sabato 28 marzo 2009


Felicità, gioia, effusione, tenerezza ma anche rabbia, angoscia, impotenza...
Dalla nascita siamo portati, trasportati:
siamo gettati nel mondo, a noi stessi, agli altri,
preda di queste “forze portanti”, e per questo tanto più esposti, messi a nudo, nudi di fronte alla loro violenza,
al loro potere distruttivo come al loro potenziale creativo.

Camminiamo su un suolo bruciante esposti a continue eruzioni vulcaniche; eppure siamo portati allo stesso modo dal suo fluido energetico, indefinibile alla percezione, diventando uno con quella, mediatori incontrollati di qualcosa che passa attraverso di noi.
Siamo esseri in transizione, traversati da questa linfa vitale che affonda le radici altrove e diventa parte della nostra carne. Comincia ad abitarci; ce ne appropriamo segretamente in rari momenti di bellezza, sottoposti, poi, ai rischi della sua stessa distruzione.


L’esperienza interiore. Magma o vuoto indefinibile che ci lascia in uno stato di angoscia perenne o meglio di fibrillazione costante: questo vuoto-non-vuoto, assenza-essenza che mi divora e di cui non saprei dire esattamente.

Se il corpo mi dice, se sono detto dalle mie parole,
se sono scritto dai miei gesti,
se sono li’ e agisco in questo momento di libertà totale dove non devo più pensare, argomentare, dimostrare, dove posso esistere, dire che esisto semplicemente con il mio corpo,
come allora sono li’, partecipo assolutamente alla cosa
allora devo ricondurre questo mio gesto folle e insensato alla logica paradossale di una visione poetica.
Dietro c’é un pensiero che si disegna, che si scrive e che da valore aggiunto a questa cosa che altrimenti resterebbe li’, nell’infinitudine o meglio nella massa incodificata del suo atto illecito.


Impensabile concepire un mondo senza forza, crudeltà, necessità, ma anche senza la possibilità di riflettervi sopra, di fare senso del non-senso,
dell’angoscia esistenziale,della lacerazione inspiegata,
della visione-divisione sanguinante che si annida nelle viscere del corpo.
Pensare attraverso, pensare e fare, facendo, dando forma alle proprie impulsioni.
“Scrivere facendo”, come fosse un nostro doppio che si stacca da noi a un tratto;
un altro che mi guarda fare, mi interpreta, mi giudica, mi decostruisce e costruisce come linguaggio.
Allora il passaggio costante, intenibile dal di dentro di fuori é lo stesso che lega in pensiero all’azione, lo spirito fluido di chi agisce a quello del suo soffio rivelatore attraverso la parola.

Psiche, il pensiero-corpo, secondo J. L. Nancy, é medium costitutivo dove il pensiero sprofonda, diventa uno con la sensibilità della carne. Conosciamo, secondo J L. Nancy, per mezzo del nostro corpo: “la nostra finitudine é esattamente cio’ per cui conosciamo”[1].
Nudità: spogliarsi del sapere per cui “un pensiero si mostra come forza, tensione o mobilità: come un’agitazione che lo avvicina più al desiderio che non al puro atto teorico”
[2].


[1] Cfr. Jean Luc Nancy, Corpus, Edition Métailié, Paris 2000
[2] Ibdi., J.L. Nancy

Sono animali ritirati dentro la loro pelle, guscio o membrana.
Sono corpi lesi, offesi, feriti,
delusi, deludenti, spenti o che funzionano solo a tratti,
a giorni e a ore prestabiliti, che di tanto in tanto s’arrestano,
si bloccano come meccanismi andati in tilt per un nonnulla, che poi sembra quasi impossibile rimettere in azione.
Sono teste che si incaponiscono in idee fisse, che hanno idee fisse, martellanti, a ripetizione
Sono spalle irrigidite, tese, concave, che si proteggono e si chiudono all’esterno;
Sono corpi della frenesia, dell’abbandono
Elementari discordanze di sensi tra un posso, devo voglio
ticchettio d’acqua sgocciolante da un rubinetto in cucina.
Sono corpi che hanno smesso di agire, reagire, scriversi fuori come esistenza.
Dolorosa malattia del sentire dalla quale bisogna pure proteggersi in qualche modo:
pericoloso sporgersi fuori, esternarsi fuori dei sensi, li’ dove la sensibilità diventa liquida, permeabile, circolante entro gli esseri e le cose.

Incontro: esplorazione, contatto, scambio di pelli, di tonalità, di colore, di odori che si mischiano scossi dalla vicinanza di corpi sconosciuti: questo circuito tra avanzare e retrocedere, lasciarsi oggettivare da uno sguardo che si interpone, modifica, influenza la direzione del nostro. Essere inevitabilmente presi in trappola da questo sguardo che ci oggettiva, ci spia, ci seduce, ci rende in dovere di una risposta, di una sollecitazione all’altro.

Diventare quello che si tende ad essere virtualmente,
in potenza ma non in atto;
diventare o essere più vicini a quello che si potrebbe, ipoteticamente,
eventualmente essere dal potenziale irrealizato di sé alla forma definita della cosa.
Vedersi nello specchio potenziato dell’altro;
amarsi nello specchio di chi mi rinvia la mia immagine ideale dove l’altro diventa, d’un tratto, il mio referente privilegiato.
Uscire da questo circolo vizioso, asfittico, inclusivo che mi contiene e mi isola entrando in uno spazio di inter-relazione, inter-azione
scambio, mobilità, passaggio dove tutto circola, fluisce, scorre
e sensibilmente tende fili invisibili in uno spazio condiviso.

Una sensazione ti abita, pensa, si muove esiste dentro di te, nelle tue azioni, gesti, parole. Durante questo lasso di tempo percepisci l’esistenza attraverso l’ombra, il peso, la presenza di quello stato-sensazione che si é insinuato, si é lasciato scivolare temporaneamente nella tua carne.
Stati impalpabili d’essere iscritti nella memoria dei corpi resteranno quando tutto il resto sarà cancellato: nomi, volti, paesaggi, date e avvenimenti.

lunedì 23 marzo 2009

Metamorfosi e danza






























“Il multiplo, l’acqua, il mare”. Tutto questo spazio estraneo, “labirinto immenso, sconfinato dove sono precipitato”[2]. Come potrei sapere che il groviglio non é infinito, che arriverò un giorno ai suoi confini, che tocchero’ i suoi margini esterni? Confondo gli alberi, questi alberi che si assomigliano tutti; sento rumori intorno ma non so da dove provengano, uno é più forte degli altri, mi afferra, ma no, non é un rumore...é come un mormorio, un brusio di fondo, un sussulto che mi guida, appena percettibile. Cresce di giorno in giorno, basso e continuo, quando gli altri restano discontinui, infranti, intermittenti...

La danza fa del corpo “un possibile[3]una pura possibilità, questa cosa che nasce e muore nel momento in cui non sono nessuno e posso divenire mille forme possibili.

Primo tragitto: ritorno al nulla, all’indifferenziato.
Devo camminare verso la “non esistenza”, l’indeterminazione, la nudità: il luogo dove sono nudo e solo, al più di dentro di me stesso e dunque al di là di me stesso, li’ dove divengo una pura possibilità. Su una scena devo diventare questo “corpo bianco”[4], impossibile a dirsi, innominabile quasi. Il butoh lo fa vedere nella messa in scena dei suoi corpi embrionali, larve o bozzoli di fiori dischiusi, ricoperti di colore bianco riportati alla matrice della materia attraverso il contatto primo con il suolo.
Devo raggiungere questo spazio bianco, nudo, non protetto dalla costruzione di un’identità, per questo tanto più esposto alle raffiche di un di-dentro, di-fuori, lentamente condotto sul bordo di un precipizio dove voglio lasciarmi precipitare spinto verso la voragine che s’apre ai miei piedi.
Sono libero come una parola che scrive, rapido come un pensiero che sfugge,
leggero come una danza d’acqua. Nudo e trasparente, folle e ragionevole, capace di tutto o di nulla, saggio e ingenuo, bambino e vecchio insieme, indeterminato e per questo soggetto ad infinite determinazioni[5].

Kaos é l’increato del mondo[6], la confusione pura della materia anteriore ad ogni creazione, il disordine che precede ogni taglio sulla forma. Che cosa ha a che fare tutto questo con la danza, questa sorta di caos primordiale da cui sorge una partizione di senso e anche quando una composizione si costituisce, possiamo dire secondo leggi proprie, c’é sempre un continuo processo, va-e-vieni come del divenire figura di una materia animata e vivente e poi del suo ritorno all’informe originario.

Pensando ai danzatori di butoh

All’origine della vita é il caos, lo stato disorganizzato della materia, l’universo acquatico dal quale si genera la vita nel cosmo. E’ cosi’ che deve essere stato agli inizi; è quello che la danza butoh ci insegna nel suo approccio al suolo, al peso, al contatto con la forza gravitazionale del corpo a terra. Più tardi arriva la forma finita delle cose, l’ordine ritagliato dentro il disordine universale quando la materia fluida, liquida o malleabile incomincia a prendere forma, a fissarsi in unità discrete, in concentrazioni finite di energia e materia.
Potremmo immaginare uno stato mediano di passaggio tra l’informe e la forma, tra il caos aperto e turbolento e la fissità di qualcosa che si irrigidisce defininendosi nel tempo. Potremo pensare a questo stato temporaneo di transizione tra due poli dove le forme sono ancora fragili e lo scambio dall’uno al multeplice generatore di infinite possibilità. Pensiamo a quest’immagine vedendo le cellule elementari, i fragili equilibri di forme sensibili nell’atto di venire alla luce come esistenza .


[1] Questa parte è stata suggerita da alcuni passaggi di Michel Serres, Genèse, Grasset, Paris 1982.[2] Ibid, p. 73 : « Il danzatore come il pensatore è una freccia verso l’altrove. Fa vedere altra cosa, la fa esistere. Fa discendere un mondo assente nella presenza. Deve dunque lui stesso essere assente. Il corpo del danzatore é un corpo possibile, é bianco, nudo, non esiste »[3] Ibid.,[4] Ibid, p. 73[5] Ibid. p. 84 : « L’uomo non ha istinto, non é determinato, l’uomo é libero, l’uomo é possibile. Libero come la mano, rapido come il pensiero, possibile come la giovinezza, libero come la danza lo forma e lo rompe.”[6] A questo proposito si veda Michel Serrès, Genèse, Grasset, paris, 1982, p. 160 « Il tempo é un caos in primo luogo, é in primo luogo un disordine e un rumore. Il presente ora è questo miscuglio inestricabile. Questo caos non è soltanto primitivo, mi accompagna a tutti i passi, lo dimentichiamo spesso, spesso i gruppi e la storia lo ritrovano.”

mercoledì 18 marzo 2009

Partendo dal butoh...(Note suggerite dall'antologia "Butoh"a cura di Odette Aslan, Beatrice Picon-Vallin, CNRS Editions 2002








La questione essenziale a indagare resta la continuità esistente tra una scrittura poetica al più vicino del corpo, ricondotta alla voce, all’oralità, al ritmo primordiale del respiro, e, allo stesso modo, la danza presa nella sua dimensione poetica essenziale come una “poesia nello spazio”: una lingua dell’emozione discesa nelle vertebre, nella carne, nel respiro quando questo diventa tutt'uno con il movimento.

























Tutto parte dal silenzio: un silenzio totale, uno stato di ascolto permeante, onnipresente, liquido, permeabile agli esseri e alle cose. Permette di accedere lentamente, impercettibilmente a questo stato di danza, di ascolto dell’essere attraverso la densità della sua materia sensibile.

Butoh: viaggio, esplorazione, passaggio, attraversamento. Il vuoto denso di quello che il butoh chiama il “corpo oscuro”. Non cercare di riempire lo spazio con gesti astratti, non andare verso l’aggiungere, il senso pieno della materia ma giustamente verso il vacuo come il non-luogo del corpo, uno stato di non-essere impersonale che coinciderebbe con una sorta di vuoto abitato: vuoto-pieno secondo il concetto del “ma” giapponese. Trovare questo spazio dove il corpo é esposto a una nudità   crudele, pericolosa, inaccessibile. Trovare questo spazio di un vuoto-pieno che si lascia vedere e prende forma attraverso il corpo del danzatore.

Esplorare la sensibilità nervosa trasmessa attraverso le infime vibrazioni dell’ essere corporeo o le sue qualità inusuali di movimento. Rompere con il linguaggio univoco del reale per essere portati dal “flusso impetuoso, del sogno”. La danza non racconta una storia seguendo un filo predefinito ma é “l’energia dell’istante, l’assumere la pienezza e l’intensità di ogni istante come il compimento dell’atto teatrale e poetico nello spazio”[1].

La ricerca dell’imprevisto, la perdita progressiva di tutti i punti di riferimento, dei punti abituali di ancoraggio all’esistenza, all’identità, alla forma. Per Hijikata la danza é via d’espressione per attraversare la temporalità d’un essere, la sua storia, quello che si inscrive al fondo del suo corpo, come in Artaud “dilatare il corpo della mia notte intera”[2]. Colti nel loro punto di vulnerabilità estrema lì dove si scoprono “démunis”,  impotenti o non protetti dall’ordine sociale o dalla forma, li’ dove possono essere uccisi con un solo sguardo. Più l’esperienza del lavoro sarà difficile, più il corpo sarà messo in pericolo, in stato di necessità, di vuoto incomprensibile più sarà pronto a lanciare quel grido, e quel grido sarà forte, veritiero, profondo, improntato d’ una forza organica vivente.
I gesti di Hijikata sono movimenti strani, lenti, innaturali, spinti fino a un punto di resistenza o di tensione interiore: la deformazione e contorsione del viso, degli arti, delle membra. Appaiono come forzati dentro le articolazioni muscolari, le vibrazioni nervose.
Non é un corpo proiettato al di fuori ma riavvolto verso l’interno, raggomitolato al suolo e dove anche i gesti più ordinari sono presi da uno sforzo o tensione verso l’interno. La contrazione estrema del torso, per esempio, danzando con la sola schiena in evidenza.

Lavorare sul punto di rottura dell’equilibrio, sulla ricerca di altri possibili equilibri nella disarmonia, nella diacronia, nella rottura violenta creata dall’alternanza tra tensione e distensione, tra una verticalità tesa all’estremo e un ritorno all’orizzontalità come in una caduta inattesa, in un improvviso precipitare al suolo.

L’improvvisazione s’apre su questo incontro con l’inatteso.Ogni movimento deve essere prodotto a partire da azioni semplici parte del concatenamento cinestetico quotidiano (per esempio il semplice atto di camminare). Continuare a ripeterle e vedere dove esse ci portano, fino a che divengano altre, i ritmi segreti che le attraversano, il modo in cui ridisegnano il tracciato di un io possibile, giustamente lasciando spazio a questo corpo “altro”, puramente virtuale, possibile che la danza rende visibile.

Tali azioni divengono espressive giustamente nello scarto rispetto al modo in cui mi muovo, muovo o sono mosso nella vita reale, sempre e comunque preda di questo processo di negazione-rilancio dal quale tutto il lavoro sul movimento ha inizio. La ricerca ossessiva compiuta sul linguaggio corporeo, parte da gesti banali modificati da fattori quali il peso, l’intensità, la lentezza o la velocità dell’azione, l’equilibrio o la sua perdita, infine la distensione o la contrazione muscolare.
Mettere o togliere peso nel fare un passo, nell’appoggiarsi a terra, nel sollevarsi, ricadere, rialzarsi, lasciarsi andare al contatto totale con il suolo.
Una stessa azione può’ essere sottoposta a un rallentamento progressivo fino alla quasi immobilità del corpo e insieme presa in uno sforzo di concentrazione muscolare come nella mimica espressionista.

Come ritrovare il flusso continuo nella discontinuità del movimento? Nell’apparente immobilità del corpo esiste come il ritmo di un “rumore di fondo”[3], mormorio del mondo, brusio permanente dell’essere. Deve aver a che fare con il “turbinio incessante delle onde”[4], con le oscillazioni delle masse acquatiche, con il fla-fla sciabordio d’acqua, turbolenza di quello che é animato, vivo, acquatico e che pur nell’apparente assenza di movimento non si interrompe mai. E’ la musica come di un basso continuo che ci trascina, ci porta, facendoci avanzare per slanci e interruzioni, con onde precise e fluide che si esauriscono in sé. Simili a ondulazioni sonore.
Esiste un rumore permanente anche nel silenzio: é il battito segreto dell’universo, la pulsazione come dal fondo oscuro della materia, rumore impercettibile di ogni singola particella animata, quello che ancora udiamo sul bordo del sonno.

Questo rumore di fondo è qualcosa “d’ordine musicale"[5].
Residui di una memoria arcaica; ne ritroviamo la traccia semplicemente mettendoci all’ascolto. Per questo tutti gli altri suoni, interferenze o inibizioni che vengono dall'esterno devono essere a poco a poco aboliti, rimossi, neutralizzati.  Ed é allora, li’  in quel punto preciso di perdita che il danzatore comincia a riportare la mente, il cuore, il ventre allo stadio del vuoto oltre i limiti ristretti del suo io abituale.



Il butoh mette in scena corpi ripiegati su sé stessi, irrigiditi, accartocciati: concentrati di dentro, contratti di fuori, ermeticamente chiusi entro il circolo della loro energia. Sono sempre in una relazione simbiotica con il suolo attraverso il respiro, la pelle, i canali sensoriali. Hijikata appare come un’energia concentrata al centro: il corpo è riavvolto a terra ma allo stesso tempo preso da una tensione opposta come per opporre resistenza al suolo. La ricerca di una rottura rispetto a un movimento rettilineo e armonioso si realizza in una contrazione, in una resistenza ricercata rispetto alla naturalità del gesto. La concentrazione del danzatore si esprime attraverso i movimenti di un corpo ascetico, investito di una forza interiore fuori dal comune che ne rivela la densità e la presenza straordinaria sulla scena.

La tensione diventa vincolo diretto, l’espressione prima del desiderio come eros allo stato puro: desiderio erotico ma anche estemporaneo, assoluto come l’indicibile nel suo limite di rappresentabilità fino a toccare il fantasma fusionale dell’origine:  l'essere androgino e arcaico che riunisce in sé i principi opposti del maschile e del femminile .
Da questi corpi marginalizzati, impediti, come da involucri di pelle emergerà a poco a poco un corpo nuovo, altro, rinato dalle ceneri della propria morte, risalendo lentamente attraverso i visceri alla memoria della propria origine.

Viaggiare verso la terra come all’interno di sé. Il viaggio verso la terra, all’interno della terra non é solo il punto di partenza di ogni movimento nel butô ma anche un vero e proprio viaggio iniziatico all’interno del sé. La discesa agli inferi, verso le proprie tenebre, é un “viaggio terrificante e salvifico che apporta una possibilità di rinascita, di rinnovamento e di conoscenza dalla quale dipenderà la trasformazione dell’essere del danzatore e della sua arte”[6].
I danzatori-poeti di butô seguono una via similare nella creazione: accedono attraverso un cammino interiore a uno stato di danza che li conduce ad attraversare i limiti della coscienza. Se il momento catartico creativo coincide con questo abbandono della soggettività, come un lasciar parlare o venire l’Altro in sé,  il butô non é una tecnica ma “l’azione che ci apre a delle tenebre più grandi per la mediazione della malattia o del segreto”  “Il corpo nell’intossicazione, nel silenzio assoluto, nella sofferenza si apre la strada alla discesa agli inferi, ... potenza che mi fa morire e rinascere come totalità...viene dalle tenebre” [7]


Kazuo Ohno: “definire quello che sia il butoh é lo stesso che definire quello che é l’essere umano”. Il butoh é il sogno di un feto”.La danza diviene qui atto poetico come ciò che a che fare col segreto, come rubare un’immagine e restiturla nell’occultamento , come si guardasse l’universo da una fessura aperta al centro della terra. “Danzare al limite, non importa quale”. Dipingere un quadro come per rubare il segreto di una visione. Per Ohno danzare é ancora questo “allontanarsi dalla ragione” passando attraverso diverse corporalità; e insieme richiamare in vita le forze animate della natura, gli spiriti dei morti, i fantasmi dei revenants.

La vita generata dall’universo, il corpo degli uomini come un piccolo universo. La madre, questo grande universo ce l’hai sulla schiena, se ti volti indietro vi guardate negli occhi. Imprimi la terra coi tuoi passi, un fiore in mano”.
“ Il sogno dell’universo: un mondo che supera il tempo e lo spazio, un mondo coperto di schiuma. Ci si lava fino ai piedi e la danza é come vento. Essa é bella. Bisogna danzare questo. Un gatto danza in duo con il vento che non ha dimora. Un piccolo io porta la madre sulla sua schiena
.”[10]

Danzare non importa come, fino alla fine del tuo respiro, per parafrasare le parole di Ohno..
Estrarre la propria danza da se stessi. discendendo lentamente. Danzare é quello che trovi in te stesso, nel processo, quello che ti rimane quando tutto il resto é svuotato, sottratto, annullato. Forse uno stato di estrema leggerezza dove si comincia ad essere nel possibile, nell’indeterminato, nel bianco, nel vuoto.

“Non posso insegnarti, non posso dirti come fare, anche il più piccolo dei movimenti devi trovarlo dentro di te”, dice Ohno. Nel lavoro ciascuno deve mettersi di fronte a sé stesso fino al limite in cui questo io viene meno, all’ascolto sempre e comunque di forze e contro-forze che investono il suo campo d’azione, di sentire, d’essere. L’esistenza nella sua fragilità in quello che d’essa mi diminuisce, mi tormenta, mi toglie il respiro; mi rende debole, esitante, multiplo e da me stesso infinitamente diviso.
Li’ dove é impensabile fare un passo quando é necessario fare un passo, e il corpo di dentro grida preso da questo spasimo di movimento, lì dove le leggi del desiderio e dell’impossibilità si scontrano in un faccia a faccia violento e irrisolvibile, li’ si comincia a vivere, a danzare. Al fondo del proprio essere la voglia di piangere e giocare, vivere e morire, gioire e rinascere infinitamente.






[1] Cfr Beatrice Picon Vallin, Odette Aslan, Butoh, CNRS Edition, 2002
[2] Cfr Antonin Artaud, Pour en finir avec le jugement de dieu, in Œuvres, Gallimard 2004
[3] Cfr. Michel Serres, Genèse, Grasset, Paris,: « Le bruit du fond est permanent ; il est le fond du monde, le fond noir de l’univers, il est le fond de l’être peut-être. » p. 108
[4]Ibid. Serres, Genèse
[5] Ibid., Michel Serres
[6] Ibid., Picon Vallin, Aslan, Butoh,
[7] Ibid ., Butoh
[8] Ibid., Bûtoh
[9] Antonin Artaud, Le théâtre et son double, Gallimard, 1964
[10] Idid., Butoh

lunedì 16 marzo 2009


La questione del centro: centro del corpo, del movimento, dello spazio.
E’ da questo fulcro che irradia l’impulsione vitale, l’energia trasferita da un punto all’altro del corpo spostando il suo centro mobile attraverso il peso.
Pensare, pesare, mettere peso nel rapporto all’altro, creare una sovrapposizione di superfici, di lembi o di pelli che si sfiorano,
diventare sempre più parte,
temere di abbandonarsi,
resistere, sfuggire, restare_ sentire il vuoto che vi assale.

Presa di coscienza: conoscere il proprio corpo, guardarlo con l’ “occhio interno alla percezione” dentro la motion. Strana presa di coscienza che implica non un pensiero_ quello che inibisce, arresta o blocca l’azione _ ma una coscienza acuta dentro ogni singolo spostamento di peso, di energia:
un sapere esattamente dove sono, il perché di ogni singolo gesto in un ascolto totale che é solo dentro i miei sensi e lascia la mente libera, vuota, anzi, quasi, in uno stato di coscienza alterata dove le emozioni invadenti o eccessive sarebbero respinte indietro, messe tra parentesi.
Il pensiero, qui, é tutt’uno con il mio gesto, la mia energia, il mio peso.

Picasso dice: “non cerco trovo” ; trovi delle cose, trovi sempre e comunque, lasciando andare la tua sensibilità, in un costante, interminabile divenire, scoprire, aggiungere qualcosa di più,
più vicino, più dentro te stesso; sempre e comunque attraverso l’altro.


(Riprendendo una frase di Bejart)
Ho scoperto la danza camminando per strada, guardando gatti stirarsi al sole,
volendo toccare, sorprendere il mondo con le mie mani,
guardando mani impastare acqua e farina...
.... ascoltando ogni singolo ritmo che si muove, si agita, sussurra, vibra in natura,
sentendo il rumore del mare, dando libero corso alle mie sensazioni,
camminando di notte per strada, ascoltando il battito interno, la voce segreta, il silenzio che s’apre in ogni singola forma di vita,
viaggiando a occhi chiusi su un treno, ascoltando il rumore di ruote stridenti contro le rotaie, lottando contro le mie paure, incontrollate,contro la violenza di un’immagine nello specchio,
rotolandomi a terra, facendomi male, ritornando alla terra fino a ritrovare il contatto primo con il suolo;
ritornando alla terra, cercando quel contatto primo, il ritmo primordiale del corpo, la forza del mio peso.

Cerchi, cadute, improvvisazioni: farsi male, farsi venire lividi alle ginocchia, sulle gambe, fino a perdere l’equilibrio che mai si possiede; gettarsi a terra, volere scappare ma essere li’ costretti a restare con la violenza di forze estranee che vi esplodono in corpo;
Non sapere nulla di, non sapere controllare il peso, l’equilibrio, le varie parti implicate nel movimento.
Caparbietà, incoscienza, e ancora, distrazione, rifiuto, insofferenza della serietà implicata di un’esistenza puramente intellettuale che esclude la totale esperienza interiore. L’ostinazione, la caparbia di un voler fare, prendere parte, sentire, percorrere direttamente con i propri sensi.

Ora sono leggero, ora volo, ora mi devo dentro di me, ora un dio danza in me; non potrei credere a un dio che non saprebbe danzare”.(Nietzsche)


Cercare un proprio linguaggio sarebbe liberare una creatività in sé: liberare un corpo, un’espressione, un modo proprio di rendersi visibile, d’essere, di far passare frammenti di senso. Non imitare, copiare, rifare ma cercare dentro sé stessi questa cosa densa, stratificata e ancora informe che vi abita, imparando a modellarla, a dargli forma, una forma che la renda visibile nel suo potenziale inesplorato all’esterno. Riconoscerla, cercarla, inseguirla, lottarci contro senza sapere dargli un nome.

Carolyn Carlson[1]: “Al di là di ogni cosa il mistero; tutte queste cose date e prese da un’invisibile desiderio”.

Divenire nulla di fronte al mondo,
nel vuoto di sé un’ universo;
Questa cosa che si libera, prende forma, corre fuori d’un tratto:
lì dove tutto diventa liquido, aereo, opaco, acquoso, acquatico;
energia attraversata allo stato puro, forza magnetica di quello che è nel divenire contro gli spigoli, gli angoli, la durezza delle inquadrature geometriche,
le resistenze, le esitazioni, le inibizioni,
i si-no-ma-forse, le storture, le rotture, le ritenzioni.

“Noi, tutti sospesi senza definizione”[2]
Sei quello che senti e quello che resta silenzioso, quello che vedi e l’altro che resta celato, indeterminato eppure presente dentro di te indubitabilmente .

Respiro di vita: posso ricordare attraverso il mio respiro,
tutta la memoria del mondo incisa dentro un singolo respiro, un universo in sé.
Ritrovo i ritmi primordiali delle cose, rintraccio attraverso questo mio corpo i ritmi che esistono intorno a me, i fenomeni, gli atti, i momenti singolari che accadono e che altrimenti resterebbero silenziosi. Esiste questa sorta di facoltà segreta, facoltà che altrimenti resterebbe ignota, di potere, in rare occasioni, entrare in connessione totale con il vivente nel suo battito segreto, di poterne sentire più di quello che sia lecito sentirne, anche al rischio che tale passaggio comporterebbe. Usare questo sapere come un ascolto che ci apra un altro livello di comprensione della realtà. Ci sono persone o cose, eventi o individui che aprono la strada a queste connessioni segrete; momenti, atti, eventi impercettibili vibrano dall’uno all’altro, non in maniera palese, ma sottile, invisibile. Un niente apparentemente lo sappiamo: passaggi di energie, fluidi vitali.

Posso ricordare attraverso il mio corpo: ho questa facoltà di “rémémoration” quando i miei sensi sono totalmente presenti, risvegliati, assorti, e nel pieno del loro potenziale espressivo. Quando non ho impedimenti, barriere, inibizioni perché è proprio in ragione dell’insofferenza, del tormento sottile, dell’insistenza corrosiva, del fastidio del sé che allora devo trovare il modo di rompere, lacerare, aprire spiragli per poter respirare. Sbattere contro un muro fino a farsi sanguinare, inciampare su sé stessi instancabilmente.
Vedere l’immagine infrangersi contro il contorno di una fragile identità, sbattere a terra, continuare ad avvolgersi su se stessi, crollare a terra e poi rialzarsi, continuare cadere;
la colonna non regge, nulla regge, il ventre, le viscere, le vene, le ossa, tutto si scioglie, cade, si lava via, si lascia scivolare. Il vuoto vi afferra, vi divora, non vedete più i confini, siete sparso, pericoloso, continuate a gridare invano.

Lasciar venire dal fondo; vedo un corpo vuoto, leggero, libero, aereo. Voglio lasciarlo fare, tramite, medium, veicolo anche di quello che passa attraverso di me. Voglio che sia cosi’, in uno stato di presenza totale, unica, singolare, tanto che nessun’altro potrebbe ripeterlo allo stesso modo, ritrovarlo identico come se li’ fosse inscritto dentro la sua pelle, dentro la sua carne, come vibrasse del liquido che scorre, di ogni singola goccia delle sue vene,
dei suoi gridi trattenuti, dei suoi sussulti estenuati, appena sussurrati, dei suoi “vuoti a essere”, delle sue fughe, dei suoi silenzi,
delle sospensioni, delle sue azioni, esitazioni, regressioni,
come fosse giustamente abitato, posseduto, fino in fondo attraversato da questa potenza di vita pulsante dentro ognuno dei suoi gesti, come fosse rapito da questa cosa che altri non vedono: un tenue ricamo di seta, una tessitura d’aria, la trama invisibile d’un sogno.

Poesia: forza che contiene in sé il ritmo, energia vitale che trascina e coinvolge l’uomo nella sua interezza. E’ il movimento del pensiero e insieme quello del desiderio, non intesa come parola, ne semplicemente nella sfera della ragione. E’ sangue e vita, corpo e pensiero. Cerco una scrittura che crei immagini, che trasmetta delle sensazioni, e dia voce in primo luogo, al respiro, prima di ogni significazione al soffio dal corpo. Dunque già vivente animata e totale come in teatro.


[1] Carolyn Carlson, Solo, Alternatif, 2003
[2] Ibid., Carlson

venerdì 13 marzo 2009




L’improvvisazione e i quattro elementi. La coscienza di esistere nell’acqua, nell’aria, a contatto con la terra: come cambia la mia percezione degli oggetti, del peso corporeo, la mia relazione allo spazio esterno, al movimento partendo da tale coscienza?
L’acqua mi fa pensare a un’immersione musicale, a un movimento continuo,
a una sensazione di generosità, di lasciare la presa, cedere, lasciarsi portare…
Movimenti ampi, frasi musicali che si dispiegano come onde sonore, fluide e avvolgenti. La libertà dove il corpo si abbandona completamente: la densità acquatica dove le articolazioni, la massa muscolare, ogni minimo atto o gesto sono pienamente presenti, organicamente toccati, abitati, ma allo stesso tempo liberati dalla pesantezza dell’esistere terrestre, dalla forza di gravità che tiene legati alla superficie, immobilizza, blocca o inibisce l’azione. Di lì si attinge la musicalità della danza E’ forse la prima fonte di ispirazione per ogni coreografia.

Coscienza dell’istante: concentrazione, disponibilità, immersione nel transitorio del processo creativo. Rendersi totalmente a questa apertura della sensibilità, all’ascolto del proprio essere impulsivo; captare il respiro di quello che ci circonda di uno spazio-tempo abitati di luce, movimento, presenza, voci e colori, forze centripete e spinte centrifughe. Riconoscere, possedere, abitare questo spazio-tempo; esplorarlo,contenerlo, scavarlo attraverso i sensi, poi cominciare a viverlo senza paura.
Ritornare al primordiale di una materia psichica raggiunta partendo dalla densità della carne: il corpo agente-agito, la prima scena del movimento dove si svolge il teatro all’origine.

“Cartografare” scrive Lourence Louppe in Poetica della danza contemporanea è dare a leggere un corpo, un individuo, un soggetto attraverso i suoi atti fisici, poetici o sovversivi: di rifiuto, di abbandono, di rabbia, di scusa, di frustrazione, di angoscia o di solitudine. Fare questa cartografia in controluce di un io-corpo agente e agito è andare dall’inizio contro il gesto codificato, riconoscibile, direttamente leggibile, contro il movimento troppo giusto, ideale, corretto; contro i codici della verosimiglianza, della rappresentazione, del realismo. Il corpo si da a leggere ma, allo stesso tempo rifiuta ogni facile leggibilità: un’aurea lo avvolge, lo circonda isolandolo anche in qualche modo dall’esterno. Lo rende permeabile e esposto oltre la linea della propria pelle, sempre e comunque sparso, diffuso entro il suo centro mobile, non riconducibile a un semplice contorno: l’immagine che gli altri vogliono dare di noi, la linea che ci trattiene, ci limita e circoscrive.
La testa immersa sotto il livello dell’acqua, un mondo espanso s’agita al di sotto…
Siamo questa superficie sensoriale che non s’arresta un solo istante di respirare e dunque di muoversi soggetta a infinite modificazioni anche quando dormiamo e forse li’, ancora di più, nella sua parte d’incoscienza.

Essere tutt’uno con il vivente al rischio della propria de-figurazione. Cosa succede quando si porta questa mappatura del corpo al limite della decostruzione? Quando viene messa in gioco la certezza stessa dell’identità di un soggetto, la sua immagine all’esterno? Quando si trova spinto, sospinto verso questo margine dove non sa più d’essere , quando si trova spinto, sospinto verso questo stato di__disseminato, disgiunto, contaminato, infranto.

L'aurea: l’energia vibratile, espansiva, invadente e in eccesso del corpo isterico domandando dépense, spesa, consumo, speco, investimento anche come produzione di qualcosa dell’ordine di una presenza, d’un atto: qualcosa di fisico, tangibile,concreto come un gettare fuori, espellere, estromettere quello che può in questo modo rientrare nel circolo significante in luogo di subirne i movimenti d’eccesso, di mancanza, di vuoto-pieno del suo turbinio inarrestabile.
Aurea dunque: qualcosa che si diffonde, tocca, arriva, contamina, inquina, sempre e comunque coinvolge l’altro oltre i confini della mia pelle. L’aurea dell’ oggetto distrutto dalla sua riproducibilità secondo Benjamin; l’aurea del poeta caduta, insozzata nel fango nella strada nell’immagine di Baudelaire; l’aurea che si infrange allora, e trascina insieme ad essa nel fango, nello stato scivoloso dell’anima,
melma che mi assorbe, mi insozza,mi dissipa, preda di me stesso, dell’Altro che non saprei dire, dei mille altri che non saprei controllare.

Il corpo perturba sempre per la sua carica di intensità”, scrive ancora L. Louppe; porta in sé la “cosa” del sacro, dell’indefinibile che è anche quella dell’inquietante, dell’estraneo nella sua dimensione di incoscienza. Perturba in primo luogo per “l’intensità del suo atto di presenza” che non trovo così netta, inesorabile, immediata altrove. Sono dentro i miei atti prima ancora che dentro le mie parole o forse anche quelle allora diventano atti scenici: energia fisica della voce, del suono, ritmo primo che si libera dal corpo in una cadenza, una scansione, un respiro ora enunciato, ora portato fuori in una voce, ora semplicemente sussurrato in un ansito leggero . Come se appunto qui ritrovassimo la presenza del soffio vitale, del respiro poetico che da il tempo all’azione, alla parola, al gesto- il teatro nel suo primo atto. Il senso di quello che si scrive verrebbe solo dopo, passerebbe quasi in secondo piano, la bellezza formale del linguaggio anche, e sarebbe questo respiro a portarci, a farci attraversare, a muoverci e a fare senso. Di qui, un’assoluta semplicità della frase, del linguaggio liberato dal peso che ogni parola assume nel solco della tradizione perché non è a quella che si rifà ma a un respiro più antico, mai sottomesso, misterioso e inconoscibile ancora.

Danzare nella definizione di Daniel Dobbels: l’esperienza singolare dove qualcosa “nous arrive” ci accade attraverso questo corpo e per suo mezzo. Perturbato, resta come in una sorta di sospensione, di non azione, di immobilità apparente dalla quale sorgerebbe il “gesto inatteso” secondo Nikolais. L’intervallo, la sospensione, allora, è questo momento di una messa tra parentesi del pensiero, dell’intenzione, dove qualcosa si libera, si ritira, retrocede e lascia spazio. Lascia fare all’inatteso di sé : l’illimitato, l’imprevedibile, il vuoto, l’aereo nella sua carica di gesti refulés, rimossi, rimasti non detti. Strati antichi, respinti in zone di memoria inaccessibili alla coscienza che andiamo a toccare, a risvegliare forse, attraverso il movimento…

"Corpo a venire" Materia fisica e psichica di carne e pensiero insieme, si rende sempre più malleabile, mobile, in-sottomessa, risvegliata, in atto, in gioco, senza pretese, senza difese, semplicemente in questo movimento inarrestabile, spinta, sospinta da forze e contro-forze
contraddittorie, violente, in vita.