“Eve
Arnold, l’opera, 1950-1980” recentemente presentato ai Musei San Domenico di
Forlì restituisce un excursus, un’immersione a tutto tondo nel lavoro
poliedrico e sfaccettato per quanto ancora poco conosciuto in Italia della
fotografa americana Eve Arnold, prima donna a far parte della prestigiosa
agenzia Magnum nel 1951, le cui immagini spaziano dal mondo dello spettacolo
alla comunità di Harlem, dai temi sociali ai reportage in giro per il mondo, e
ancora dal bianco e nero al colore in un vero e proprio viaggio attraverso la fotografia
moderna. Al centro del suo lavoro come sottolinea la curatrice Monica Poggi: “ c’è sempre l’essere umano, sia che i suoi
soggetti siano celebrità acclamate in tutto il mondo o migranti vestiti di
stracci, poco cambia”. E la fotografia permane prettamente per Arnold come
un “atto dello sguardo”_ nei ritratti delle star svelate in modo intimo e umano
ma anche nei reportage di forte impatto
sociale che toccano temi come il razzismo, l’emancipazione femminile o
l’integrazione tra bianchi e neri in America. In definitiva la macchina
fotografica è per l’artista uno strumento di indagine, di esplorazione sottile,
di osservazione critica e creativa della realtà a lei contemporanea in questo “imparare
a guardare” attraverso la focalizzazione fotografica.
“New York Times Square”, (1950)
New
York appare dall’alto come un’immensa metropoli, un magnificente, fantasmagorico
crocevia di strade e di vite, di etnie e di culture, nel traffico ininterrotto
di auto e taxi inquadrati probabilmente
da uno dei grattacieli dello skyline newyorkese. Scintillante di luci e del
bagliore elettrico delle sue insegne, dei suoi immensi edifici illuminati ad
intermittenza nei riquadri a neon accesi o spenti nella notte, si staglia verso
il cielo quasi a precorrere quella rivoluzione tecnologica già lì
preannunciata, da lì a pochi anni nelle moderne metropoli del futuro eclettiche
e digitali.
Un approccio personale
appassionato
“Sono stata povera e ho voluto documentare la
povertà; ho perso un figlio e sono stata ossessionata dalla nascita; mi
interessava la politica e ho voluto scoprire come influiva sulle nostre vite,
sono una donna e volevo sapere delle altre donne”. Il lavoro della Arnold
resta sempre e in qualche modo autobiografico, là dove le immagini sono riflesso
di situazioni che hanno una risonanza con la sua esistenza personale nella
volontà di toccare “l’essenza delle cose e delle persone”. Particolare
attenzione ricopre il tema della maternità dopo l’evento traumatico della
perdita di un figlio quando l’artista decide di fotografare in vari reportage
tutto ciò che avviene nei primi 5 minuti della vita di un bambino.
I neonati nascono nelle fotografie della Arnold e appaiono nei loro primi istanti di vita nello stupore, nello sgomento anche dell’essere gettati fuori, immersi nel mondo d’un tratto impetuosamente a partire dal loro primo grido di distacco dal precedente stato fetale. Negli scatti che si susseguono madri distese ed esauste in primo piano guardano i piedini dei nascituri ancora avvolti dal calore fetale e arrivati alla vita con furore nel loro primo pianto sul ventre materno. Misurati con un metro dalle ostetriche, appesi a testa in giù per i controlli di routine oppure visti nel dettaglio di mani che si stringono, quella immensa e accogliente della madre, quella minuscola, tenue e spaventata avvolta da un braccialetto di plastica bianca del nuovo nascituro. Lo sfondo nero isola e evidenzia l’intimità e la delicatezza di tali gesti in un puro momentum fotografico. Ancora bambini e neonati sono fotografati deposti in cassette di frutta o scatole vuote di merci adibite a culle occasionali mentre le madri nere, migranti lavorano nei campi nella raccolta delle patate: loro le donne sottoposte a ritmi di lavoro estenuanti mentre sempre i bambini, allo stesso modo di quelli bianchi, appaiono in una loro intrinseca bellezza e innocenza. La Arnold, documentando la storia di una tipica famiglia americana di possidenti terrieri, i Davis, si sofferma anche sulla vita dei migranti neri sfruttati dall’America bianca e dominante tentando di restituire forza e dignità a questi individui stigmatizzati e ai margini della società americana. Sul bianco e nero esasperato nel contrasto chiaroscurale degli sfondi queste immagini giungono a far luce, infine anche, sul tema sociale delle disuguaglianze, delle ingiustizie razziali in America con una particolare attenzione, sempre, alla condizione femminile. Nell’immagine forse più idiosincratica della serie gli occhi inquietati, neri e scintillanti di una bambina di colore brillano insieme alla sua carnagione scura sullo sfondo di un jukebox che emerge nella luce del contrasto intenzionalmente esasperato tra le tonalità chiare e scure quasi a sottolineare l’ineluttabile disperazione d’un lato nel destino dei neri e lo splendore e la ricchezza, il miraggio di un’America bianca e benestante dall’altro.
Sfilate di moda ad Harlem (1950)
L’espressione
“Black is beautiful” divenuto slogan
condiviso durante I concerti di James Brown enfatizza un concetto di bellezza appartenente
all’identità afro-americana nel suo affermarsi in opposizione alla classe
dominante: un’estetica originale, piena di valore e pari dignità da opporre all’assimilazione
forzata al mainstream della cultura bianca
negli Usa. E’ anche il titolo di un reportage a sfondo sociale pubblicato dalla
Arnold nel 1969 sul Sunday Times dove viene ribadito il tema della
rivendicazioni dei diritti per gli afro-americani in ambiti culturali differenti
quali la moda,la musica, l’arte ecc. Nella serie dedicata ad Harlem, Arnold si
intrufola nei camerini dove alcune modelle di colore sono intente a prepararsi per le sfilate di alcuni
stilisti afroamericani quasi sconosciuti, in quell’unico spazio loro concesso di
esposizione in quanto esclusi dall’industria della moda bianca in America.
La Arnold fotografa queste giovani donne nella loro intrinseca identità di genere tacitamente abbracciando sia il tema dell’emancipazione femminile che l’affrancamento dall’egemonia bianca. Il loro splendore emerge oltre gli stereotipi razziali mentre la fotografa cattura momenti di pura bellezza ed autenticità in gesti inconsapevoli dietro le quinte dei defilé, nel loro slancio insieme verso l’essere libere e rendersi visibili in quella società. Lo vediamo in particolare nel’immagine dove “due giovani di profilo si sistemano il trucco”; le due ragazze appaiono in maniera speculare una di spalle all’altra guardandosi probabilmente in uno specchio posizionato oltre l’inquadratura fotografica. Come due metà imperfette, come due profili quasi identici e complementari l’uno all’altro studiano i dettagli del loro volto, ricercano le imperfezioni, scrutano il viso, la pelle, gli zigomi delle guance come volessero inscrivere attraverso il volto e in quella bellezza certa e incontestabile il loro segno distintivo, la loro traccia singolare nel mondo. Un tentativo di definire e affermare un nuovo io femminile, afro-americano, libero e emancipato in quella società dominata da stereotipi e categorizzazioni di razza e di genere.
Altrove, Arnold immortala il volto straordinario, il
sorriso luminoso e lo stile inequivocabile e
affascinante della quasi sconosciuta attrice Cicely Tyson, e ancora
acconciature afro e i capelli lunghi, crespi e neri di un’ altra modella
afroamericana come segno dell’inedita differenza per un’estetica nera degna di
essere elevata a pari dignità di quella bianca. In svariate immagini la
fotografa gioca con il tema dell’identità razziale e di genere sfumando di
proposito confini e categorie là dove marines bianchi in addestramento si
tingono il volto di colori scuri, verdi e mimetici. Altrove, dei soldati neri
si coprono il volto di bianche vernici per esigenze di mimetismo militare,
un’ufficiale donna dell’esercito si assimila a un uomo in divisa, infine alcune
aristocratiche afroamericane si rendono facsimili di bianche newyorkesi.
Dietro la macchina fotografica
Arnold
apre le porte al mondo dello spettacolo in un’altra parte del suo lavoro
fotografando nel corso degli anni famose celebrità come Marlene Ditrich,
Marilyn Monroe o Joan Crawford. Sempre, tuttavia, l’estetica dell’essenziale nei
soggetti fotografati permane là dove le sue fotografie implicitamente decostruiscono
uno stereotipo smantellando il mito dell’ assoluta bellezza e perfezione
esaltato dal divismo hollywoodiano per mostrare invece il volto più umano, la
fragilità o la fatica dietro l’apparire, infine la lotta contro il passaggio
tempo per tali celebrità messe a nudo. Arnold coglie, per esempio l’attrice
Marilyn Monroe nel deserto del Nevada sul set del film “gli Spostati” con cui
Magnum ha un contratto fotografico esclusivo. L’attrice è da poco uscita da un
ospedale dopo una profonda crisi personale, il suo matrimonio in naufragio e le
riprese si prolungano estenuanti nel
caldo torrido del Nevada. La fotografa si insinua in quel clima particolare,
catturando tali momenti immersi nel deserto californiano, avvolti da un velo di
silenzio e malinconia : un grido trattenuto di tacita angoscia che si alterna a
momenti più leggeri e giocosi di naturale sensualità dell’attrice. Mostra tanto
la vulnerabilità quanto l’intrinseco fascino della Monroe epurato però da
quell’aria di falso divismo tipico della fotografia hollywoodiana dell’epoca. Quasi
che la Arnold chiedesse alla fotografia di mostrare qualcosa di più autentico e
sorprendente rompendo la maschera della rappresentazione, lo stereotipo nel quale il soggetto era solitamente
inquadrato.
Volti dal mondo
Nel
1969 Arnold parte insieme alla scrittrice Lesley Blanch per un viaggio durato
diversi mesi attraverso l’Afghanistan, il Pakistan, L’Egitto e gli Emitati
Arabi per la realizzazione di un grande progetto fotografico “Behind the veil”
ispirato dall’esortazione dell’allora presidente tunisino rivolta alle donne
del proprio paese a “togliersi il velo”.
Si tratta di una galleria di ritratti o volti femminili delle più
svariate età e provenienze_ da bambine a anziane_ colti nel corso del viaggio
in strada oppure durante le cerimonie più tradizionali, negli harem o ancora
nelle scuole di Kabul. Le donne si mostrano con il viso coperto da un burka o il capo parzialmente celato da un
HIjad, altre come queste bambine afgane, probabilmente gitane, senza velo ornate di medagliette e gioielli dorati oppure,
ancora, i ritratti si stagliano limpidi e puri sotto il copricapo colorato. In
Arnold i volti si mostrano o si nascondono secondo una focalizzazione che può
variare in intensità e spazialità_ prestando particolare attenzione al
femminile_ ma sempre mettono a nudo con
o senza maschere qualcosa di autentico come la limpida bellezza e unicità insita in ciascuno di noi nella differenza e
complessità di ogni cultura.