martedì 16 gennaio 2024

Eve Arnold, “Photography” ( un excursus dai Musei San Domenico)





“Eve Arnold, l’opera, 1950-1980” recentemente presentato ai Musei San Domenico di Forlì restituisce un excursus, un’immersione a tutto tondo nel lavoro poliedrico e sfaccettato per quanto ancora poco conosciuto in Italia della fotografa americana Eve Arnold, prima donna a far parte della prestigiosa agenzia Magnum nel 1951, le cui immagini spaziano dal mondo dello spettacolo alla comunità di Harlem, dai temi sociali ai reportage in giro per il mondo, e ancora dal bianco e nero al colore in un vero e proprio viaggio attraverso la fotografia moderna. Al centro del suo lavoro come sottolinea la curatrice Monica Poggi: “ c’è sempre l’essere umano, sia che i suoi soggetti siano celebrità acclamate in tutto il mondo o migranti vestiti di stracci, poco cambia”. E la fotografia permane prettamente per Arnold come un “atto dello sguardo”_ nei ritratti delle star svelate in modo intimo e umano  ma anche nei reportage di forte impatto sociale che toccano temi come il razzismo, l’emancipazione femminile o l’integrazione tra bianchi e neri in America. In definitiva la macchina fotografica è per l’artista uno strumento di indagine, di esplorazione sottile, di osservazione critica e creativa della realtà a lei contemporanea in questo “imparare a guardare” attraverso la focalizzazione fotografica.

New York Times Square”, (1950)

New York appare dall’alto come un’immensa metropoli, un magnificente, fantasmagorico crocevia di strade e di vite, di etnie e di culture, nel traffico ininterrotto di auto e taxi inquadrati  probabilmente da uno dei grattacieli dello skyline newyorkese. Scintillante di luci e del bagliore elettrico delle sue insegne, dei suoi immensi edifici illuminati ad intermittenza nei riquadri a neon accesi o spenti nella notte, si staglia verso il cielo quasi a precorrere quella rivoluzione tecnologica già lì preannunciata, da lì a pochi anni nelle moderne metropoli del futuro eclettiche e digitali.  

Un approccio personale appassionato

Sono stata povera e ho voluto documentare la povertà; ho perso un figlio e sono stata ossessionata dalla nascita; mi interessava la politica e ho voluto scoprire come influiva sulle nostre vite, sono una donna e volevo sapere delle altre donne”. Il lavoro della Arnold resta sempre e in qualche modo autobiografico, là dove le immagini sono riflesso di situazioni che hanno una risonanza con la sua esistenza personale nella volontà di toccare “l’essenza delle cose e delle persone”. Particolare attenzione ricopre il tema della maternità dopo l’evento traumatico della perdita di un figlio quando l’artista decide di fotografare in vari reportage tutto ciò che avviene nei primi 5 minuti della vita di un bambino.

I neonati nascono nelle fotografie della Arnold e appaiono nei loro primi istanti di vita nello stupore, nello sgomento anche dell’essere gettati fuori, immersi nel mondo d’un tratto impetuosamente a partire dal loro primo grido di distacco dal precedente stato fetale. Negli scatti  che si susseguono madri distese ed esauste in primo piano guardano i piedini dei nascituri ancora avvolti dal calore fetale e arrivati alla vita con furore nel loro primo pianto sul ventre materno. Misurati con un metro dalle ostetriche, appesi a testa in giù per i controlli di routine oppure visti nel dettaglio di mani che si stringono, quella immensa e accogliente della madre, quella minuscola, tenue e spaventata avvolta da un braccialetto di plastica bianca del nuovo nascituro. Lo sfondo nero isola e evidenzia l’intimità e la delicatezza di tali gesti in un puro momentum fotografico. Ancora bambini e neonati sono fotografati deposti in cassette di frutta o scatole vuote di merci adibite a culle occasionali mentre le madri nere, migranti lavorano nei campi nella raccolta delle patate: loro le donne sottoposte a ritmi di lavoro estenuanti mentre sempre i bambini, allo stesso modo di quelli bianchi, appaiono in una loro intrinseca bellezza e innocenza. La Arnold, documentando la storia di una tipica famiglia americana di possidenti terrieri, i Davis, si sofferma anche sulla vita dei migranti neri sfruttati dall’America bianca e dominante tentando di restituire forza e dignità a questi individui stigmatizzati e ai margini della società americana. Sul bianco e nero esasperato nel contrasto chiaroscurale degli sfondi queste immagini giungono a far luce, infine anche, sul tema sociale delle disuguaglianze, delle ingiustizie razziali in America con una particolare attenzione, sempre, alla condizione femminile. Nell’immagine forse più idiosincratica della serie gli occhi inquietati, neri e scintillanti di una bambina di colore brillano insieme alla sua carnagione scura sullo sfondo di un jukebox che emerge nella luce del contrasto intenzionalmente esasperato tra le tonalità chiare e scure quasi a sottolineare l’ineluttabile disperazione d’un lato nel destino dei neri e lo splendore e la ricchezza, il miraggio di un’America bianca e benestante dall’altro.







Sfilate di moda ad Harlem (1950)

L’espressione “Black is beautiful” divenuto slogan condiviso durante I concerti di James Brown enfatizza un concetto di bellezza appartenente all’identità afro-americana nel suo affermarsi in opposizione alla classe dominante: un’estetica originale, piena di valore e pari dignità da opporre all’assimilazione forzata al mainstream della cultura bianca negli Usa. E’ anche il titolo di un reportage a sfondo sociale pubblicato dalla Arnold nel 1969 sul Sunday Times dove viene ribadito il tema della rivendicazioni dei diritti per gli afro-americani in ambiti culturali differenti quali la moda,la musica, l’arte ecc. Nella serie dedicata ad Harlem, Arnold si intrufola nei camerini dove alcune modelle di colore  sono intente a prepararsi per le sfilate di alcuni stilisti afroamericani quasi sconosciuti, in quell’unico spazio loro concesso di esposizione in quanto esclusi dall’industria della moda bianca in America.

La Arnold fotografa queste giovani donne nella loro intrinseca identità di genere tacitamente abbracciando sia il tema dell’emancipazione femminile che l’affrancamento dall’egemonia bianca. Il loro splendore emerge oltre gli stereotipi razziali mentre la fotografa cattura momenti di pura bellezza ed autenticità in gesti inconsapevoli dietro le quinte dei defilé, nel loro slancio insieme verso l’essere libere e rendersi visibili in quella società.  Lo vediamo in particolare nel’immagine dove “due giovani di profilo si sistemano il trucco”; le due ragazze appaiono in maniera speculare una di spalle all’altra guardandosi probabilmente in uno specchio posizionato oltre l’inquadratura fotografica. Come due metà imperfette, come due profili quasi identici e complementari l’uno all’altro studiano i dettagli del loro volto, ricercano le imperfezioni, scrutano il viso, la pelle, gli zigomi delle guance come volessero inscrivere attraverso il volto e in quella bellezza certa e incontestabile  il loro segno distintivo, la loro traccia singolare nel mondo. Un tentativo di definire  e affermare un nuovo io femminile, afro-americano, libero e emancipato in quella  società dominata da stereotipi e categorizzazioni di razza e di genere.

Altrove,  Arnold immortala il volto straordinario, il sorriso luminoso e lo stile inequivocabile e  affascinante della quasi sconosciuta attrice Cicely Tyson, e ancora acconciature afro e i capelli lunghi, crespi e neri di un’ altra modella afroamericana come segno dell’inedita differenza per un’estetica nera degna di essere elevata a pari dignità di quella bianca. In svariate immagini la fotografa gioca con il tema dell’identità razziale e di genere sfumando di proposito confini e categorie là dove marines bianchi in addestramento si tingono il volto di colori scuri, verdi e mimetici. Altrove, dei soldati neri si coprono il volto di bianche vernici per esigenze di mimetismo militare, un’ufficiale donna dell’esercito si assimila a un uomo in divisa, infine alcune aristocratiche afroamericane si rendono facsimili di bianche newyorkesi.

Dietro la macchina fotografica

Arnold apre le porte al mondo dello spettacolo in un’altra parte del suo lavoro fotografando nel corso degli anni famose celebrità come Marlene Ditrich, Marilyn Monroe o Joan Crawford. Sempre, tuttavia, l’estetica dell’essenziale nei soggetti fotografati permane là dove le sue fotografie implicitamente decostruiscono uno stereotipo smantellando il mito dell’ assoluta bellezza e perfezione esaltato dal divismo hollywoodiano per mostrare invece il volto più umano, la fragilità o la fatica dietro l’apparire, infine la lotta contro il passaggio tempo per tali celebrità messe a nudo. Arnold coglie, per esempio l’attrice Marilyn Monroe nel deserto del Nevada sul set del film “gli Spostati” con cui Magnum ha un contratto fotografico esclusivo. L’attrice è da poco uscita da un ospedale dopo una profonda crisi personale, il suo matrimonio in naufragio e le riprese si prolungano estenuanti  nel caldo torrido del Nevada. La fotografa si insinua in quel clima particolare, catturando tali momenti immersi nel deserto californiano, avvolti da un velo di silenzio e malinconia : un grido trattenuto di tacita angoscia che si alterna a momenti più leggeri e giocosi di naturale sensualità dell’attrice. Mostra tanto la vulnerabilità quanto l’intrinseco fascino della Monroe epurato però da quell’aria di falso divismo tipico della fotografia hollywoodiana dell’epoca. Quasi che la Arnold chiedesse alla fotografia di mostrare qualcosa di più autentico e sorprendente rompendo la maschera della rappresentazione, lo stereotipo  nel quale il soggetto era solitamente inquadrato.

Volti dal mondo

Nel 1969 Arnold parte insieme alla scrittrice Lesley Blanch per un viaggio durato diversi mesi attraverso l’Afghanistan, il Pakistan, L’Egitto e gli Emitati Arabi per la realizzazione di un grande progetto fotografico “Behind the veil” ispirato dall’esortazione dell’allora presidente tunisino rivolta alle donne del proprio paese a “togliersi il velo”.  Si tratta di una galleria di ritratti o volti femminili delle più svariate età e provenienze_ da bambine a anziane_ colti nel corso del viaggio in strada oppure durante le cerimonie più tradizionali, negli harem o ancora nelle scuole di Kabul. Le donne si mostrano con il viso coperto da un  burka o il capo parzialmente celato da un HIjad, altre come queste bambine afgane, probabilmente gitane, senza velo  ornate di medagliette e gioielli dorati oppure, ancora, i ritratti si stagliano limpidi e puri sotto il copricapo colorato. In Arnold i volti si mostrano o si nascondono secondo una focalizzazione che può variare in intensità e spazialità_ prestando particolare attenzione al femminile_ ma  sempre mettono a nudo con o senza maschere qualcosa di autentico come la limpida bellezza e unicità  insita in ciascuno di noi nella differenza e complessità di ogni cultura.

 




 





 









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