martedì 11 dicembre 2018

…VIAGGIO, RACCONTO, MEMORIA, attraverso le fotografie di Ferdinando Scianna




All’inizio di questo viaggio per immagini nella retrospettiva “Viaggio, Racconto, Memoria” ai Musei san Domenico di Forlì è la miriade di scatti e storie, racconti e memorie legati all'universo fotografico di Ferdinado Scianna: la quintessenza del suo stile, il suo essere attraverso la fotografia a stretto contatto con il mondo, in presa diretta con la vita e parte in causa della storia che in maniera estemporanea documenta nel lavoro di reportage. La selezione di immagini dedicate a Bagheria nella prima sala rende testimonianza alla sua terra natale, la Sicilia, luogo d’appartenenza e di radici, di fughe obbligate nel corso degli anni ed ossessivi ritorni, di salti in avanti nel tempo al presente e riecheggiamenti di un mondo arcaico e vagheggiato  simile a scintille di memoria dall'infanzia o dalla prima giovinezza 
ritrovate in fulminei istanti di fuga dal presente. 





Bagheria, l’odiato-amato paese in cui sono nato, dove ho passato la mia infanzia, in provincia di Palermo, dove ho vissuto fin ai 23 anni, dolce e terribile luogo dell’anima dove ho scattato ben più fotografie di quanto non sospettassi. Ho continuato a fotografare a Bagheria nel corso degli anni, negli innumerevoli,  desiderati ora temuti, felici ora dolorosi, qualche volta inevitabili ritorni”[i].

La questione ossessiva quanto inevitabile per Scianna sull’essere siciliano si lega alla ragione prima, all’essenza stessa del fotografare  che per lui è indiscutibilmente un modo, forse il solo di approcciarsi alla realtà, di esserci e guardare il mondo nel tentativo di comprendere, fosse solo qualche istante decisivo, e di raccontarlo attraverso il mezzo fotografico . Cosa significa essere nati in quel luogo , isolato e isolano, impregnato di anacronismi e tradizioni, riempito di rituali e affondato in un immobilismo fuori dal tempo, letargico e fatale, poi andare via, allontanarsene per gettarsi nel maelstrom del vivente da Milano a Parigi collaborando con un’agenzia internazionale e e prestigiosa come Magnum o nei vari reportage in giro per il mondo , eppure continuare a guardare, a esplorare la realtà con occhi da siciliano. 

Quando partiamo la nostalgia comincia a tormentarci, il lavoro di trasfigurazione della memoria in un ritorno tanto sognato quanto reso impossibile. Dalla Sicilia si scappa ma non si lascia mai l’ossessione delle origini..”.





Origini, radici, la terra di Sicilia





Le fotografie della prima sala scattate negli anni ’60 dalle inquadrature altamente cinematografiche ricreano ambientazioni, atmosfere, stati emozionali dell’intrinseca identità dell’isola evocando in scorci suggestivi immagini giunte dagli anni dell’infanzia o della  della prima giovinezza in Sicilia. In “maestro d’acqua”: un uomo di età avanzata appare 


seduto tra gli arroccamenti a ridosso del mare sulle coste  palermitane intento a sorvegliare un gregge. Solitario, asettico, inerte all’ azione, il suo sguardo appare gettato lontano oltre gli altopiani, pensatore  estraniato dal presente. Palermo velata da una tenda è inquadrata in un’altra fotografia. Dietro quella il profilo di una donna si intravvede tenendo per mano il figlioletto in primo piano: tendaggi, schermi o reti mediano lo sguardo e separano, oscurano, pongono dei filtri visivi alla memoria rendendo quel mondo lontano e fittizio, più distante e remoto. Un gruppo di uomini in un bar avvolti da una coltre densa e grigiastra di fumo aspirano lentamente dai loro sigari mentre si soffermano indolenti e solitari a giocare a carte e  a scommettere sul nulla del proprio presente. Bagheria sono le case arroccate sugli scogli in prossimità del mare, scavate dentro la pietra in un piccolo borgo solitario e resistente, lì da secoli esposto alle intemperie e alle tempeste, alla durezza della vita dei pescatori, costruite l’una a ridosso dell’altra a strapiombo sulla costiera. E’ lo sguardo di una donna anziana lucido e acuto in primissimo piano dagli occhi tempestati di nera ematite rilucente di ghiaccio. Sono i volti di donne avvolti da veli neri nel sole accecante del mezzogiorno a ridosso delle case del villaggio. Sono orizzonti, “dalla terrazza della casa dei miei nonni si vedevano agrumeti fino al mare, dalla cappella di s. Giusipuzzu la Villa Rosa si stagliava libera contro il monte Pellegrino”.









Le feste, ugualmente appaiono tra i soggetti più frequentemente fotografati e affascinati per Scianna che già all’età di ventun anni collabora con lo scrittore Sciascia pubblicando il suo primo saggio in immagini “Feste religiose in Sicilia”.  Patronali o liturgiche, barocche o religiose, riferite a santi o patroni di un paese,  un villaggio, o una contrada come la  notte del fuoco rigeneratore di S. Giuseppe, le feste ricorrono nelle fotografie di Scianna come momenti catartici, eventi rituali nella vita di un gruppo, momenti di estasi collettiva o insieme riti regolatori e purificanti di una comunità, infine , nelle parole del fotografo: “ il solo momento in cui il siciliano esce dalla sua condizione di uomo solo, del suo vigilante e doloroso super-io per ritrovarsi parte di un ceto, di una classe, di una città.” 
I volti estasiati e sorpresi di una folla di giovani e bambini attendono con gli sguardi volti verso l’alto in un'unica direzione nella prima di queste immagini l’accendersi del fuoco rigeneratore, l’inizio del falò rituale che brucerà in ogni piazza, in ogni angolo di strada  “mobilio e roba vecchia” danzando per rigenerare speranze ed energie collettive nel mezzo dell’inverno. Sono ancora le sfilate patronali con i volti celati degli adulti e i bambini coperti da vesti sacramentali per riappropriare l'evento della passione del Cristo, interpretata e ritualizzata come scena di catarsi collettiva nelle strade del paesino.  


 A Lourdes, in contrasto sulla stessa parete un uomo porta tra le braccia in primissimo piano un giovane probabilmente infermo e la dimensione della fotografia sfiora d’un tratto l’altro estremo del rituale religioso tacito, silenzioso e interiorizzato: il volto in cerca di redenzione, l’infermità esposta in attesa della straordinaria presenza del divino, l’intervento del miracoloso. Qui non è più la folla, il caos, l’esasperazione del rito collettivo e catartico ma il gesto silenzioso dell’offrirsi totalmente per questo singolo corpo infermo e senza difese al divino: l'abbandonarsi alla grazia salvifica e rigeneratrice. Le due singole figure, una portando tra le braccia l’altra, inerte, sembrano rischiarate da una misteriosa fonte di luce giunta sulla scena come un’ irradiazione del divino  sullo sfondo lasciato all'oscurità circostante.


Reportage di viaggio

“La speranza di vita a Kami, meno che un villaggio era un accampamento di minatori aggrappato a quattromila metri sulle Ande boliviane, era di 31 anni. Distrutti dalla fatica, abbrutiti dalla chica e dalla coca, quando rientravano, spesso troppo ubriachi per trovare il loro casotto di lamiera, crollavano per strada..Eppure ogni giorno, soprattutto in quelli di festa le donne passavano ore a pettinarsi i densi capelli neri ed a agghindarsi per loro.

“Veniva da un villaggio lontano ed era arrivato con un mulo e un lama. Il suo volto concentrato nella fatica e nella paura aveva sfaccettature da scultura lignea medievale.” (Scianna,  Visti e scritti)


Sono le Ande boliviane dove ignoti individui, uomini e donne nei secoli hanno scavato oro, argento, stagno e metalli per far risplendere i palazzi e i gli splendori degli imperi colonizzatori che li hanno dominati. E, ancora, in Etiopia nei campi profughi i bambini in emergenza di guerra e di carestia morivano ogni giorno sotto gli occhi del fotografo, infine, tutte le zone della terra colpite da emergenze politiche o umanitarie dove i mandati documentari hanno condotto il fotografo nel corso degli anni.

 Scianna in un’intervista a proposito degli scatti in Etiopia ricorda la stretta atroce che lo paralizza,  nell'impossibilità di fotografare di fronte all'ineluttabile evidenza della sofferenza atroce dei molti, della morte toccata con mano in quel campo profughi dove a migliaia, soprattutto bambini, morivano ogni giorno di stenti e malnutrizione nelle condizioni più miserabili. Come Scianna afferma ciò che lo spinse ad attraversare quel muro di silenzio, a superare la parete invalicabile della sofferenza atroce di quella realtà  e ritrovare così una motivazione al suo lavoro fu  la risposta immediata e intuitiva del corpo nel suo innato sapere, il suo grido primordiale verso la vita più impellente e pervasivo di ogni fragilità o blocco psichico vissuto di fronte alla tragedia dei molti.
Come egli afferma a questo proposito: 

“Nelle fotografie metti il tuo dolore, la tua pietà. Non cercare di fuggire, non tentare di cambiare il mondo. Usa la tua fragilità, il corpo nel suo bisogno primordiale, nel suo istinto primo di vita più forte dell’angoscia o della paura del momento”.

 La necessità fisica quasi, l’impulso alla vita  in quel faccia a faccia diretto e inequivocabile alla morte. I volti di Kami (1986) in questo senso non sono la semplice documentazione di sfruttamento o miseria per i minatori delle Ande Boliviane ma inseguono negli scatti più belli questo grido alla vita, svelando una forma di sorprendente bellezza insita nel volto di una giovane donna colta di profilo nell'atto di pettinarsi o sciogliersi i capelli scuri sulla pelle olivastra, ondeggianti al vento. Lei avvolta in uno scialle di lana di tessitura indigena appare in una sorta di innata sensualità come il ragazzo nell'immagine accanto in una inesorabile malinconia, ben al di là del reportage giornalistico sullo sfruttamento in atto.

Ossessioni: gli oggetti al centro della fotografia

“Se queste fossero le fotografie, immagini fuggite dagli specchi per vivere di vita propria. Un tentativo della cultura occidentale di dare una risposta sulla domanda fondamentale relativa all’ esistenza, al mondo e a noi stessi”.

“Forse le fotografie sono davvero le memorie di tutti gli specchi che hanno riflesso le cose, i volti o le immagini di tanti uomini(..) Per una volta non siamo noi che abbiamo rotto gli specchi per andarvi a cercare dentro chissà quale verità nascosta di noi stessi o del mondo ma è la labile verità delle immagini che è uscita per invadere il mondo, per invadere i nostri album di famiglia, per problematizzare il nostro rapporto con la memoria sino all'inflazione nullificante che oggi viviamo”.


Le cose rappresentano per il fotografo un modo di guardare il mondo nella sua miriade di sfaccettature che rimandano spesso proiezioni conflittuali o contraddittorie, e, a partire da quelle,   di ricostruire un’idea unitaria di sé stesso rispetto ad esso. Le immagini di Scianna nascono in una continuità tra il vedere, sentire e pensare, convocando spesso citazioni visive di imprescindibili maestri come Cartier-Bresson. Le cose, gli oggetti del mondo, ciò in cui ci si imbatte o che si incontra accidentalmente fino a divenire “occasione” in senso poetico per la fotografia restano sempre al centro del suo lavoro: “ piccole cose di poco prezzo, senza importanza. Le cose raccontano, ci raccontano, le fotografie fanno parte di questo racconto”.



Foglie viste con sguardo ravvicinato ci avvolgono come un panno avviluppante di bianco tessuto che diventa fogliame, lenzuolo in filigrana di madreperlacea, avvolgente memoria su un fondale oscuro. Uova di struzzo come bianche rotondità candide e preziose su una terra inaridita di siccità a Dijbuti sono ammonticchiate in primo piano ai piedi consunti dal cammino di una donna  africana. Accanto e' un paniere ricolmo di cannucce. Scintillanti si stagliano come oggetti preziosi investiti di un’aurea fuori dall'ordinario, quasi reperti archeologici bizzarri e introvabili, preziosi e magnificenti nel loro bianco candore.





Fotografare i dormienti

Al sonno ci si abbandona quasi di nascosto, in luoghi protetti, al riparo dallo sguardo d’altri per trovare quiete, riposo, rigenerarsi dopo una lunga giornata di affannoso vorticare del corpo e nello spirito, magari per proiettarsi in sogno o svegliarsi invece tormentati da intrusioni insidiose della mente, dai margini oscuri di una psiche risvegliata da inusitate intrusioni dell’inconscio. Nelle fotografie di Scianna ci si abbandona letteralmente al sonno, e in uno o nell’altro versante; gli scatti rubano momenti in cui il flusso della vita si interrompe e il tempo in divenire di un eterno presente si arresta e attende di fronte al miracolo della quiete naturale ritrovata.
Un bambino dorme in Mali avvolto sulla spiaggia e cullato dalle onde di una bassa marea lentamente avanzante , avvolto e cullato quasi da un lenzuolo intessuto sulle acque che lo avviluppano come una grande foglia nel palmo di una mano. Una natura primordiale e matrigna qui pare ancora accoglierlo, lui parte di quella unità totalizzante.  .
Si dorme trovando quiete, una donna in un luogo di detenzione su una panca di legno intagliata da scanalature di acciaio opache. Si dorme ancora sulla panchina di un parco a New York per un ragazzo nero della strada trovando qui per un attimo pace dallo stridore e frastuono di un intollerabile al di fuori. Si dorme sui sedili delle metropolitane o dei parchi, nelle stazioni, nei luoghi meno avvenenti in Scianna, nei margini di abbandono, a lato degli spazi pubblici mondani contro la ricchezza  platealmente  esposta di un capitalismo che esilia e marginalizza gli individui rimasti esterni all’ingranaggio del sistema. Oppure si dorme sulle rive del mare in Malì abbracciati alla forza primordiale di una natura benigna in continuità con il vivente, distaccati dal tumulto invadente del mondo altro, esterno all'inquadratura. La fotografia, allora, salva istanti di vita nel momento stesso in cui li arresta, li fissa e li immobilizza in immagini che portano in sé ciò che non è più come scriveva Barthes: il divenire di uno sguardo, un volto o l’apparire di un evento in un istante unico e irripetibile, l'immagine offerta al mondo in luogo di una reale sparizione del soggetto.

                 
I luoghi


“Ho sempre pensato che faccio fotografie perché il mondo è là…questi luoghi non mi sembra di averli cercati, li ho incontrati vivendo, poi ho scelto tra le fotografie realizzate alcune in cui riconoscermi”.

Riconoscere quasi, intuitivamente qualcosa dei luoghi, scorci che lo connettono alla sorgente dell’immagine e della memoria, in qualche modo del fare fotografia per Scianna. Il camminare è parte integrante del lavoro del fotografo, cioè il vagare attraverso i luoghi e le cose cercando momenti significativi per cogliere “ il sentimento che il mondo, la vita in quel momento ci offre ."

Viaggiare, camminare, percorrere a piedi, perdersi e ritornare sui propri passi; la ricerca non è mai semplicemente documentaria ma ontologica, esistenziale in questo ossessivo, insensato e necessario vagare.
Come afferma Scianna: “ogni viaggio è sempre anche un viaggio spirituale  se andando altrove si viaggia anche dentro sé stessi”.

I luoghi parlano di identità, posseggono la tacita consapevolezza d’essere insieme viventi e abitati, propagano il  sentore delle persone, degli eventi che li attraversano, qualche volta l’afflato disperante di una scena di morte o distruzione. Così vediamo il volto di un giovane boliviano dagli occhi e capelli corvini con addosso un cappello e una giacca nera ai margini della foto contro il miraggio dall’altra parte della strada di una vetrina con tv, stereo, manichini e oggetti della cultura consumistica occidentale. 
E' l’immagine di un bambino morente in Etiopia stretto al seno della madre sullo sfondo di un campo profughi durante l’emergenza umanitaria della carestia etiope dell’1984.

Uno scenario da sogno in un elegante giardino parigino è visto attraverso lo schermo distanziante di una finestra , come si trattasse di un sogno guardato attraverso le linee nere degli infissi che separano e filtrano l’immagine proiettandola in una dimensione surreale e psicanalitica. La giovane coppia elegantemente abbigliata in bianco è vista abbracciarsi, stingersi  intrappolata nello specchio al di là del nostro sguardo. Ancora Milano appare avvolta nella nebbia, e un tracciato di tram è inciso a terra sulla distesa bianca e incontaminata dopo una nevicata imminente. 



Valencia è l’abbraccio appassionato e clandestino, la stretta sensuale di due giovani amanti contro  un muro scrostato, trasudante di scritte in vernice contro le inferriate della cella di una prigione o un vecchio edificio di reclusione . Infine New York appare nell’immagine emblematica dall’interno di un fast-food frequentato dai  neri d’America in primissimo piano. Al suono tintinnante di un banco di fronte a un cassiere  un uomo nero ordina hot dogs e un altro se ne sta seduto, espanso e magnificente nella sua carnalità, obeso e inerte dall’altra parte del tavolo, sazio e impassibile di fronte a un piatto vuoto.





“Se parli della vita, la vita ti regalerà le fotografie”

“La fotografia contro l’indeterminato del flusso mediatico” rappresenta per Scianna l’arresto, il punto nodale, la presa di posizione critica e poetica, l’interrogarsi e insieme la scelta, anche se mai completamente consapevole su quello che la realtà offre o espone ai suoi occhi al momento dello scatto.

 “Prima viene il tuo rapporto con la vita, poi la fotografia: ciò che ti parla, ti preme, ti indigna o ti fa reagire, ciò che tu come artista vuoi raccontare. Usi la fotografia per dirlo perché se parti dalla vita e non dalla forma la vita ti regalerà le più belle fotografie”.

 Sono immagini trovate o ritrovate secondo Scianna e non costruite, scoperte vagando attraverso gli oggetti o gli eventi del quotidiano oppure che risvegliano in lui, come in noi spettatori, una qualche intrinseca memoria, antica, forse a noi stessi a priori inconoscibile. Le stesse hanno il potere di raccontare una storia attraverso un istante fissato sulla pellicola come una “verità delle immagini uscita per invadere il mondo” al di là della volontà del singolo di manipolarla o arrestarla_ quello che Cartier-Bresson chiamava l’istante decisivo. 



Egitto, (1989)

Nata come foto di moda l’immagine esula dai limiti del mandato commerciale e coglie nell'istante stesso dello scatto la quintessenza di un moto verso la vita.Traspare immediatamente l’ebrezza leggera della libertà nella corsa della donna attraverso l’arido deserto, nel gioco e nelle risa dei bambini sullo sfondo. L’insostenibile leggerezza dell’essere al centro della fotografia, essa in primis arte dell’istante, dell’effimero e del transitorio fissato come impronta di luce sulla pellicola in negativo: istantanea traccia sul fluire indeterminato del vivente.   

La giovane donna  in tayeur bianco aperto a v avanza nella corsa in sospensione aerea quasi sollevando i piedi calzati da saldali e a metà immersi  ancora nella sabbia del deserto egiziano.  Nel salto gioioso e leggero celebra la bellezza dell’istante sradicando i piedi dalle sabbie immote del deserto accompagnata dalla grazia di questi bambini egiziani forse del vicino villaggio. Il movimento traspare sullo sfondo del deserto, delle rocce e dei rilievi,  contro il villaggio visto a distanza, sulla povertà che trapela tra le linee, sullo sfondo  dei promontori, delle case di terra dissecata e della sabbia arida del deserto. 





[i] Tutte le citazioni sono tratte dal catalogo della mostra, “Ferdinando Scianna, viaggio, racconto, memoria” a cura dei Musei  San Domenico di Forlì, 2018.

martedì 9 ottobre 2018

IMMAGINI da "CERAMICS NOW "( al MIC di Faenza)



Ngodi Omeje Ezema “In my garden there are many colours “


“Nel mio giardino ci sono molti colori, un giardino di sogni e speranze che spesso restano irrealizzati. Parlo ai miei sogni non realizzati, la mente è un luogo fertile per visioni utopiche che possono o meno un giorno diventare reali”. Quei sogni restano, nell’installazione di Ngodi, sospesi in aria, fluttuanti sopra le nostre teste, legati a noi da fili sottili che minacciano da un giorno all’altro di spezzarsi , scindersi e precipitare al suolo. Lì in quel sistema di corde marine e cavi soggiacenti, i ritagli di plastica, i pezzetti colorati di tante vecchie infradito sono ricuciti insieme e semplicemente lasciati fluttuare come una nuvola di colore da tante cordicelle invisibili e lievi.
 Seppellite, celate, o sommerse come le immagini più autentiche che ci portiamo addosso spesso soffocate da altre più gravi evenienze. Eppure, essi, solo, ci legano direttamente al centro o alla vera ragione della nostra anima. Fatti dei mille ritagli di passi, di piedi e di impronte, dei mille passi  che abbiamo fatto o immaginato e sognato di fare. Leggeri, volatili restano sopra di noi sospesi come un nugolo di libellule, di rosso e d'oro, di forme svolazzanti e aeree fuse insieme in uno  sciame di farfalle, di una scia di lucciole in una notte d’estate; quelle che come affermava Pasolini oggi tendono sempre di più a scomparire a causa dell’inquinamento imperante della nostra società.





Satoru Hoshino, “beginning form, spiral”


La spirale è all’origine di ogni forma di movimento. Impronte di mani, segni di dita e di lotta, di gesti fallaci nascosti sotto la superficie liscia e levigata, incantevole e pura degli oggetti scolpiti. La spirale è una forma circolare che si restringe a vortice verso il centro, ritrova una sua via verso l’origine e di lì prolifera, espande, dischiude in mille altre infiniti eco e forme circolari e quasi perfette richiamando, tuttavia sempre, quel nucleo primo e propulsore.

 “Ceramics Now”: l'arte contemporanea al Mic da ogni angolo del mondo




Come un terreno desertico e ingigantito una banconota americana da cento dollari si apre in crepe profonde segnate da aride spaccature rese in un rosso incandescente conduttore di elettricità al suolo.
 La banconota come pezzo unico espande incorniciata e messa alla prova in dimensioni che il materiale ceramico non potrebbe sostenere aprendosi, per questo, in fenditure massicce durante il processo di essicamento dell’argilla.
Come appare il denaro in tale ottica contemporanea? Testimonia dell’attuale svuotamento del suo valore effettivo di moneta di scambio, dell’insorgere sempre più di un capitalismo finanziario e virtuale determinato da cifre e numeri sui mercati finanziari che tende a distruggere il valore autentico del capitale e del lavoro in una reale economia.
Così la banconota si sfalda, il volto iconico di Benjamin Franklin si apre in crepe rossicce sulla superficie essiccata di questa America i cui caratteri stampati appaiono segnati da un’ulteriore linea di frattura. 
E’ anche l’evidenza di una dismisura diffusa e palesemente presente nella nostra società, quando perdiamo la giusta dimensione della materialità o del possesso delle cose, quando esasperiamo o dilatiamo la loro presenza e necessità;  quella in cui il denaro diventa valore assoluto, avidità di ricchezza e di potere ad esso connessa ben oltre il suo valore reale d’uso e di scambio.



COSTELLAZIONE “WAITING(Bertozzi e Casoni 2013)

In “waiting” si attende il soccorso, l’esito insperato, il pronto intervento di chi vi salverà o vi condurrà alla rovina. E si gira in senso circolare, si percorre una costellazione celeste con tanto di tema astrale al centro e mappa dell’universo fatta di cassette da pronto soccorso, chiocciole e terraglia invetriata e dipinta. 
Si percorre con lo sguardo la scia di queste chiocciole o molluschi d’acqua, dall’antichità simbolo di armonia e rinascita dopo la lunga, profonda ibernazione invernale. Una volta celeste, dal blu oltremare intenso, oscuro e riflettente e una mappa astrologica d’oro al centro: la vita di Rothko artista espressionista americano qui  evocato. C'è qualcosa dell’attesa, di un movimento che percuote ad ogni passo , del proseguire dentro la forma circolare di una volta celeste. Scrivere è anche interrogare l’ordine del cosmo, la mappa astrale della nostra vita, ognuno di noi nella visione di un proprio singolo destino riassorbito e ricompreso in quello totalizzante del cosmo.

“The clay contains the history of time”; l’argilla contiene la storia del tempo, l’evolvere della materia attraverso il tempo della scultura, poi la storia unica e irripetibile di ciascuno di noi, infine la storia vista oltre la dimensione storica in una temporalità  eterna e senza fine che ci ricollega alla genesi o all'origine divina della creazione.  




lunedì 8 ottobre 2018

VERTIGO, “WALKING ON THE EDGE OF THE TONE” (Alessandro Roma al MIC di Faenza)





Le grandi tele del giovane artista Alessandro Roma, scorte vagando nel piano sotterraneo del Mic di Faenza espandono e trascendono della loro vibrazione colorata il nucleo primario delle sculture in ceramica poste a lato; amplificano e irradiando di forza magnetica la cromia suggerita o espansa, saturata o esasperata di ogni singola esperienza pittorica.








Oceano-mare in movimento: le cupe sfumature del blu appaiono intrappolate e riflesse attraverso le profondità marine oceaniche. Oleoso, vorticante, spinto fino al maelstrom dell’inconscio. Una chioma di sirene, linee d’acqua e di sogni si annodano eteree nelle profondità marine là dove il mondo appare liquido, impalpabile e la solidità delle forme dilegua nel dolce fluttuare delle acque. 
I raggi filtrati attraverso le profondità dell’oceano irradiano in un proliferare di vegetazione, foglie, piante e arbusti.






Verde Smeraldo adiacente: il primario dell’acqua come l’approfondirsi di un pensiero inconscio.






Pallido tenue lilla, diluito, attenuato, slavato via da una luminosità diffusa: la ricerca della quiete, la sensazione di pacificazione. Pallido sole nascente disperde la paura e inonda di calma la mente oltre la densa apatia del presente e l’appiattimento dell’impulso all’azione.


Arancio: esplode in buchi e bruciature, escoriazioni sulla pelle del corpo e della tela. Solari forme muovono verso l’esterno del pian, si sollevano dalla superficie, risvegliate, riempite di nuovo alito di vita, sospinte fuori dal vento del deserto, soffio potente attraverso le sabbie incandescenti del Sahara. Quasi che un pifferaio magico avesse risvegliato poco a poco, le linee e le forme di un mondo in mutazione, ombre e figure ritornano alla vita dal grande respiro del deserto. Arancio giallo soffio caldo e vitale.

Celeste: celestiale risveglio, le linee delle acque si perdono nella risacca del mattino, linee di un ventre, una coppia di amanti stretti in un tenue abbraccio, Klimt. Linee di corpi sinuose linee d’isole, di grembi o di forme in divenire come in un ritorno alla vita, al risveglio del sensi, al luogo originario della nascita.

Da una tela all’altra mondi si aprono, universi di vibrazioni cromatiche attraverso il varco di una mente che visualizza e ricrea, ristruttura, ordina e dilata, espande e liquefa secondo il proprio primario impulso interiore.











sabato 7 luglio 2018

"Quasi Cento Passi .." dalla performance di Taoufiq Izeddiou ( con la complicità di 60 performers)

Cent Pas presque è una performance di danza urbana ideata dal coreografo marocchino Taoufiq Izeddiou
proposta su due giornate a Bologna all'interno della programmazione di Right to the City.











Foto dal progetto Cent pas Presque La Danza Esistenziale una fotografia "esperenziale" di Maria Grazia De Siena .https://www.mariagraziadesiena.com/cent_pas_presque




Quasi cento passi per giungere dall’altra parte, là oltre il varco aperto sull’asfalto vuoto nel punto in cui i performers ritrovano i musicisti, là dove la danza ritrova la musica nella sua fonte prima e innegabile che l’aveva condotta a distanza, dove la gente ritrova, infine, la gioia della riconnessione attraverso il fluido vitale e ritmico del movimento.  Quasi cento passi per camminare e rialzarsi, cadere  e continuare il propri viaggio, saltare e liberarsi, lasciar sorgere e circolare, esplodere e rovesciare dal dentro al fuori e viceversa, nel continuo dal singolo al gruppo, quasi cento passi per vivere la propria danza...

Come afferma il coreografo ideatore del progetto Taoufiq Izeddiou: “Quando vedo la gente che cammina insieme, ho l’impressione di vedere il mondo stesso che cammina, con tutti i suoi conflitti e le sue identità. L’unica cosa che posso dire a questa società è di camminare insieme nella stessa direzione, di ascoltarsi l’un l’altro per giungere a comunicare un messaggio comune o perlomeno trovare un linguaggio univoco”, pur nella diversità, nella singolarità del proprio segno.

Camminare qui è dall’inizio un’urgenza, l’appello inderogabile della musica che avanza e cresce accompagnando i danzatori, qualcosa che ci richiama dal primo passo, dal primo respiro ai cento passi che emblematicamente diventeranno i passaggi, le cadute, i cambi di direzione, i ritorni e i repentini avanzamenti nel percorso fisico e esistenziale della performance. Dai primi gesti incerti, vacillanti , dove con esitazione si cercano i confini di sé che ancora non si vedono o non ci appartengono completamente e si esplora la lentezza del risveglio, la quasi immobilità dell’avanzare o dello stare sulla terra, si giunge poi  all’appoggiare i piedi al suolo e lasciare la propria orma nitida e impressa al passaggio. Tracciare un proprio percorso e insieme definire una danza, un cammino che chi è dietro di noi possa seguire. Si arriverà, infine, a camminare con gli altri, con l’altro che mi sta accanto fino scoprire un ritmo comune, un movimento che rimbalza costantemente nel flusso della coralità o del gruppo.

“Quasi cento passi” è il luogo di quest’urgenza che ci chiama,  là dove noi tutti siamo portati a intraprendere un cammino, ad avanzare, ora a rallentare  o quasi arrestarsi per resistere all’appello della musica, ora a tornare indietro o gettarsi all’avanti, a emergere come singoli per poi riconnettersi al flusso collettivo. E’ ancora, saltare, rompere le linee, deflagrare, gridare, liberarsi. Ognuno partecipa con il proprio cammino, “cammina sé stesso” in fondo, portando il senso del proprio viaggio ma , in un momento inevitabile, si ricongiunge all’energia di quel tempo e quello spazio condivisi da tante altre umanità fino a creare un ritmo comune: l’essere insieme nell’istante presente.

In “Cento passi”  un gruppo di persone totalmente estranee l'una all'altra, adolescenti, giovani o anziani,  stranieri, immigranti o autoctoni, studenti, performer o amatori si ritrovano per far emergere e costruire un progetto comune di riscatto della città, nello specifico di Bologna, dentro uno spazio pubblico, democratico e collettivo di condivisione.
Taoufiq: “  ..Scegliamo di camminare nella stessa direzione, verso un futuro, un presente e un passato. È come scrivere una partitura di un’ora in crescendo.”. Il  tempo presente è quello dell’istante che rischia di sfuggirci di mano mentre tentiamo di afferrarlo, eppure fonte inesauribile di possibilità che possono emergere  e che  la danza cercherà di incorporare, far vibrare e vivere insieme ai ritorni repentini o alle rapide avanzate del percorso. Là ancora, per ciascuno di noi,  sono le incursioni fuori dalla linea  che ci spingono verso l’aperto, l’indeterminato o l'estraneo di noi stessi  mentre il tempo biforca costantemente tra passato e presente lungo il cammino.













“Centro passi” interpella la nostra società, multipla, ibrida e mista fatta di migrazioni, flussi o spostamenti di masse e individui, iscritta dentro un’economia che si vuole sempre più globale e tecnocratica all’ultimo stadio del capitalismo interrogandoci sul come possiamo giungere a superare le barriere generate da differenze etniche, razziali e di   religione , le opposizioni o conflitti di interesse tra i singoli o i gruppi al potere  . 
Allo stesso modo, noi per primi, come possiamo superare l’incomunicabilità o l’isolamento di chi ci è vicino per costruire un progetto collettivo, un modello comunitario di integrazione  e unità nella differenza... Queste persone sono in cammino, avanzano verso qualcosa che non percepiscono dal loro punto di partenza se non come una pura possibilità, qualcosa che non è ancora in atto ma può essere visto come un orizzonte utopico e idealista per una società a venire. Il semplice atto del cammino, camminare insieme ciascuno con il proprio ritmo e passo che poi diventerà la propria danza, costruisce a poco a poco il senso di una comunità che avanza verso un punto di arrivo, invisibile e lontano come una linea appena accennata all’orizzonte.
 Sul cammino avviene l’incontro, l’interazione, un’energia che ha a che fare con  l'attrazione e la riconnessione tra i corpi  mentre ciascuno  porta in sé il proprio bagaglio unico, irripetibile e personale e lo reintegra nel contesto collettivo. Perché è proprio l’essere insieme, in “cento passi” che permette di esprimere la propria voce singolare , come se ognuno lottasse per far emergere la propria danza nel contesto di un’azione che si dispiega nello spazio pubblico, urbano e condiviso di una città  da reimmaginare.

 “La danza è in ciascuno di noi, in ogni corpo, in ogni esperienza di vita” afferma Toufiq, tutti l’abbiamo dentro di noi, unica e singolare, la nostra, e il pubblico è incantato quando comincia a emergere, quando questa si lascia vedere e sorprendere oltre le interferenze e le resistenze, oltre i muri fisici e mentali che le impediscono di manifestarsi.
Ed è alla fine  lì che arriva la gioia dell' essere insieme, la festa, il movimento collettivo  della città come una vera e propria esplosione danzante e gioiosa di tutta la comunità, dei performers e musicisti al ritmo di una musica sempre più sorprendente  e sfrenata, dall’anima al corpo del danzatore che è in ciascuno di noi.