martedì 13 luglio 2010

DYNASTY ( II ), Museo dell'arte moderna di Parigi e Palais de Tokyo




Mohamed Bourouissa

“Legendes” è il nome d’una marca di sigarette distribuite da venditori di contrabbando, perlopiù stranieri, all’uscita d’ una stazione metro nel quartiere Barbès a Parigi .
Bourouissa: "Il video non parla d’esilio ma di circolazione, movimento, tensione e scambio. Parla anche di violenza, della violenza latente al contesto metropolitano".
Lavoro di messa in scena filmica sulle banlieu, i bordi esterni, le zone ibride, miscuglio e innesto di multiple discendenze. I margini sociali sono quelli che toccano i limiti della legalità, la piccola delinquenza al quotidiano,
la banalità dell’ indigenza, del bisogno materiale,
la non-integrazione sociale; esuberi, escrescenze del modello capitalista occidentale.

Il video segue la progressione-regressione di precisi momenti di scivolamento, tensione, violenza trattenuta tra gli individui: scivolamenti latenti, come se si stesse mappando, in una cartografia a freddo, "senza dramma", un territorio mentale, una “geografia emotiva” fatta di scambi, tracciati, spostamenti, negoziazioni tra individui delle classi popolari urbane, rivelando il gioco di forze soggiacente tali rapporti.

Stazione metro Barbès, prime ore del mattino: i colori sono sfuocati, la luce é irreale, debole, fioca, contribuendo all’effetto allucinante del filmato girato da videocamere nascoste, incollate in modo aleatorio ai venditori di sigarette di contrabbando.
Vediamo: l’interno del metro, numerosi passaggi di sconosciuti;
la folla indeterminata, il milieu popolare della scena, l’atto della vendita.
Voci proponendo o rifiutando il commercio, dialoghi di anonimi senza volto, movimenti rapidi della videocamera sugli interni del metro.
Vediamo: cemento di superfici grezze al suolo o attraverso le pareti nude, l’acciaio delle scale mobili, le vetrate, una luce sempre più distante, sfuocata, irreale.
L’effetto allucinante,traslato rispetto alla realtà attraversa il video, come se uno spazio mentale s’aprisse nei dialoghi,
nelle battute rubate dalla camera mobile, negli scambi casuali tra i passanti:
geografia dello sradicamento, della dislocazione o dello spostamento semplicemente.
Flussi migratori d' individualità impersonali riprese nel sottotesto virtuale del tessuto metropolitano.

“Ho cercato di rovesciare il processo filmico, là dove il fondo deve produrre la forma e non viceversa. Quello che mi interessa è estrarre il meccanismo usato dalla video-sorveglianza,
dal grande occhio del potere e rivoltarlo per utilizzarlo con persone che vivono nell’illegalità. Camere nascoste, a un primo livello, significano sorveglianza, dispositivo ottico disciplinare , logica subliminale di controllo.
Anni fa non si sarebbe mai mostrata un video di scarsa qualità filmica, girato con mezzi di fortuna, una camera nascosta, l’aleatorio di un telefono cellulare.
E’ una presa di potere, chiaramente, filmare individui in questo modo, una presa di rischio anche, perché non controllo l’immagine ma costituisco un dispositivo filmico a partire dalle sue proposizioni”.
Se tale sistema di video-sorveglianza si assimila a un dispositivo panoptico che agisce dall’alto come un occhio totale, invisibile, generalizzato, modello strutturale d’una società disciplinare moderna, il lavoro video adotta questo stesso dispositivo ma implicitamente lo rovescia.
Si appoggia al potenziale di contro-discorsività dell’immagine ,
al suo potere di contro-investimento lasciato ad individualità impersonali emergenti attraverso il divenire minoritario, marginale del processo filmico.

“Neutralità ed empatia: non utilizzo l’immagine ma la lascio aperta negando il puro valore estetico o la ricerca del solo sensazionalismo. Mostro la realtà senza prendere posizione dando spazio a differenti meccanismi di potere o rapporti di forze tra gli individui.”








Melanie Delattre-Vogt

“Il rituale notturno di fare il giro completo del parco Butte Chaumont in cerca d’oggetti e incontri desueti”
Il rituale era iniziato quando non smettevo di tornare in modo compulsivo su uno stesso disegno” senza riuscire a concluderlo, senza saper avanzare, retrocedere nemmeno, arrestandomi,
ritornando ogni volta sui miei passi, allo stesso punto, senza sosta rifacendo lo stesso percorso là dove esso s’arrestava, si bloccava senza ragione e non trovava conclusione, ultima risoluzione.
Per liberarmi di una simile impasse decisi di uscire dall’atelier dando un inizio e una fine, uno spazio, un percorso completo a questo respiro a metà trattenuto, sospeso, e come serrato in gola senza potersi liberare. Nel corso di queste divagazioni notturne, ogni volta, ritrovavo persone già incontrare, sorprendevo volti anonimi e sfuggenti incrociati per caso, coppie amorose appoggiate contro le ringhiere nascondendosi o esibendosi, ubriachi, folli, mendicanti, perseguitati e persecutori senza distinzione. Tale abitudine era divenuta un rituale dando una dinamica nuova ai miei disegni, un respiro, ossigeno a un corpo esausto, allo stesso tempo, un modo di sfuggire al circolo vizioso dell’occlusione, della vana ripetizione, del mero formalismo.




Le fonti che compongono i disegni sono multiple: oggetti, immagini, libri, frammenti di conversazioni o altre scoperte fortuite. Più interessanti le origini, le fonti o quello verso cui possono condurre che i materiali stessi.
“Sento che bisogna tessere legami con il mondo per poter disegnare. La figura resta al centro della composizione, tuttavia questa è smantellata, letteralmente decostruita, fatta a pezzi.
I visi sono assenti o velati. Integro spesso forme astratte, minerali, vegetali, a figure strane o simboliche, parti del corpo o pigmenti colorati, cose che non avrei disegnato se non avessi incrociato sul mio cammino in modo fortuito”.
Questi oggetti gettati, abbandonati sui marciapiedi e destinati a essere rimossi o dispersi, appaiono come deformati, a metà decomposti dalle intemperie, dal passaggio delle auto o dei pedoni.
Usati, corrosi, decolorati, a volte respingenti,
ciò che come residuo, lascito, scoria cola ai margini delle strade, inquina e sporca l’atmosfera, l’animo degli individui che la assorbono, nell’aria consumata, opprimente, esausta della città.

Tutto uno spazio intimo s’apre allora ai bordi delle strade: letti, abiti, oggetti, abitudini del quotidiano, frammenti di vita, pezzetti di memoria celati dentro quelli, la promessa, forse, della loro definitiva liquidazione.
“ Porto con me qualche volta frammenti di questi ammassi anonimi andando ad arricchire l’ archivio potenziale dal quale attingere per nutrire i miei disegni. Disegnarli è un modo per ristabilire parte della loro integrità, per avvicinare, anche, il caso del loro incontro”.



Masahide Otani





La serie, “fênetres volets clos”, « finestre dagli scuri chiusi, serrati all’esterno, ma anche, foneticamente in un altro senso, “fenêtres volées”, persiane murate sulla parete esterna d'un edificio, date a ripetizione, rubate dal fondo d’una parete bianca,
archivio di memoria, deposito o accumulazione di dati senza distinzione.
Ritornano come emergenze, risorgenze da un bianco anonimo e senza contesto.
Riappaiono come dissecate da crepe dischiuse qua e là indifferentemente sulla superficie;
geroglifici sembrerebbe, su una stele in pietra inscritta in alfabeto runico di cui riconosciamo i simboli senza possedere le chiavi per interpretarli.
Una pergamena appesa, distesa, dandosi come sigillo, forma ermeticamente chiusa si espone presa nell'atto di guardarci rispetto a quello che d'essa vediamo. “Gli spettatori sono letteralmente lasciati fuori”, fuori da quello che è questa serie di finestre murate e, allo stesso tempo, “esse restano inaccessibili perché letteralmente condannate”. Impossibile aprirle dall’interno, passare attraverso con lo sguardo dall’esterno.
“L’interno che gli scuri ci suggeriscono resta impenetrabile”. Quello a cui abbiamo accesso è la traiettoria d’uno sguardo, il percorso di tale sguardo tentando di aprirsi una strada, rimbalzando a ripetizione da una forma all’altra, circumnavigando a vista sculture ermeticamente serrate all’esterno.
Lo sguardo si ripercuote letteralmente sbattendo contro un muro di suono , suono ripetuto, rinvia l’eco della propria voce, poi lo sguardo dell’altro, illeggibile, raggiungendoci attraverso le lame d’una finestra murata dentro.

“Penso al momento in cui si arriva alla fine d'una ripresa cinematografica; la scena si decostruisce, la scenografia si svuota , viene smantellata pezzo a pezzo;
la cornice crolla, i supporti mobili, la messa in scena dei materiali e degli oggetti sono rinviati al loro luogo di provenienza. Porto in me la ricerca di tale momento di silenzio delle cose, come cogliendole al margine della loro sparizione, a un passo della loro rovina”.

“La citazione: una forma di ripetizione, un modo di tacere eclissandosi sotto una voce, più voci che convoco prendendo in prestito da altri, locatari della mia storia”. Nel processo di ripetizione gli oggetti perdono alcune qualità intrinseche, si svuotano di senso, diventano simulacri vuoti di loro stessi ma, allo stesso tempo, ne guadagnano altre come l’imperfezione, l’esubero,
la materia aggiunta di quello che sfugge al nostro controllo.
Fabbrico a mano, tenendo insieme fedelmente “copia-incolla” d’oggetti trovati.

giovedì 8 luglio 2010

DYNASTY ( I), museo dell' arte moderna e Palais de Tokyo, esposizione, Parigi



































Stephanie Cherpin




Le « vestige” sono residui, lasciti, oggetti non funzionali o senza utilità: rifiuti, pezzi di ferro, di stagno o di plastica, tubature re-incollate insieme con scotch.
Sono forme contorte, strane o allungate ,
pezzi recuperati da cantieri navali o metallurgici, per lo più andando a scavare nel deposito degli oggetti trovati, tra i relitti o i materiali allo stato grezzo.
Vengono qui ricomposti,
assemblati in costruzioni sculturali dalle proporzioni ampie, monumentali, smisurate,
tali le creature strane, le forme primitive, e selvagge che popolano l'immaginario di Cherpin.

Labirinto-ringhiera tentacolare dalle forme aguzze, tagliate e ricombinate insieme in un assemblaggio plastico, simbolico, impersonale investito di un valore totemico.
Il percorso sculturale è fatto di punte acuminate, di sporgenze aguzze che si interrompono a tratti in punti casuali, indeterminati nel vuoto.
I cammini restano spezzati o interrotti, le parti in ferro re-incollate insieme a forza con nastro adesivo, gli assemblaggi incongrui e ricoperti di vernice nera.
Le forme aggressive o innocue, piene o vuote, sono tagliate e ricombinate con altri elementi secondo un principio puramente formale.

Iniziatico, esoterico o occulto, il percorso é costellato di simboli incomprensibili,
di passaggi rituali, di cammini sbarrati fuori o perduti nel vuoto,
di campi minati e deviazioni di linee,
di parti interrotte e re-incollate insieme. E' evocato attraverso la polarità fredda del ferro,
ricoperta d’uno spesso strato di vernice scura.
Tale metafora visiva, d’una semplicità immediata, si dà come una macchina da guerra,
un percorso accidentato, accidentale, implicitamente investito di senso che rompe o lacera lo spazio bianco, neutrale, indeterminato dello sfondo.





Bertrand Dezoteux

L’immagine video, generata direttamente dal mezzo elettronico, oltrepassa l'impronta dell’immagine “analogica” di paesaggi e individui, per scivolare verso pure vibrazioni luminose, lunghezze d’onde elettroniche non più identificabili a semplici forme naturali. L’immagine subisce la metamorfosi del video, video che “genera una propria materia” nell’espressione di Jacques Rancière come se “ la forma troppo pura” o “l’avvenimento troppo carico di realtà” fossero “ messi fuori da loro stessi” sostituendo una logica di metamorfizzazione infinita all’incatenamento narrativo della tradizionale organizzazione filmica .

"Biarritz". L' immagine liquida, non fissata da una forma o struttura, è decomposta in sei schermi a ripetizione, simultanei e giustapposti. L’ immagine “metamorfica” slegata, autonoma, fatta di pure vibrazioni luminose si assimila naturalmente all’elemento acquatico, a tutto ciò che è dell’ordine dello scorrimento, del flusso, della fluttuazione, dell’onda fisica o elettronica, liquida o magnetica dominante al centro del video.
“I nostri antenati erano anfibi che vivevano in mare e sulla terra. L’idea del progetto era di ritornare all’acqua e vedere se era possibile tornarci in video”. Con "Biarritz" rifletto sulla dimensione plastica del lavoro, tento di portare più lontano il dispositivo filmico usando non un operatore vero ma uno automatico”.
Lo sguardo è fluttuante, attento alla superficie, alle tessiture della materia, della luce.
Immagini-corpo in primo piano al ralenti si alternano alla decomposizione di queste per l’effetto mobile del filtro ravvicinato della telecamera: rombi, forme trapezoidali, losanghe o spirali estratte da decorazioni casuali di tessuti,
dilatati dalla cornice insignificante d’oggetti quotidiani dissolvono a poco a poco la nozione di figurazione in forme impersonali, geometriche, poi in pure ondulazioni acquatiche che prendono il sopravvento e letteralmente ingoiando la figuratività dell’immagine.

Il video una vera e propria forma di divenire.
“Divenire è uno stato importante per ciò che appare, la metamorfosi di quello che avviene nella prospettiva della materia”. Allo stesso modo l’immagine in movimento, filmica o elettronica, porta in sé lo spirito di quello che diviene, l’avvenimento implicito del passaggio di uno sguardo. Divenire secondo Deleuze non è mai “ imitare, fare come, conformarsi a un modello” ; non c’è un termine dal quale si parte e uno nel quale si diviene. Non è fenomeno di imitazione o assimilazione ma di “doppia cattura” o “evoluzione non parallela”. “Divenire è il contenuto proprio al desiderio”, essere umani, desiderare è passare per una serie di divenire; non una generalità ma una realtà della consistenza stessa, “dello scorrimento universale del mondo”.
Divenire è “ogni forma di de-terittorializzazione” che rompe con le “serie chiuse” del modello identitario dominante come “divenire-intenso”, captare variazioni di intensità,
“divenire-molecolare”, captare la molteplicità dell’esistente, “divenire-impercettibile” o minoritario, captare zone di non-evidenza del mondo.


Bettina Samson « Fotografia dello spettro solare alterato dal tempo sotto la forma sognata di carota » Nucrear dust I e II





La proiezione dello spettro solare è impresso su un dispositivo a forma cilindrica in controluce contro le vetrate: fasce colorate a distanza, contorni sinuosi d'alberi fuori.
Espanse, le fasce colorate si riflettono in una policromia di colori freddi. Il colore-materia si impone in degradazione cromatica sfumata nell'assenza più totale di luminosità:
la notte di un blu indaco, malinconico, profondamente riflessivo;
colore dalle risonanze saturnie, dal ripiegamento solitario, nostalgico sul sé,
tale la superficie riflettente del vetro dipinto in bande bluastre, violacee, smeraldo o bordeaux.
Simile a uno schermo o lente distorcente attraverso la quale il mondo fuori é filtrato, deformato e implicitamente destituito.
Due fotografie di galassie, Nuclear dust I e II sono giustapposte sui muri della galleria.
E' l'oscurità più totale dell'universo fotografato fuori dal sistema solare, tempestato di punti, astri, o nebulose brillanti forse, ma spente, diffuse di luce riflessa, percepite attraverso il filtro distanziante nell'eterna notte delle galassie.

Polvere nucleare dunque, la scoperta della radioattività come titola l'opera,
radio-attività, esplorazione scientifica dell'invisibile:
esplosione di materia attiva nell'universo.
Fotografia e densità d'energia nucleare, potenzialmente distruttiva.

Materia in ebollizione:
forza centrifuga, lavica, eruttiva defluendo da un centro verso l'esterno nella formazione del sistema solare.

(Radioattività: « fenomeno fisico nel corso del quale nodi atomici instabili si disintegrano per liberare energia sotto forma di radiazioni. Rocce terrestri di isotopo e uranio ma anche elementi instabili prodotte in seguito alla disintegrazione degli isotopi menzionati.
Universo opaco-trasparente: galassie ospitando miliardi di corpuscoli densi,
agglomerati d’astri e di meteore,
coaguli e nuvole di materia espansa, liquida o gassosa.)



Camille Henrot

« Nella mia visione del mondo è l'ossessione di cercare l'origine delle cose, l'intuizione metafisica che procederebbe la diversità, la divisione della specie”.
Un oggetto che possa esprimere attraverso la sua forma bipartita l'idea d'unità originaria, un oggetto che possa precedere questa divisione in due, momento che associamo nella storia umana alla nascita dei conflitti, delle rivalità, delle guerre, alla divisione del territorio.
L'idea di « simbolon », dal greco simbolo, significa mettere insieme, ricongiungere, ricomporre, nell’usanza greca una tessera in terracotta spezzata tra due individui o famiglie a conclusione di un patto, il combaciare delle due parti provando l’esistenza di tale accordo.
« Simbolo » diventa qui i due pezzi d'un oggetto rotto e ricomposto in modo maldestro: riunione incongrua, realizzata a partire da frammenti che non si corrispondono più o solo parzialmente lasciando intravvedere fessure, iati o zone d'ombra.
L'opera in sospeso, stando su stampelle mobili, esprime il senso di un equilibrio precario e, insieme, la vulnerabilità della materia umana soggetta a tali amputazioni; meno l'affondamento che la ricostruzione eclettica, eterogenea tra diversi regimi, animalità e umano fissati insieme rinviando alla connessione indissociabile che lega l'uomo al proprio fondo primitivo di coscienza.

« Gli oggetti umani sono precari ma allo stesso tempo esistono, resistono. Un pezzo di granito esprime forse la solidità ma non la resistenza ». L'oggetto fragile incarna, al contrario, la forza paradossale della propria esistenza-resistenza come quello che permane nel processo di trasformazione , la metamorfosi celata al bordo dell’abisso,
al cuore d'una debolezza forse infinita,
l'aggiustamento sottile della cosa al proprio divenire prendendo il posto d’una rivoluzione aperta e incendiaria.






« La violenza che scorre da gesti ed emozioni deve servire da forza di resistenza della scultura e contro la scultura”.
Lavoro penoso, difficile, corrosivo, al limite impossibile:
l'impossibilità presa di contropiede, contro sé stessa.
La possibilità a cui si pensa e che non si raggiungerà mai,

come dovendosi sbarazzare di qualcosa che pesa su di voi conducendovi attraverso un percorso impervio, accidentato, o a momenti di rara intensità.

« La musica: strumento indispensabile per far salire un'energia particolare, miscuglio di malinconia e forza guerriera, orientando i gesti, dando la parola al silenzio dell’azione.
La scultura: una forma di lotta, un impegno politico senza partito né militantismo, perso in anticipo ma che si deve continuare a condurre. »

Raphaelle Ricol

Sono figure umane il cui viso diviene una proliferazione di materia primitiva, incollata sulla tela direttamente.
Sono esseri umani le cui teste esplodono in forme atomiche, in nuvole di materia nebulosa, in esseri acefali dove la centralità dell' intelletto scompare.

“ Sole nero”: grumi di materia porosa, ocra, giallastra o grigia, coagulano sulla superficie della tela. Un nucleo solare cerchiato di nero é fatto esplodere in una serie di radiazioni, di rigature dense e ocra a raggiera.
I raggi esplodono come proiezioni della mente, « onde di choc »,
animate da visioni contrastanti passando attraverso il filtro dilatante o contraente della percezione .
Esplosività e contrazione dello spazio intimo in presa diretta sulla materia.
Energia vitale: "l'impulsione del gesto, del segno che precede l'idea, l'intenzionalità dell'atto".
Stato d'urgenza: "esperienza immersiva, immediata, non riflessa della mia realtà interiore".
« Entrare in risonanza, liberare una vibrazione interiore che persiste e si prolunga come l’emissione di un suono che dura », passa, arriva, percuote e resta. “Da un quadro a un altro si puo' sentire una sorta di permanenza anche se le due tele sono dipinte in momenti differenti. L’energia passa da un'opera a un'altra come una traccia che persiste, iscritta nella memoria. La risonanza é anche quella che si percuote nello spirito dell'altro e vi fa eco.
Dipingendo si puo' sperare che significato e significante andranno a unirsi, a fondersi insieme provocando un'onda di choc, entrando in risonanza , imprimendosi nella memoria di qualcuno.” La risonanza vuole essere tripla: quella che passa da un quadro a un altro, quella che unisce due luoghi differenti divenuti cassa di risonanza, quella che incontra lo spirito dell'altro.
Cosi' scrittura e pittura si inscrivono in una riverberazione doppia e prolungata.