto sciamanico, sguardo scintillante di ardore, di vita contro  la secchezza scavata dei suoi tratti, incisi sulla pelle come sull’aridità d’un suolo prosciugato di vita, dissecato da una calura intensa o da una siccità esperita nel tempo al massimo grado. Pigmenti di colore bianco simile a una vernice naturale ne coprono il viso  ad eccezione degli occhi, intensamente scintillanti e diamantati sul fondale opaco. L’uomo fissa il proprio sguardo dritto di fronte all’obbiettivo in primissimo piano, vigile, attento, forse incuriosito dalla macchina, con questa sua intelligenza manifesta del corpo in ascolto e in affinità intima con ogni minima vibrazione o movimento che gli accade intorno, lui detentore inconsapevole di tale conoscenza sottile delle leggi e dei segreti del mondo naturale  che lo circonda.

Nella fotografia successiva due indigeni della Nuova Guinea sono sorpresi o ripresi dalla macchina durante una cerimonia rituale di danze e canti ancestrali denominata “sing-sing” apparendo come dei veri e propri performer avant- lettera intenti a suonare i loro flauti rudimentali modellati nel legno della foresta. Cappelli piumati, volti ricoperti di maschere di bianca vernice, moltitudine di colori cui allude la fotografia, i corpi appaiono decorati dai loro propri oggetti e collane rituali scintillanti in metallo pesante, i capelli acconciati in una sorta di parrucca naturale decorata di piume,  lo sguardo centrato all'obbiettivo in una presenza scenica ineluttabile; loro, essenzialmente intenti a intonare o accordare gli strumenti nel corso della cerimonia . Ornamento, essenza e presenza totale della loro aurea luminosa confluiscono insieme in un’immagine in sé stessa perfetta, compiuta senza necessitare d’ altro commento o traduzione.



 “Baia di Moramba” in Madagascar (2010)

Isola vulcanica sospesa come una grande nuvola artificiale,
un’eruzione dal mare o dal sottosuolo, una visione, un sogno, un’immagine, irreale fluttuante a tratti nella memoria si materializza, si rende manifesta, riappare lì d’un tratto come in un sogno ad occhi aperti. Grandi, immensi alberi secolari ricoprono il suolo dell’isola, uno in particolare al centro con le sue radici profonde che si gettano e diramano  dentro la terra fino a raggiungere le profondità del sottosuolo per ritornare all’oceano e ricongiungersi alla liquidità prima dell’origine. Le chiome ramificano verso l’alto in una radiazione luminosa e clorofilliana di presenza, della loro primaria verde-smeraldo natura.
Una zolla di terra resta fluttuante e sospesa in mezzo all’oceano, al largo della Baia di Moramba; sorge quasi come un Eden terrestre, una piccolo pezzetto di suolo o isola proliferante di vita in mezzo alla vastità calma e piatta dell’oceano al largo del Mozambico.Come una  nuvola di vita si innalza e prende corpo
_ sgretolante di secolari radici e ricoperta di una verde proliferazione di piante-
come un’impronta a sé, l’ultimo baluardo di salvezza tra la vastità immobile dell’acqua e l’involucro pesante e grigio del cielo, incendiario, carico sopra la terra di tempesta.


III Africa

Documenta un’Africa eterna abitata da tribù ancestrali e vista attraverso paesaggi maestosi e una natura selvaggia. Viaggia attraverso il deserto del Sahara nei tredici stati che attraversa considerato porta d’accesso all’Africa. Dai suoi primi viaggi in Ruanda, Burundi, Zaire e Kenya Salgado ritrova in Africa quella vastità selvaggia che egli considera “ l’altra metà del suo continente”: la stessa vegetazione, gli stessi minerali, le stesse origini per quegli schiavi che dalle coste africane venivano condotti dai portoghesi in America latina, infine una simile maniera di vivere, parlare, alimentarsi e mettersi in relazione nella comunità. E’ lì, nel corso di trent’anni di viaggi e innumerevoli progetti fotografici che Salgado si trova faccia a faccia con paesaggi di una ineguagliabile bellezza ma anche di fronte ad emergenze umanitarie estreme documentate dai reportage come la siccità in Sudan,  gli esodi di massa dei profughi dal Mali, il Ciad o l’Etiopia, infine le atrocità perpetuate in paesi come il Ruanda nel corso della guerra civile. E’ lì in quel continente stigmatizzato e insieme sconfinato che Salgado scopre la propria voglia di mettersi in gioco, la passione assoluta e ineguagliabile per la fotografia fino a farne la professione di tutta una vita. I numerosi viaggi portano coerenza al suo lavoro,divengono a poco a poco strumento per vedere, comprendere, seguire i cambiamenti di uno stato di luoghi nel tempo e nello spazio e mostrarli attraverso le immagini, infine un modo di convertire il  piacere dell’istante in progetti umanitari di lunga durata. La sua fotografia si esplica nello specifico come una forma di scrittura appassionante attraverso la luce ma, anche, nelle sue parole, come "un linguaggio molto potente, universale come solo può esserlo quello dell’immagine perchè non necessita d’altra traduzione e si situa innegabilmente nell’attualità del presente".  

Zambia


D’ inverno nello Zambia le notti sono fredde, all’alba l’acqua dei laghi ancora tiepida per il sole della giornata precedente evapora e condensa in affascinanti banchi di nebbia che lievi versano sopra il paesaggio avvolgendolo completamente della loro tenue effusione  sullo sfondo desertico e spoglio  della savana. Una vastità immensa, un mare liquido di foschia, traslucido e riflettente simile a uno stagno di riflessi argentei ne emerge. Sole poche chiome in alto restano ancora visibili, forse il profilo di altorilievi o arbusti appena riconoscibili a distanza, mentre tutta la visione in primo piano appare completamente sommersa e avviluppata da questo deserto apparente d’acqua, di fumo o di lava argentea, liquida allo sguardo. Una sola strada sottile è tracciata là al centro in un zigzagare di bianco che procede verso l’orizzonte e lo incide, lo taglia, lo appropria in mezzo a quel manto lucido e scintillante d’acqua e melma apparente.
Ancora dall’ Africa del sud, vicino al deserto del Kalahari sono i ritratti di volti ripresi in mezzo alle tribù ancestrali dei Boscimani che vivono sul territorio.
Nella loro più importante danza rituale in Namibia le donne cantano e battono le mani in circolo mentre gli uomini danzano in un cerchio più ampio intorno a loro  su uno spiazzo circolare al centro del villaggio; il ritmo frenetico della musica che si instaura sullo sfondo degli arbusti e dei cespugli nella savana accompagna lo sciamano attraverso il suo viaggio rituale verso l’aldilà. L’immagine coglie il  senso di una danza sacra che riconnette il singolo alla comunità, e disegna un scenario simbolico, di passaggio attraverso il quale il mondo materiale entra in contatto  con quello spirituale o l’uomo si riconnette alle forze sottili della natura che muovono il cosmo.

Ritratto di una donna dalla tribù Himba   (Angola)

Si dice che le donne restavano sole nel villaggio, assumendo tutto il potere su di loro quando gli uomini partivano per lunghe trasumananze alla ricerca di acqua e nuovi pascoli con tutto il loro bestiame.
Questa donna appare seduta sulla terra  in posa meditativa, scorta di profilo obliquamente alla macchina eppure a distanza ravvicinata d’essa, forse intenta a una sorta di preghiera o invocazione silenziosa ad occhi chiusi per il ritorno degli uomini. Salgado la sorprende in tale  sguardo estatico, nel silenzio della sua postura, nella solitudine essenziale della sua figura volta  verso l’interno, ripiegata su sé stessa in atteggiamento di silenziosa contemplazione o, semplicemente di attesa, nella sospensione del momento presente. Ne emerge la dignità  solitaria e l’intrinseca bellezza di un ritratto quasi regale sottratto al fluire consueto del tempo nel villaggio.  I capelli sono intrecciati e accuratamente acconciati con ciocche in rilievo secondo lo stile locale, bracciali argentei scintillano maestosamente ai suoi polsi mentre il corpo resta per metà scoperto, denudato secondo l’usanza indigena.


Genesis, the origin of creation


Una mandria di bufali è vista dall’alto, riunirsi  in un grande branco al centro di una terrapieno nel parco nazionale dello Zambia. La foto scattata silenziosamente a distanza da una mongolfiera per non interferire con i movimenti degli animali appare immersa in un effetto pittorico quasi astratto. Vediamo questo piano infinito attraversato da onde e fluttuazioni di branchi, pensiamo a spostamenti di animali in massa a distanza, a orme di passi viste dall’alto, all'immagine d’uno sciame, d’uno scorrimento di acque, d’un fiume in espansione e straripamento verso un immaginario orizzonte oceanico al fondo della foto, quasi a una grande superficie mossa e movente tinteggiata nelle tonalità argentee del grigio, del bianco e del nero  fino all’orizzonte. Al di sopra un cielo carico, trafitto da una luce irradiante per punti di intensità attraversa le nubi al tramonto. E’ a partire da quella luce  d’origine quasi divina, scendendo dall’alto come una rivelazione o un’apertura dall’infinito verso la terra più in basso che Salgado crea la potenza dell’immagine e, insieme, coglie l’idea  di genesi come di un ritorno all’origine della creazione.  Nel testo biblico della Torah , Javé, il Dio dell’Antico Testamento creò l’universo, la terra in sei giorni e il settimo si fermò a contemplare l’esito della propria creazione. E' anche ciò di cui parla “Genesi “ di Salgado nella foto: il grande mistero della creazione del mondo, le forze della natura al lavoro, Dio al di sopra di esse, l’inizio e la fine di tutto quello che esiste come leggiamo all’inizio della Genesi:“Io sono colui che io sono. Questo è il mio nome per sempre, questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione.”
 “L’io sono”, il primo nome dato a Dio nella Torah qui è figurato, colto come questa luce che scende dall’alto e irradia simile a una rivelazione divina al fondo di un  cielo coperto e oscurante al tramonto, mentre disegna il suolo, la superficie del mondo, con linee di vita che proseguono verso il loro proprio infinito e iscrivono parole su un Libro Sacro, quello dell’universo: il tessuto significante della terra.    



mercoledì 26 ottobre 2016

Sperimentazioni visive e poetiche: partendo da “Bologna dopo Morandi 1945-2015”











Dodici stazioni da percorrere come attraverso una serie di tappe o soste obbligate di riflessione e visione nel tragitto stilistico e temporale che segue e traccia l’evoluzione dell’arte bolognese dal dopoguerra ai giorni nostri nella mostra attualmente in corso a Palazzo Fava, “Bologna dopo Morandi 1945-2015” curata dal noto critico d’arte Renato Barilli. Una settantina di artisti, l’epicentro di una città o meglio di una zona geografica intorno alla quale prendono forma differenti esperienze pittoriche e artistiche dal ‘45 al contemporaneo , infine una personalità indiscussa e catalizzatrice, quella di Giorgio Morandi, dalla quale inevitabilmente dover partire per ridisegnare l’oltre, il post o il dialogo con quel passato. Morandi spartiacque in ogni caso tra l’arte moderna e contemporanea nel panorama bolognese, limite inglobante da dover oltrepassare o bypassare per andare all’incontro con altre modalità espressive e personalità artistiche forse meno note, ma anche, punto focale del cammino aperto dall’avanguardia fino ad abbracciare tutte le possibili evoluzioni e involuzioni del post-moderno per approdare al panorama variegato dell'arte contemporanea.

Cronologicamente si parte dall’influenza post-cubista degli anni ’30, al cui vertice resta la pittura di Sergio Romiti- nature morte dall’eredità morandiana che sfociano in una forte ispirazione analitica e compositiva- cui fa seguito l’impetuosa ondata, la rivoluzione stilistica attuata dall’Informale in Italia alla fine degli anni ’50. La voce del critico più noto all’epoca in quest’ambito, Francesco Arcangeli, accompagna la transizione rilevando criticamente il passaggio dal limite estremo dell’ “ultimo naturalismo” alla nuovo esubero di giovani artisti informali come Ennio Morlotti, Mattia Moreni, Alberto Burri e Mandelli. L’inevitabile via d’uscita dalla sperimentazione estrema e univoca dell’informale sarà segnata da una nuova “ricerca della relazione” raccontata da artisti come Concetto Pozzati i cui lavori confluiscono nel clima della pop art e del new-Dada degli anni ’60. Altre stazioni di rilevo nella mostra sono la Scuola di Palazzo Bentivoglio con i due poli di Arte Povera (Pier Paolo Calzolari) e ribaltamento della medesima in un clima post-moderno e citazionista con Luigi Ontani. Uno spazio è ancora dedicato ai fumettisti incentrati attorno alla personalità di Andrea Pazienza e un’altra sala all’esperienza fotografica sperimentale e solitaria di Nino Migliori. Infine la Nuova Officina Bolognese apre uno spazio di ricerca nell’ambito della video-arte, dei nuovi media, del digitale e dell’installazione video cui è lasciato il secondo piano della mostra come il punto più estremo, l’approdo ultimo in cui confluisce il “post-post” della metafisica morandiana.

Improvvisazioni poetiche … attraverso il visivo dall’immagine alla parola



Punto focale dal quale partire per tracciare nuove cammini stilistici e formali, contraffare o rovesciare i presupposti nelle sperimentazioni successive resta, al centro della prima sala, una delle “nature morta” di Giorgio Morandi nell’immediato dopoguerra (1948). Pochissimi oggetti, perlopiù bottiglie viste su uno sfondo neutrale e ricondotte a una forma essenziale, all’assolutismo di percezione della visione morandiana. Lì lasciate in una sorta di “meditazione visiva” o meglio nella contemplazione silenziosa delle medesime per giorni e ore fissati nella solitudine di uno sguardo. Quasi Morandi intendesse lasciar parlare le cose, la loro presenza imperante, il loro “prendere spazio” nell’eco d’una percezione espansa, intima e insieme impersonale. 
Dipingere diviene qui il gesto di “lasciare essere”o parlare le cose e insieme permettere loro di assorbirci, assimilarci dentro la loro magnetica presenza o in una imperscrutabile atmosfera di silenzio e sospensione . In quella luce particolare gli oggetti inanimati divengono animati e l’artista come lo spettatore arrendendosi all’esperienza solitaria del proprio sguardo si trova di fronte a un mondo di oggetti famigliari che come presenze stranianti lo conducono all’apertura e all’ascolto dell’altro: l’ assoluto ritrovato attraverso il mondo delle cose nella percezione metafisica d’uno spazio condiviso.


Giovanni Ciangottini











L’astrazione ampia e distesa sulle tonalità del blu pare ricongiungersi a quelle del grigio mercurio,del bianco e dell’azzurro slavato o tendente al cobalto nelle sue progressive gradazioni e degradazioni. Guazzi di colore si compongono in montaggio libero sulla tela tra il blu e i suoi  sfumati come collage di mattoncini colorati, pezzi di puzzle in una giocosa astrazione dalla vibrazione calma e pacificante del bianco dominante al centro. Macchie bluastre, invasive saturanti scivolano ai suoi lati fin quasi a toccare le tonalità argentee spente, azzurrognole e saturnine del grigio.

Sergio Romiti








Un cosmo di oggetti famigliari, perlopiù in interni borghesi assumono la lucidità implacabile, le sembianze sottilmente inquietanti, kafkiane quasi nella visione di forte ispirazione post-cubista di Sergio Romiti. La percezione di realtà nella scomposizione primordiale delle forme, nell’esasperazione dei colori in primissimo piano supera il naturalismo dando adito a una visione astratta e insieme incisiva, lucida e devastante. In “interno di macelleria” la scomposizione primordiale delle forme domina sulla tela là dove si ripercuotono esasperanti linee spigolose, acute piuttosto che circolari nella forma degli strumenti di lavoro della macelleria e le masse divengono abitate, espanse oltre ogni prospettiva fino ad anticipare la dissoluzione formale delle sue ricerche successive.

Loro, gli oggetti come in Morandi appaiono lucidamente presenti davanti a noi, ma ora visti a distanza ravvicinata, quasi al microscopio, scomposti in linee primarie, morbosamente abitati e dunque sottoposti a una scansione mentale e strutturale dall’occhio analitico post-cubista: dissociati, esasperati, resi presenza di pure linee e masse circolari ritagliate e sospese in primissimo piano. Sono nel Romiti di questo periodo interni di cucine, di macellerie, visioni di oggetti o strumenti di lavoro come dei ferri chirurgici che il padre utilizzava nella professione di medico. Strumenti di lavoro o di tortura sembrerebbe, visti in modo ravvicinato dall’interno all’esterno attraverso una luce fredda, riflettente di cromature metalliche che non lascia adito ad alcun respiro. Ancora, sono i verdi-blu tentacolari degli interni kafkiani che come meccanismi di persecuzione appaiono freddamente analizzati in un’altra tela dove gli oggetti come tali scompaiono mettendo a nudo la loro primaria struttura per divenire pretesti o metafore della dimensione mentale e numenica cui sottendono.

Dalla seconda metà degli anni ’50 è il pieno esubero nella giovane generazione dell’arte informale in Italia superata la barriera di quello che Arcangeli, il critico più influente dell’epoca definiva “l’ultimo naturalismo”. Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, dopo il lancio dell’atomica, le ideologie politiche e le poetiche moderniste come i precedenti equilibri mondiali appaiono liquidati mentre si assiste alla progressiva virata verso il post-moderno. La ricerca dell’arte è volta alla “natura profonda” della realtà, non già sua imitazione o astrazione essenziale là dove si rifiuta ogni concetto formale e l’impatto materico assume il sopravvento: il ritorno all’aspetto primordiale e innato della materia, del segno o del gesto che sottende la medesima, l’enfasi sull’azione spesso istintiva alla base della realizzazione pittorica, infine il ruolo fondamentale assunto dal corpo e dallo spazio performativo .

Ennio Morlotti, “studio di nudi”, 1954




Nell’esubero di materia e colore i filamenti rossicci e vermigli, su fondo verde fresco e boschivo si confondono tra presenze di fibre vegetali e scie di figure alla deriva. Linee ondulate e vibranti fanno pensare ai corpi nella danza, filiformi e in movimento su una pasta densa e materica: rosso vermiglio sulle tonalità verdi e brune che evocano la terra, la presenza degli arbusti, il fondo boschivo. Ancora evocano il sostrato autunnale impregnato di melma e fango e le foglie mischiate all’ocra e al rossiccio del sottosuolo.

Sala Caracci: su un lato della parete le evanescenti liquidazioni dei volti in Bendini. Le figure sono ricondotte progressivamente da un contorno ancora riconoscibile alla sostanza primaria dell’informale materico per trasformarsi in macchie spumose, impronte aeree del bianco, sindoni e contorni di corpi impressi su quelle, infine nuvole galleggianti in un marea di nebbia opaca che svapora a poco a poco per lasciar posto alla bufera del rosso.

Al lato opposto della sala a sua volta affrescata di magnificenti figure barocche nell’esaltazione della carne e della grazia seicentesca si instaurano in un arduo dialogo le “figure” grevi e massicce di Mario Nanni dal tratto corposo e pieno. In entrambi gli artisti, pur negli opposti dei loro stili, emerge la diluizione d’ogni concetto formale a favore del segno, della traccia o del sostrato materico di colore in primo luogo contro l’idea di figura come unità e soggettività al centro della pittura. In entrambi i casi il processo messo in atto dall’informale trasforma per stadi successivi il volto portandolo sempre più lontano per riconfigurarlo sulla via del segno e della materia. In una prima versione di Nanni tronco e bacino unicamente restano al centro della tela, in primissimo piano là dove la figura è amputata, tagliata e posta in evidenza nel solo settore del busto, sviscerata con lente di ingrandimento per fasce muscolari scavate nella pasta pittorica, tagliata a vivo in volumetria sul fondo grigio opaco, vivisezionata quasi in linee corpose al centro del quadro.






In una evoluzione successiva quelle stesse forme e masse grevi di presenza esplodono al centro della tela là dove ogni traccia di figura è scomparsa per lasciar spazio unicamente a brani o pezzi di corpi dal segno violento e trasgressivo, nel loro punto più estremo a insorgenze improvvise di colore grigio opaco o nero. Guazzi di fango sulla tela e corpi smembrati, tagliati a vivo quasi in un ammasso di pezzi galleggianti nella marea calma di un “dopo la tempesta”. Sul grande mare del grigio denso e avvolgente masse di corpi si spostano alla deriva, in primo luogo la deriva del continente-figuraormai giunto alla sua liquidazione e riconversione nel magma informe di colore cui sottende.



Rosalba e Romana Spinelli: gli opposti si ricongiungono

Il foglio è bianco, la tela è vuota, nitida si direbbe, oppure svuotata di ogni presenza. Poi lieve compare questa volo di airone ad ali dispiegate in lontananza, un frammento di infinito appenninico, la linea appena tracciata a distanza lontanissima come l’utopia di una qualche altra esistenza, la punta di un iceberg che leggera diviene volo di creatura alata attraverso all’orizzonte tuffandosi nel suo infinito.

Verde su bianco del foglio, una colatura a china appena visibile, cime di colline si delineano come il contorno di orizzonti chiari molto più lontano, di linee nette e frastagliate irradianti se viste dal mare, a distanza, in una giornata chiara e luminosa.

Ora, al contrario, ( Romana Spinelli) la tela è cumulazione di presenza, ammasso vegetale, accumulo o proliferazione clorofilliana di piante forse per l’effetto del sole che a contatto con l’aria genera crescita, rigoglio di vita,
riproduzione. Qui la vita diviene esubero di presenza, 
eccesso quasi e riempimento luminoso delle forme, 
un troppo-pieno dell’abbondanza, della prosperità fertile dalla terra e dei suoi frutti, dai colori gioiosi d’una chioma rossiccia e crespa con spiragli o sentieri aperti dal vento tra le sue trame. Sentieri aerei appaiono tracciati in mezzo ai campi di grano come d’una scrittura simbolica, una voce dall'alto espressa attraverso l'elemento invisibile del vento: messaggero divino in parole criptate inviate dall'universo soltanto a chi sia in grado di riceverle.

In Germano Sartelli un grande ovale è accumulo nuovamente di presenza, magma materico, se vogliamo magma di vita espressa nelle sue energie o forme primarie ma concentrata e compressa dentro questo piccolo contenitore bidimensionale sulla tela. Simile a un collage-montaggio di pigmenti colorati e carta crespa, stropicciata, trattata, decolorata accartocciata e re-incollata insieme alla vernice. Lo spaccato di un piccolo mondo prende forma, s'impone in trompe-l'oeil quasi uscendo dalla tela con le sue forme primitive, simile un mondo in sé, un universo rinchiuso dentro la forma ovoidale forse di un cranio o di un simbolico contenitore di storie e immagini celate nei suoi anditi; tra le pieghe della sua carta e dietro le sue stratificazioni di pittura.



Oltrepassare l'informale, proseguendo al piano successivo della mostra, significa per Concetto Pozzati abbracciare la via della pop art in Italia verso la fine degli anni '60, sperimentando con i più svariati materiali provenienti dal mondo industriale o da quello della produzione di massa e, soprattutto, citare ironicamente, rileggere, entrando in un dialogo paradossale con i predecessori fino al punto di liquidarli come nell'opera “suicidio di Grosz”, artista dell'avanguardia tedesca nella prima metà del '900.



 
Un pannello enorme, immenso, riempito di figure citate o ripetute e dai più svariati oggetti in una serie di teche successive in vetro occupa l'intera parete della sala, voluminosa, invadente asserzione di presenza venendo verso di noi visivamente con il suo carico di oggetti e simboli dal mondo contemporaneo. La medesima figura cui il titolo allude, Grosz probabilmente nel suo improvviso collasso al suolo in una sorta di auto-eliminazione voluta da Pozzati con tratto incisivo e caricaturale, si ripete in ogni vetrina con la variante di oggetti estranei aggiunti intrusivamente sperimentando con i più svariati materiali. Dunque, la scena ritorna ogni volta identica e la figura è  travolta al suolo, barrata, ricoperta o schermata da altri oggetti installati direttamente nel riquadro mentre la luce a neon percuotente della sala la illumina a pieno giorno quasi dissacrando o rovesciando con giocosa ironia l'atto di una morte annunciata della quale ci si dimentica. E noi spettatori non possiamo che restare attratti o meglio sopraffatti dalla miriade di oggetti, intrusioni e citazioni del quotidiano, esubero di materiali aggiunti in un ritorno alla realtà del mondo industriale e consumistico. La fine annunciata dell'artista, ironica e dissacratoria, è anche quella di un mondo o di modo di pensare e fare arte nelle avanguardie in tutta la prima metà del ‘900 cui il quadro allude mentre la svolta di Pozzati verso la pop art sancisce già il superamento dell’ondata predominante dell'informale in Italia negli anni ‘50. Allo stesso modo, le allegorie politiche, grottesche e macabre di Grosz sorte alla luce della storia tragica europea negli anni '30 , in primo luogo  il suo ritratto appaiono immolate, estinte e insieme riviste ironicamente alla luce di una nuova società dei consumi. E' il  mondo industriale ora là al centro della scena la cui proliferazione di oggetti e residui, prodotti e loro rifiuti, materiali e loro scorie pare prendere il sopravvento e investire fino a far soccombere il disegno grottesco e caricaturale dell'artista dalla generazione precedente.



 

Un mondo di cose si impone, di “oggetti trovati” intrusioni dalla realtà della non-arte, dalla produzione di massa ( agli antipodi per assurdo della poetica delle cose di Morandi ma pur sempre lasciando spazio alle medesime) mentre Pozzati sperimenta con materiali di tutti i tipi e con una tavolozza esuberante di colori.
Sono gocce di pioggia o lacrime artificiali in cristalli di vetro, ingessature o bende in una delle figure, quadretto in plastica dentro il riquadro, veri e propri sassi, fasce da ardere e cannucce, nuvole di nylon o di cotone sporgenti oltre il piano, pagnotte vere e proprie o frutti finti in plastica. E, ancora, una linea di corrente elettrica, una luce a neon, inserzioni di finte piante o vegetali. Una figura barrata sopra da un nastro adesivo nero è vista a specchio, poi intrusioni dal quotidiano come pantofole, orologi, ventagli, fiori di carta dipinti sulle pareti, carta da parati, tappi di sughero, poi, grandi orecchi sferici in plastica, bandoli di fili attorcigliati insieme senza potersi districare, cornici dentro altri cornici, quadri nel riquadro, specchi, frecce e indicatori di direzione. Chiudono la serie lampadine accese, impronte di piedi in cammino, ritagli di vetri o di specchi, collage infine di scatole chiuse da aprire o decriptare ognuna con dentro una storia, un mondo di risorse per scrivere, riscrivere e insieme contraffare il senso dell'originale.

I nuovi artisti : Marcello Jori


 

Diamanti sfaccettati in “giacimenti” del sogno e tizzoni incandescenti animano le scene notturne di Marcello Jori. Espansi e magnificenti in un bagno di colore e di luce, immensi dalla tela alle pareti, i suoi “giacimenti” di pietre preziose si intercalano e si compongono in mille intagli geometrici e nella sfaccettatura di infinite vibrazioni colorate. Giacimenti sotterranei vengono alla luce in fiumi di blu oltremare e correnti d’oltre-oceano, in pietre e scorrimenti d’acqua, in verdi smeraldi e lapislazzuli trasparenti e bluastri, in rubini e aranci splendenti fino a toccare la solarità del mezzogiorno, infine in montagne di cristalli intagliati in rossi coralli sporgendo fuori della tela in esuberante presenza.

Sono giacimenti di idee, di creatività o di bellezza insperata, 
pietre dure e granitiche divenute d’un tratto gemme preziose, 
 cristalli di roccia raffinati fino a diventare della brillantezza rara dei diamanti.
Sono liquidi segreti sgorgati fuori da fonti sotterranee, 
e giacimenti di risorse insospettate trovati per caso scavando  al di sotto.
Sono città sepolte o ricoperte da tempeste di sabbia e polvere antica riportate alla luce trasformando la loro oscurità in questa pioggia d’oro vibrante di colore.


La città ora è vista dall’alto in ripresa aerea notturna; scenario apocalittico e futurista appare come una distesa satellitare di brillanti pianeti, un reticolo stellato su un cielo ricoperto di diamanti atterrando nella quasi totale oscurità della notte.

Nelle fotografie di Nino Migliori 













Sui tavolini di marmo e i ripiani in pietra dei caffè parigini i simboli, le tracce i segni grafici o le firme incise dai clienti occasionali, dai passanti o dagli avventori abituali di quei locali hanno trasformato le anomale superfici in diagrammi di segni, in graffiti e linee di mani simili a cartografie di vite lì  rimaste incise, come un destino, insieme alla luce in riflessi e loro sdoppiamenti. Più tardi quei graffiti sono divenuti con Nino Migliori ingrandimenti fotografici, stampe o immagini trasferite dai ripiani ai supporti sui muri . L’idea di metamorfosi, di traccia appare così espansa in primo piano  sottoposta a sperimentazioni di filtri colorati in camera oscura fino a trasformarsi in altro e altro ancora. Apre la visione a mondi immaginari, evoca l’idea di un universo popolato da pianeti fuori dalla sfera terrestre, visualizza mappamondi, forme di vita allo stato nascente, ecografie di pianeti o di grembi materni, sfere concentriche e celesti, paesaggi astratti pullulanti di vita nella vibrazione del rosso, del rosato o del carminio.





martedì 4 ottobre 2016

"Dante Eco, spirito green" ( viaggio fotografico tra mistici e poeti ) a Palazzo Rasponi a Ravenna



Un poeta, Dante, il sommo, esule dalla propria città per ragioni politiche in un’Italia frammentata, dilaniata da conflitti tra papato e impero, lui costretto al perpetuo esilio da una corte all’altra fino ad approdare a Ravenna dove termina l’ultima cantica del “divino poema” pietra miliare della cultura e della lingua letteraria del nostro paese; poi un santo dal misticismo e dall’estasi religiosa generati nel contatto con la natura, Francesco d’Assisi, che rinunciando a tutti i suoi averi sulla via di Cristo e della povertà sceglie di vestire un saio di tela grezza legato da una semplice corda e fonda  più tardi l’ordine francescano per dedicarsi completamente alla vita spirituale. Lui che comprendeva e parlava la lingua delle creature, degli animali, dei boschi e del cosmo abitato dalla presenza infinita del divino celebrata nel celeberrimo  poema in italiano volgare “Il cantico delle creature”. Infine, l’ultima figura profetica dello stesso periodo storico è il precursore e interprete delle Sacre Scritture nato dell’entroterra cosentino Gioacchino da Fiore teologo e mistico medievale dalla dottrina monastica rigorosa che confluisce nella fondazione di un nuovo ordine Florense. Nella sua interpretazione profetica del Vangelo elabora una teoria della Trinità  cristica vista attraverso le tre età della storia che sarebbero culminate con l’avvento dell’era dello Spirito.  L’eco di queste tre figure attraverso i luoghi a loro legati è quello che ispira e tiene insieme il progetto fotografico “ Dante Eco spirito green” a cura di Francesco Tassone  con le fotografie di Giampiero Corelli visibile fino al 9 ottobre nella splendida cornice di Palazzo Rasponi a Ravenna.   

Reinterpretare, ri- fotografare  i luoghi dell’entroterra ravennate, la pineta prima fra tutti che Dante ha attraversato e volto in versi, poi quelli interiori, simbolici dove si esplica e prende forma e intensità la vita del santo francescano, tale operazione già implica una trasmutazione poetica della materia, nonché  il porre una relazione innegabile tra l’ecologia come l'amore e il rispetto per il pianeta e poesia come la ricerca del senso e della forma dell’essere. Perché amare la natura, prendersene cura, la cura di sé e dell’altro diviene uno dei gesti fondanti del progetto qui pensato “Dante Spirito Green” ispirato ai luoghi che come tracce spirituali ci riportano al sommo poeta e alle altre figure d’eccezione a lui associate nella mostra. Significa raggiungere nel modo più semplice e diretto possibile il divino, lo spirito o meglio la presenza d’uno spirito universale in esso che riconduca all’assoluto, a Dio o all’essere in qualunque modo lo si voglia denominare. Equazione perfetta che lega nel suo aspetto essenziale l’ecologia e la poesia, là dove l’amore e il rispetto per il cosmo divengono strumento per ritrovare e esprimere l’anima divina nell’uomo, allo stesso modo la sua relazione alla parola e alla poesia.


Le tre immagini della prima sala espositiva ci riportano a uno dei temi fondanti dello scrittore e teologo Gioacchino da Fiore, quello della trinità interpretata in tre epoche della storia terrena,  l’età del Padre corrispondente alle narrazioni dell’Antico Testamento, quella del Figlio rappresentata dal Vangelo e dalla venuta di Cristo ancora in corso, infine quella dello Spirito coincidente con un prossimo avvenire dove una più elevata umanità e una nuova chiesa spirituale e libera avrebbe preso il posto di quella precedente. Nella prima immagine, il corpo del Cristo crocifisso appare disteso di fronte alla finestra absidale e allungata d’una cripta scavata nel sottosuolo, nell’abbazia fondata da  Giacchino a S. Giovanni in Fiore.   Antro di luce luminoso la cui sola sorgente sembra provenire da quell'unico punto di luce sopraelevato, esso irradia proiettandosi attraverso una scalinata di gradini scavati nella pietra fino a raggiungere il suolo e il corpo scolpito del crocifisso nella totale oscurità in cui è immerso il luogo. La figura di Cristo è deposto  su questo piano sepolcrale, dal sudario alla pietra e ancora inciso dei segni e impresso delle sue stigmate: scarno, denudato, apparentemente privo di vita eppure disteso esattamente di fronte a quella scalinata o sorgente di luminosità divina nella totale oscurità che precede l’ascesa verso l’alto, il ritorno all’assoluto o il congiungimento al Padre. Forse che la sua anima ha già lasciato quel corpo impresso nel sudario e deposto sulla nuda 
pietra in attesa di risurrezione.

Nell’immagine successiva la seconda persona della trinità, il Figlio si incarna nel volto d’una statua, fotografata in sfocatura intenzionale o nell’effetto di duplicazione voluta dell’immagine attraverso una miriade di proiezioni che si sovrappongono e in parte dileguano, incerte, sfuocate o di difficile leggibilità sull’emergere imponente del fondo. Il volto dell’umano appare perduto nella nebbia della ricerca di sé, dei propri confini e di un dialogo inevitabile al Padre: volto in perdizione nel magma di un fluire umano e conflittuale di sentire, nel gioco dei riflessi e delle sovrapposizioni tra i diversi io che lo abitano, infine nella dissoluzione della propria immagine a tratti contro i contorni sfumati   dell’ambiente esterno.


La terza persona della trinità, lo Spirito, appare personificato in questa sorta di animale celeste o creatura quasi alata aprendosi un cammino con le sue corna simili ad ali in mezzo a un bosco di rovi, cespugli a macchia, alberi a arbusti.  Un bianco ariete appare in mezzo a una foresta di vegetazione selvaggia vista in un profondo chiaro-oscuro come una scia luminosa del bianco in mezzo all’oscurità della selva, dei sentieri e degli alberi circostanti. Traccia l’avvento di una nuova era per lo spirito, la via d’una spiritualità ancora in parte da percorrere per gli uomini, un regno dell’elevazione del pensiero e del ricongiungimento alla sua essenza divina. 



Nella seconda sala la presenza del sommo poeta, Dante, è evocata attraverso i luoghi che sono divenuti tracce spirituali e letterarie della sua vita nonché della sua opera là dove l’amore per il luogo, per la natura divengono elementi fondanti della parola poetica.  L’immagine ispirata alla pineta Classense vicino a Ravenna, uno dei topos letterari della Commedia dantesca si rifà al tema della rinascita, dell’elevazione spirituale o del ritorno alla luce dopo il lungo peregrinare del poeta attraverso i regni delle tenebre e dell’espiazione.  Nella versione fotografica di Corelli, esclusivamente in bianco e nero, una giovane donna abbraccia il figlioletto appena nato, vista di profilo, in primo piano, entrambi nudi fino al busto sullo sfondo delle cannucce e dei tronchi di pini contro il tramonto. Solleva il bambino al cielo elevandolo alla grazia del creato, alla potenza del divino nel gesto di tendere le braccia verso l’alto contro il tramonto per celebrare la nuova vita lì sopraggiunta, la nascita o la ri-nascita d’un tratto. Manifesta il ricongiungimento all’assoluto attraverso la natura e disegna la via dell’amore per il creatore partendo dall’amore per la piccola creatura.  Immagini dominanti sono qui quelle della nudità, della trasparenza e della rinascita.


Nell’ultima sala la visione fotografica di un Dante esule è ispirata dalla pineta limitrofa a Ravenna, a Lido di Dante. L’uomo vaga solo attraverso la spiaggia, in riva al mare sul bordo esterno della pineta,  lui il poeta, l’esiliato e il profugo, il religioso Dante. Dopo essersi smarrito in mezzo alla selva infestata di selve e aver intrapreso insieme alle sue guide spirituali il viaggio attraverso la dannazione infernale, l’espiazione e la redenzione- forse poco prima di cominciare il cammino di ascesa verso l'assoluto- si ritrova qui su questa spiaggia deserta alle spalle della pineta, vagando contro la costiera aspra e selvaggia spazzata via dai venti e battuta dai fiotti marini, lui l’uomo e il poeta , l’esiliato e il geniale visionario.