Come afferma il regista Jordan River: “Penso che la vita di Artemisia e le sue opere possano oggi farci immergere nella potenza dell’arte su un piano emozionale e comprendere ciò che vive nell’animo un artista a tratti oppresso dalle circostanze quotidiane che a volte la vita può riservare a un essere umano”. Il documentario mette in luce, in particolare, questa commistione profonda tra la vita e l’opera della pittrice, la sua personalità artistica e stile espressivo intimamente connessi alle vicende esistenziali. Orfana molto giovane di madre, Artemisia era figlia del noto pittore Orazio Gentileschi che nella sua casa-bottega a Roma ne valorizzò il talento precoce, la condusse passo a passo sulla via della pittura mettendola in contatto con maestri influenti e noti come il Caravaggio. L’evento dello stupro giovanile subito dal Tassi, l’umiliazione del processo che ne seguì e il matrimonio riparatore con un mediocre e quasi sconosciuto pittore segnano tutta la sua giovinezza e si proiettano con veemenza nella sua opera fino a renderla senza dubbio il simbolo di un’arte assertiva e di una voce inequivocabilmente femminile. In definitiva, è la dimensione interiore e esistenziale dell’artista, nello specifico il suo essere donna in un mondo dominato da leggi e gerarchie di potere a cui esse non hanno accesso, e riflettersi in queste opere di matrice classica, a sfondo mitologico o religioso, tanto da renderle per noi estremamente espressive e attuali oltre il loro tempo e la storia.
Artemisia, privilegiata dalla protezione di committenti e mecenati potenti, appare nel ‘600 l’eccezione in un mondo dominato da sole presenze maschili; è tra le prime a combattere contro cliché e discriminazioni di genere per affermarsi professionalmente grazie al suo talento e alla sua formazione artistica.
Vorremmo
soffermarci qui su tre opere in particolare di Artemisia appartenenti a epoche
diverse del suo lavoro ma certamente abitate
da un’imponente energia femminile comune a queste figure mitologiche e
drammatiche che in qualche modo si integrano con la vita dell’artista nutrendosi
della sua personalità.
Giuditta che decapita Oloferne ( 1613)
Colpisce la
violenza del gesto in Giuditta, esasperato, irreversibile, visto come una
rivalsa, una vendetta, un’esplosione di rabbia culminante nel taglio sanguineo della
testa di Oloferne mentre la serva è complice nell’immobilizzarne il corpo. Che
un’artista donna esasperi a tal punto una passione violenta fino a riversarla
con tale energia incontenibile sulla tela è quantomeno sorprendente per l’epoca.
Al momento del dipinto Artemisia non è più all’inizio della carriera ma
pittrice sicura della propria tecnica e in connessione profonda con la propria
interiorità attraverso la pittura. E’ la donna che aveva fatto fronte alla
violenza subita e all’umiliazione del relativo processo un anno prima, che screditata si era poi
trasferita a Firenze con un matrimonio riparatore per voltare pagina alla
vicenda. Nella Bibbia Giuditta è una vedova ebrea coraggiosa che salva il suo
popolo dall’assalto degli Assiri seducendo il generale assiro a Betulia per poi
tagliargli la testa. Caravaggio, uno dei grandi maestri, aveva già dipinto questo tema biblico ma
Giuditta nel chiaroscuro estremo delle figure caravaggesche appariva ancora a
una certa distanza da Oloferne. Nella versione di Artemisia il corpo dell’uomo
è coperto da un drappo rosso, disteso trasversalmente sul letto, la testa in
primo piano prossima agli spettatori e vicinissima a Giuditta. Il corpo è
braccato, tenuto fermo, immobilizzato dalla complicità delle due donne con vigore,
nella freddezza programmatica che precede un’esecuzione. Un bracciale scintilla
verde smeraldo sul braccio sinistro fermo e poderoso di Giuditta, la sua figura
statuaria, l’abito scollato, i capelli neri raccolti sulla testa. Lì, con
quella lama affilata e sottile sulla gola di Oloferne pronta a inciderla da
parte a parte attraverso la pelle. In quel brivido che precede l’atto omicida,
il gesto irreversibile, forse il piacere di una crudeltà restituita mentre fiotti
di sangue già sgorgano sui drappi bianchi dei lenzuoli. Tutta la scena è
avvolta da un profondo chiaroscuro di influenza caravaggesca ad eccezione dei
volti; le figure emergono da quel fondale nero con una luce intensa, calda che
mette in evidenza in modo drammatico l’esecuzione. Artemisia ritraeva spesso
tra i suoi soggetti scene violente o crudeli di uccisioni là dove l’urgenza
poetica si avvolgeva a stretto contatto con il dramma esistenziale. Qui sembra
che l’una nutra e raccolti l’altra come per esorcizzarla, sviscerarne la
memoria e insieme liberarne l’energia distruttiva e rabbiosa sulla tela.
Giuditta come carnefice dalle braccia robuste e muscolose compie l’esecuzione senza timore né pietà ma
con fredda, controllata determinazione in una sorta di rivalsa esistenziale: la
brutalità di un gesto riversato con arte sulla tela.
Autoritratto come allegoria della
pittura ( 1638-39)
La pittura per Artemisia è l’ autoritratto di sé, lei è la pittura e viceversa. E’ una donna che dipinge sé stessa al centro della scena, eppure lo sguardo scelto non è narcisistico, il suo volto non è frontale a noi spettatori quanto proiettato insieme al corpo verso quello che sta cercando, obliquo verso un altrove, un aldilà non visibile, non manifesto oltre la realtà della scena, oltre l’orizzonte del quadro.
Cerca, forse, il segreto della pittura in quell’oltre a
cui tende con l’intera figura, tutto il corpo carnale, massiccio, rapito verso
quell’interrogativo, una mano sollevata verso la tela con un pennello , l’altra
serrando la tavolozza. Il corpo si volge verso e oltre quell’orizzonte della tela
per meglio guardare; appare intenso, rapito in maniera quasi mistica. Tutto in
lei tende verso quell’altrove della pittura, lo sguardo con stupore là si
proietta come se là fosse il segreto del suo quadro.
La vergine e il bambino con il rosario (
1650-51)
Negli ultimi
anni il pennello diviene nelle parole di Artemisia “un’oggetto sacro”,
un’estensione del proprio pensiero, una cura per la propria anima mentre
l’artista sempre più consapevole della tecnica e potenzialità espressive
intreccia in maniera istintiva e serrata
arte e vita, lo stile pittorico sempre più audace e consolidato, la sua forte personalità artistica e i temi della
tradizione pittorica sacra . Nella “Vergine e il bambino con il rosario”, una
donna nobile, alter-ego della pittrice tende un rosario al bambino sulle sue
ginocchia in una visione mistica della
maternità in altre tele da lei rappresentata in chiave molto più carnale e
umana. Il rosario, in tale simbologia, è ciò che chiude il cerchio tra
divino e umano, che ricollega i due piani, quello della concezione divina e della
maternità umana, ciò che connette e vincola la figura femminile al figlio, al
bambino che è anche il Cristo Salvatore e sé stessa verso il mondo divino e
spirituale dell’arte.
Perché infine, il suo fare artistico così unico ed espressivo è inevitabilmente una lotta tacita e costante contro i pregiudizi e le riserve della sua epoca rivolti alle donne, in particolare alle donne nell’arte, lei forse unica eccezione del suo secolo .