lunedì 30 luglio 2012

Note suggerite dal laboratorio "L'immaginazione, il corpo, il cuore", théâtre du Soleil, Santarcangelo Festival Internazionale di teatro 2012


« Un attore é un chirurgo dell’anima che ha il coraggio di fare un’autopsia delle proprie emozioni in pubblico dandone i sintomi  attraverso il suo corpo. In scena i soli strumenti sono i suoi piedi, le sue mani, i suoi organi, la sua voce, le sue lacrime. In scena é il suo corpo che mette in gioco, in pericolo, a rischio di non toccare, non raggiungere quel vero momento, nel dolore, anche, della non-realizzazione.” (A. Mnouchkine, intervista)

“Ci sono momenti in cui è necessario il coraggio del vuoto. Non cercare d riempirlo ad ogni costo ma lasciarsi portare fino all’estremo, lasciarsi sprofondare, condurre dall’altro”.







E’ forse l’alchimia dell’attore su scena quel vero momento che riesce a incarnare, trasmettere, passare a chi lo guarda, vivere la cosa con la verità che porta in sé, lui dentro quella sua visione, che attraversa e trasmette, amplifica e proietta appoggiandosi su strumenti attoriali, su una gestualità essenziale, precisa, leggibile, su un’espressività potenziata, su una presenza scenica ineluttabile. E’ la sua capacità di disegnare, rendere presente, far vedere la situazione che sta vivendo attraverso azioni semplici, gesti che possono nascere solo su quella scena, in quel momento, dentro quella contingenza e nessun’ altra.

Perché improvvisare nel lavoro del Teatro del Soleil é ricevere gli stati, le emozioni,  che vengono dall’altro- chiunque esso sia, la cosa che mi abita, chi é con me sulla scena, o semplicemente quello che può darmi la musica_ e farne qualcosa. E’ dono, apertura, disponibilità all’ascolto anche attraverso una potenza musicale tragica epica o sacra che trascina l’attore “sul bordo del canto” e lo induce a seguire il ritmo interiore della musica come il proprio battito cardiaco e a trovare, così, l’emergenza del gioco teatrale in una propria giustezza interiore.
 Per gli attori del teatro del “Soleil” gli esercizi di improvvisazione singoli o di gruppo devono rispondere all’esortazione “vivi”, “ricevi”, “lascia venire”, non cercare di agire ad ogni costo ma “ascolta” prendi quello che l’altro ha da darti e crea a partire da quello; non cercare di imporre una volontà, non cercare di imporre la tua visione costruita macchinalmente dalla tua idea. Lascia venire le immagini invece, quelle che abitano in te, quelle che si annidano recondite negli angoli, nei buchi neri della tua coscienza, dalla parte occultata d’essa, quelle che sono iscritte nella memoria sensibile della tua carne, non in un corpo, realista, mimetico quotidiano ma in un corpo che sente, vede , che conosce o riconosce in un movimento, un gesto, un”espressione del viso, attraverso il dettaglio d’un odore o d’un colore.Lasciare sorgere l’immagine e quindi l’azione, la situazione che da essa scaturisce in una ritmica interiore ineluttabile. 
E’ “lasciare la presa”, “lasciar venire”, restare aperti e ricevere, incarnare; divenire l’ istante abitato dove lo stato, l’immagine, o la visione passa in me, il personaggio, la sua storia ricondotti all’istante  d’ un tempo e spazio presenti come un vedere in me.


“Un attore è un esploratore, qualcuno che armato o disarmato, più spesso disarmato avanza in un tunnel stretto, lungo, profondo, strano, precisamente oscuro e come un minatore, porta con sé, raccoglie nel tragitto pietre, sassi, pezzi di roccia. E tra questi dovrà intagliare un diamante”.
Avere una situazione chiara, l’evidenza d’un immagine e di stati autentici che la muovono, essere presenti al proprio personaggio ad ogni  istante, avere “la forza e la muscolatura immaginativa per ricevere e generare tali visioni” e poi trasformarle nel gioco dell’improvvisazione in una storia nata in una sequenza musicale.
Discendere in sé e ritornare per intagliare il diamante dalla pietra grezza senza spaccarla, trovare la forma cristallina, la più pura e trasparente possibile estraendola dal minerale fino a farla risplendere come un brillante.


La parola “stato” ha a che fare nel lavoro del Soleil con stato d’animo, ma ancora, più estensivamente con uno stato di corpo, d’essere. Non è soltanto uno stato d’animo come la malinconia, l’euforia, la tristezza, il dolore, l’angoscia, l’esaltazione, l’ebbrezza, la passione o lo svilimento, non è soltanto la voglia di ridere o di piangere, il riso folle e sconsiderato, oppure il ripiegamento malinconico sul sé senza ragione. Non è soltanto un “paesaggio interiore” dell’anima che si disegna in una situazione concreta ma uno stato d’essere, uno stato dell’essere intero, totale nei suoi multipli involucri, mentale, energetico, emozionale e intuitivo, il cosciente e il subcosciente, carne e sangue, parole e corpo, percezione dell’io e eco dell’altro,  ciò che si esprime, si espelle, trasuda per gradazioni multiple, sottili e diversificate, per esempio degli stati d’esistenza, esperiti, vissuti, attraversati dall’intero dell’essere in tutti i suoi gradi. La fame, la guerra, la malattia, la stanchezza, la paura, su scena possono diventare degli stati di corpo, come il mio corpo risponde, dà voce, vive o trasforma tale stato, come questa situazione agisce sul mio essere-corpo, come lo modifica. Per esempio che cosa significa, fare sentire, vivere la paura d’un personaggio messo di fronte alla morte dell’amato, alla propria morte, al perdersi in una foresta durante una tempesta, oppure preso nell’ estenuazione fisica, nella spossatezza o nella sete, nella ricerca vitale d’acqua come situazione ultima, spinta all’estremo, portata contro il limite stesso della sua possibilità esistenziale. Che cosa significa uscire dal quotidiano, dall’aneddotico per entrare  in una realtà altra, smisurata, nell’ordine dello straordinario, del grandioso, estranea al senso comune, attingendo anche ai miti e alla tradizione del teatro orientale, oppure 
entrare nel gioco dell’infanzia, nella duttilità creatrice e fiduciosa, senza limiti del fare infantile, che in questo teatro diventa anche gioco di travestimenti, rituali di vestizione e maquillage, l’adozione di maschere medianti il passaggio verso tale alterità.
              
Vogliono che questi corpi su scena siano marionette dotate d’una gestualità ampia, leggibile eppure archetipica, vogliono che traccino il loro proprio disegno nella musica, che disegnino il loro racconto, la loro storia dentro la musica.
Vogliono che queste marionette ‘troppo umane’, disarticolate, espropriate di soggettività, lasciate alla manipolazione impersonale d’altri  si muovano con gesti ampi, precisi, accurati eppure essenziali, energeticamente abitati, incarnando una successione di stati destinati a trasformarsi attraverso le azioni e le contro-azioni degli attori in scena. Vogliono vederli in alcuni momenti sprofondare, lasciarsi esplodere o portare dalle proprie azioni e passioni smisurate, vogliono vederli partire a pezzi, lasciarsi condurre dal ritmo feroce della musica, lasciarsi prendere nel duello, nello scontro, nella lotta nata da pulsioni feroci come l’uccidere il figlio, il fratello, l’amato, lo strappare il cuore dal petto dell’altro, il fare a pezzi il suo o il proprio corpo,oppure nel rapimento, nell’estati, nell’abbandono alla passione amorosa, nella corsa, l’inseguimento, la stretta, nel rotolarsi al suolo dei corpi ravvolti insieme. Vogliono vederli in azioni non illustrative, messe a distanza dal quotidiano, portate nell’ordine del poetico, spinte nella dinamica d’un energia d’azione improntata su una ritmica musicale dominante.




“La maschera é il segno stesso del teatro perché é la trasformazione, l’oggetto che diviene e sostituisce il volto umano, perché conduce l’attore che si lascia condurre, lo costringe ad andare molto lontano in sé, a smascherarsi, mettersi a nudo, perché diviene più vero della natura, perché sposta l’attenzione dal viso e mette il corpo in questione”.
Qualche volta gli attori assumono sembianze mitiche, eccessive, mostruose, come la dismisura, l’eccesso delle maschere balinesi che incarnano esseri sopranaturali o sacri, divinità, spiriti o demoni delle foreste, degli alberi o delle acque, forze indomite della natura assumendo sembianze a metà umane e a metà animali. Altre volte si fissano nell’immobilità di cera di questi volti plumbei, regali, di discendenza nobiliare, dall’espressione altera, immobile, ridipinti nelle rifiniture finemente disegnate dei tratti, nei contorni vermigli delle labbra leggermente dischiuse, nelle fessure sottilmente riprese in nero degli occhi contro la forma smaltata, brillante, bianco opaca del fondo-maschera. Questi visi ridipinti, fissati in un’immobilità atemporale si animano, tuttavia, nei momenti in cui la maschera-volto, il corpo-marionetta dell’attore manipolato comincia a prendere vita su scena, obbligando e domandandogli un coinvolgimento totale nella sua portata energetica e emozionale per rendere presente, dare vita al supporto che sostituisce e riceve il volto umano. Lì davvero l’attore non può fingere, ingannare, fare la parodia perché non passerebbe, non reggerebbe alla prova della maschera. Allo stesso tempo, lo porta fuori dalla dimensione realista, quotidiana del suo corpo attoriale fornendogli uno strumento ulteriore di scavo, di approfondimento ed esplorazione del personaggio nel lavoro d’improvvisazione, prestandogli la libertà necessaria per entrare nel gioco del mascherare e svelare, mettere a nudo e mettere a distanza, porre uno schermo che, allo stesso tempo, nasconde e rivela, esigendo in cambio una presenza scenica totale, un'intransigenza formale indispensabile.

 “La necessità di aprire il cuore, di trovare l’infanzia in sé. Per un attore anima, corpo, cuore sono strumenti di lavoro. Cercherà nell’osservazione degli altri, osservando gli altri con generosità, compassione, amore senza giudizio questa capacità di accogliere per sé stesso. Allo stesso modo, la generosità di saper ricevere le immagini prima di  poterle trasmettere. Necessità spinta all’estremo per l’attore.  Molti hanno tendenza a voler fare, a voler imporre una propria visione, sapendo che dopo tutto il pubblico attende che gli si dia qualcosa.”
Ma se non si riceve, fosse solo un istante, fosse solo la sensazione di questo istante “miracoloso”, di questo momento privilegiato che è il momento teatrale,  se entrando su scena non si sente questo momento come qualcosa di importante, di raro, di prezioso, non vi sarà alcun momento di vero teatro.

“ Tutto il tempo ci si chiede che cos’è il teatro, come realizzarlo, che cosa è veramente importante lì dentro. Resta qualcosa di  misterioso. Si ha la sensazione che si tratti per chi lavora di agire perché si esprima una verità. Anche se misteriosamente quella verità, resta  indicibile come il vero momento teatrale. La sua ricerca aggiunge una dimensione filosofica a una concezione tradizionale e riduttrice del lavoro di messa in scena realista."

Si ricongiunge a una considerazione più ampia della natura umana: che cosa ci si aspetta da sé? Come essere più grandi o più piccoli di quello che si è al quotidiano? Qual è la motivazione profonda alle nostre azioni? Chi siamo in questa situazione? Che cosa stiamo dicendo su questa scena? Qual è il nostro stato, la passione prima che ci muove in tale situazione? Quale il bisogno o l’agitazione interiore che ci fa agire? Che cosa ci spinge o ci arresta, ci trattiene o ci fa reagire, qual è l’urgenza prima dalla quale siamo portati?





lunedì 9 luglio 2012

Anri Sala, "una sinfonia nello spazio", Galleria Sud, Centro Pompidou
















Gli estratti dei film d’Anri Sala intrecciati l'uno all'altro in risonanza su diversi schermi nella galleria sud del Centro Pompidou creano un circuito visivo ininterrotto di circa un'ora intorno al quale il visitatore é invitato ad avanzare, a spostarsi attraverso le proiezioni video, a tracciare di per sé stesso un proprio percorso coreografico in uno spazio fisico che diviene immediatamente spazio simbolico, costruito dalla linea di composizione musicale del lavoro come una vera e propria sinfonia nello spazio. Molteplici modi d’essere insieme musicalmente si intrecciano qui: quello dei visitatori lasciati muoversi liberamente nell’oscurità, quello dei passanti che fiancheggiano dall’esterno la parete trasparente della galleria, le persone che camminano sui video attraverso le città in differenti luoghi della terra.
Il montaggio d’immagine diviene una partitura sonora condotta dal filo teso della composizione musicale soggiacente con i suoi intervalli di silenzio, rumore e suono, interpolazione o sospensione del medesimo in pause e riprese intempestive.

"Suono e musica non funzionano separatamente ne come sottofondo all'immagine video ma agiscono in sinergia con essa come qualcosa che si instaura, portante, presente, in divenire. Il mio interesse per la musica risiede nell'istante in cui essa prende forma",
quando il respiro del musicista si trasforma o si traduce in una serie di note, partitura ritmica, frase musicale, eco e risonanza.
I video divengono a loro volta, come li definisce Sala, “strumenti musicali” con una loro propria melodia. Suono e musica non raccontano storie ma piuttosto l'impatto emozionale che una certa realtà genera sull'interiorità di un personaggio, contrappunto alle architetture fisiche e mentali che incontra nel suo passaggio attraverso la città. La musica entra nel corpo come avvenimento, attraverso il gesto, 
nel modo in cui questo la assimila, se ne lascia impregnare, trattiene in sé il suo lascito ritmico, la sua memoria semplicemente in un modo d’essere, di muoversi nello spazio . Nei suoi ansiti, nei suoi respiri, la musica entra in risonanza con un corpo, produce a sua volta un impatto sulla realtà, si espande, risuona, rispetto a un luogo o una situazione, in risposta a un'architettura, in connessione alla sua più intima ragione d'essere, nella sua atmosfera interiore.










Alberi, rami secchi, immobilità sullo sfondo d’una Sarajevo invernale, sensazione diffusa di gelo, di congelamento come d'una patina bianca e invisibile, deposta su ogni cosa intorno, le strade come le case, la pelle esangue della città come l'aspetto opaco, incolore dei volti. Uno spesso strato di nebbia li investe fino a soffocarli invisibilmente.
La città sotto assedio.

Sala di concerto vuota immersa nell'oscurità vista in un controluce tagliente d'ombre gettate sulle sedie dei musicisti assenti in forte contrasto con la luminosità diffusa proveniente dalla vetrata di fondo.

Gruppo di individui in attesa di fronte a un cancello in ferro battuto.
Scarpe nere, falde di cappotti pesanti di feltro, uomini e donne vestiti in nero,
piedi, gambe che camminano lungo una strada gelata poi, in attesa di fronte a una griglia chiusa.
Marciapiedi visti attraverso l' immobilità glaciale delle prime ore del mattino.

Uno sparo improvviso. Arresto d' immobilità.
Qualcuno corre via attraversando rapidamente la strada. Muri in pietra grezza; uno dopo l'altro escono dalla fila e scappano via, rapidamente dileguando come ombre in silenzio.

Vetri rotti, frammenti di vetro al suolo, camminare su schegge, briciole di frammenti, di polvere di vetro per strada. L'immagine ritorno all'esterno, il viso d'una giovane donna appare in primo piano, poi la sua figura in nero avanza sullo sfondo grigiastro, anonimo di grattaceli in cemento, di palazzi di vetro massicci, squadrati dell'epoca comunista e strade che proseguono all'infinito identiche a loro stesse su selciati perdendosi nel grigiore dell'asfalto divorante del fondo.



Crocevia di strade, linee grigie di tram disegnate sul cemento si incrociano al suolo circolarmente per proseguire verso altre direzioni. Primo piano sul viso della ragazza. Volto pallido, d'una bianchezza assoluta nei tratti marcati, incisi in forti chiaroscuri che si scavano intorno agli occhi, nell'ossatura sporgente degli zigomi attraverso le linee ossose del viso, fino a discendere dalle labbra alla linea del mento. La cinepresa segue la sua figura finemente delineata, sottile, avvolta da un cappotto nero che ne serra la vita e ne disegna il contorno in contrasto con il pallore del volto.


Travelling” cinematografico attraverso le strade deserte della città.
Cammina su un'immensa distesa bianca di ghiaccio contro uno sfondo immobile di gesso,
la parete bianca d'un muro esterno d' edificio il cui spessore non lascia intravvedere altro scorcio che esso stessa, oltre il proprio orizzonte,  incolore.
Prosegue, attraversa la strada, s'arresta un momento. L'ansito del suo respiro.
Uno sparo s'ode in lontananza. 
La musica della sesta sinfonia di Tchaikosky si interrompe, riprende sullo sfondo. Una cesura netta, un taglio netto dell’ immagine dalla sala di concerto ci riporta all'esterno, alla strada grigia. La ragazza é inquadrata di spalle, poi la camera é vicinissima, in prossimità del suo volto, segue la linea delle sue labbra fino a scorgerne il sussulto appena percettibile del respiro nei suoi ansiti irregolari, nelle sue accelerazioni brevi.
Il ritmo della musica continua percuotente attraverso la sua mente, poi affiora alle labbra in poche note, 
una scansione ritmica precisa, una singola frase musicale,
tenue, vagamente sussurrata alle labbra ritrovando in sé la memoria della medesima.

Il viso in primo piano, in sospensione, in raccoglimento, in questa sorta di pausa, d'arresto repentino che precede l'impulsione, il passaggio irriflesso all'azione.

Cemento ricoperto da gelo, un muro in costruzione frontale si erge oltre l'orizzonte, bianco, atono della stessa tonalità. Deserto di invisibilità, trasparenza,
glaciazione diffusa quanto imperscrutabile, da nessuna parte e precisamente là ovunque.
Ritmo musicale. Sospensione, immobilità e poi rottura improvvisa.
La sua corsa attraverso la strada, senza ragione.

L'orchestra é vista in sala di ripetizione nell'esecuzione maestosa; la potenza crescente della musica sale dopo infinite interruzioni in lotta per trovare una propria fluidità,
un equilibrio compositivo tra le differenti tonalità strumentali, poi le infime gradazioni che fanno il passaggio dal vivace al grave, dall’ allegro al malinconico o al solenne.
Il viso di lei canticchiando una frase , poi, nel cambio repentino d'immagine, l'orchestra in ripetizione esegue la stessa frase all'ennesima potenza nel crescendo lirico della musica sinfonica, avvolgente, ora interrotta a più riprese nel controluce tagliente della sala.

La musica diventa questa sinfonia nello spazio che accompagna il “travelling” cinematografico, l'attraversamento della città da parte del personaggio. E' allo stesso tempo, il filo conduttore che lega le immagini in montaggio libero, e ricostruisce una continuità tra i frammenti estratti dai diversi video. La musica non è presenza narrativa ma simbolica rispetto all'immagine; si fa portatrice di colorazioni intime , di sfumature emozionali sottilmente evocate che rientrano nell'ordine dell'impalpabile, dell'infimo, del non direttamente traducibile a parole.
La risonanza che tale realtà produce sull'interiorità dei personaggi, là dove nulla accade nell'immagine direttamente attraverso l'azione.

Tale risonanza musicale si traduce in un modo d'essere nello spazio, in un rapporto al corpo,
esso per primo in spostamento, in "dislocazione", in movimento libero attraverso la città anonima, disabitata sullo sfondo. Nel cammino, nel passaggio,
i segni che quel corpo dissemina in un'architettura abitata da una risonanza musicale che é insieme eco di un’ interiorità.

La musica della sinfonia, l'orchestra in ripetizione, le infinite interruzioni e riprese della medesima intercalano il cammino silenzioso, l'attraversamento della città di ghiaccio da parte della giovane donna, esso ugualmente dilazionato da esitazioni, arresti improvvisi di fronte alla non-azione_ nulla accade in quello spazio se non irruzioni brusche di rumori o punti incidenti che si intercalano al suo cammino.

La musica si erge contro il grigiore immobile delle strade deserte, contro gli spettri della guerra, aleggianti, invisibili sulla città fantasma,
sull’involucro di paura generato dagli attacchi aerei, contro la violenza celata nel grigiore dominante,
nella glaciazione vitale, sulla pelle degli individui, nella circospezione degli sguardi,
nel tacere della parola;
nell'ora del coprifuoco, nella minaccia del bersaglio, nello stadio d’assedio fisico oltre che mentale dei suoi abitanti.

La musica accompagna la visione dei palazzi grigi, delle strade grigie, degli uomini in nero che come automi attraversano la strada. E’ nell'immobilità, nell’astenia ma, anche sale potente nel controluce della sala, nell'esecuzione interrotta e ripresa con nuova foga dall'insieme dei musicisti.

La sinfonia musicale è finemente declinata nelle tonalità dei diversi strumenti orchestrali:
greve, angosciosa, ricoperta d'una certa gravità nell'esecuzione degli ottoni, tuba, trombone o corno inglese;
sottile, lieve, sinuosa nella ripresa dei flauti aderendo all’intima respirazione del corpo in cammino. 
Soffio vitale ma leggero, appena percettibile del flauto traverso, in eco con il clarinetto e all’oboe.
Tintinnante, ritmica, ripetitiva e inesausta nel battito, nel tam-tam dei cimbali, delle percussioni;
maestosa, pervasiva, in un crescendo lirico che irradia, irrompe come la corsa della ragazza all’improvviso,
con il potere di rompere, di aprire una crepa su quella superficie, sulla congelazione atona e immota del paesaggio, degli umori, degli affetti.

Musica rock, un ragazzo prende a colpi di percussione, con foga, una batteria in un appartamento berlinese semi- disabitato preda d’una sorta di rapimento ritmico mentre nel sogno ad occhi aperti vede la ragazza, l’immagine di lei su uno sfondo elettrico d’alberi violacei, una frase di lei ripetuta all’infinito senza trovare risposta. La ritmica è violenta,
il suono invasivo, intrusivo dalla batteria, il battito continuo; ricopre il silenzio delle voci nell’impossibilità di dirsi, di comunicare_
la separazione tra i due. La musica resta la sola interazione possibile, esplode a tratti in vibrazioni irregolari e poi si interrompe in cesure altrettanto imprevedibili. Funziona per linee discontinue, interruzioni brusche intercalate da brevi riprese,corto-circuiti di sensi,di senso d’a frase perduta senza trovare risposta.

Un ritornello ritmico cantilenato esce da una scatola magica, una scatola che produce suono girando semplicemente una manovella in un’altra scena, mentre un vecchio avanza solitario su una strada deserta trascinandosi appresso il suo carretto rosso creatore di sogni, di suoni contro il grigiore del fondo.

Sulla facciata d’un edificio ridipinto come un quadro di Mondrian, in un’astrazione vitale e geometrica linee tangenti, punti, e riquadri colorati si intrecciano sul fondo della città inerte.
Un papiro di carta nero forellato ai due lati si ripiega simile a un gioco d’origami di fronte ai nostri occhi.

La linea ritmica della frase musicale gioca su questo effetto magico, propiziatorio del suono investito d’un valore salvifico, come di segni che ci salvano, qui soprattutto segni d’ordine musicale: la scatola rossa creatrice di suoni, i suoni d’acqua, gocce di pioggia che rimbalzano sull’asfalto, i passi in corsa della ragazza sul marciapiede, il suo respiro, un respiro trattenuto che diviene accelerazione del medesimo, ansito sonorizzato dal corpo. Allo stesso modo il battito cardiaco diviene battito udibile sino a trasformasi in suono, pulsione dall’innato del corpo, la frase canticchiata a basse voce , infine, frase musicale estratta e ripresa dalla sinfonia.







La musica crea continuità, un filo conduttore, una narratività malgrado i frammenti disparati dei film, l’esecuzione dandosi in un crescendo musicale , sinfonico intercalato da arresti improvvisi, da cesure nette imposte dall’alto e riprese sinfoniche tanto più tumultuose.
Le interruzioni orchestrali come le sospensioni del respiro,
gli arresti nella corsa, le esitazioni cui é lasciata la donna, poi le sue reazioni impulsive. Allo stesso modo le riprese brusche, intempestive della musica in sala di ripetizione.
Entrambi la forma d’una lotta, l’inesausto tentativo di ricominciare, di riprendere la partizione da dove la si era interrotta, nelle prove orchestrali il tentativo di trovare il giusto accordo, la vibrazione ideale dell’insieme.

Lottano per rompere la crosta di ghiaccio spessa e trasparente della superficie,
la densità biancastra e immobile che li avvolge, li arresta, trattiene il loro respiro come in un sussulto, come l’azione al margine, ai bordi del suo farsi.
Rompere la crosta di ghiaccio, la patina di immobilità, questa dimensione di grigiore mortale, d’astenia priva di colore lo stato d’assedio della città, della mente, gli esseri come fantasmi vagando attraverso quella; o forse lo stato di pericolo immanente, la paura sottotaciuta, la possibilità esistenziale lì iscritta e negata.

Se la realtà resta indecifrabile agli occhi della telecamera, indagata in questo ermetismo o impossibilità di trovare una chiave di facile lettura, chiusa in questo silenzio di superficie come la parola assente nella sua impossibilità di dirsi, la musica come filo conduttore evoca una colorazione altra, una sorta di linea emozionale, di risonanza interiore dell’individuo rispetto a quel reale, oppure é l'eco emozionale che questo inconsapevolmente riversa sul suo essere.

Se il piano visivo agisce in una messa in spazio dell’ineluttabile_ l’immobilità del reale come lo stato d’assedio pervasivo della città, la sua assenza di colore_ la musica, al contrario, gioca in contrappunto al visivo nelle sue diverse irruzioni sulla superficie atona: dalla sinfonia classica al suono della batteria, 
dal tintinnio della scatola che emette suoni ai rumori, a volte violenti che accompagnano gli individui nel quotidiano, infine alle poche note che seguono la ragazza nel suo avanzare attraverso la strada.

Come forza intuitiva, espansiva, intenibile la sesta sinfonia tchaikoskiana é questo crescendo orchestrale ripreso in tutte le sfumature possibili dai singoli gruppi strumentali , poi nella potenza sinfonica, nel maelstrom esplosivo dell’esecuzione d’insieme che si espande, sale e invade, rompe, manda in frantumi la crosta di ghiaccio, la cappa densa e irrespirabile di freddo dove sono immersi, assorbiti fin dentro la pelle, le ossa, gli organi.
Possiede questo potere salvifico la musica, in singole note oppure nell’esecuzione orchestrale, nell’unisono di suoni, prima ciascuno in fase di ripetizione singola _ i bassi gravi, le corde armoniose, i fiati lievi, le percussioni ritmiche_ poi esplodendo  in esecuzione sinfonica dirompente.

La musica é qui respiro vitale che come una vibrazione sonora e sismica insieme, parte dalle profondità della terra per arrivare ad aprire crepe su una superficie immobile, immersa in un sonno millenario. E' il controluce tagliente della sala da concerto come le note appena udibili canticchiate della ragazza per strada, o le ripetizioni costantemente interrotte e riprese in maestose rivalse musicali in risposta. Queste forze telluriche o vibrazioni ritmiche e sonore sono la misura d’una lotta costante contro la superficie,
forze che spingono dai bordi della glaciazione, dal fondo d’un sonno apparente, sotto l’apparente piattezza inerte d’una crosta addormentata.
Crepe sul ghiaccio aperte dal fluido sonoro, musicale e ritmico come qualcosa che irrompe, invade e si lascia portare simile a corrente d’acqua, a un fiume che scorre in piena, nella piena esecuzione musicale dell’orchestra.