sabato 24 marzo 2012

"Superfici Sensibili", (liberamente suggerito dalla fotografia di Sabrina Biancuzzi, Voz galerie, Parigi)


  “Le forme si cancellano e non resta che un sogno, un abbozzo lento ad apparire su una tela dimenticata che troverà compimento, conclusione solo grazie al lavoro del ricordo”.(C. Baudelaire) 


















 “Débordement”: derivare, versarsi, espandersi oltre i propri confini, liquefare;
quello che supera le forme, nell'impossibilità di dire altrimenti, nella necessità di sfiorare, avvicinare l'ineluttabile della cosa. La materia rifluisce, naufraga, é fatta deviare, sottratta ad ogni effetto di realtà della quale porta in sé, tuttavia, la prima impronta.                         

  La materia rifluisce da ogni alchemica distruzione, l'alone che porta in sé, che proietta intorno , l'aurea che la costituisce e la irradia, se pure oscurata, obliterata dalla polluzione circostante, insorge, risorge, fa sorgere altre sovra-esistenze, superfici sensibili di re-iscrizione che si riallacciano a immagini fluttuanti  di un fuori realtà, fuori-coscienza . 

Come scorrimenti d'acqua o l' invisibile rifluire del respiro attraverso il corpo, le forme nella fotografia di Sabrina Biancuzzi tendono a cedere lentamente i propri confini, si lasciano sedurre, riassorbire, appena impercettibilmente lasciano andare i loro contorni chiusi, i loro perimetri distintivi in tratti aperti che circolano, aprono, ritrovano l'alone luminoso, l'estensione primaria, aureolare del loro prima senza-forma.


“L’ 'informe non smette di produrre le proprie metamorfosi, i propri ammassi visivi salendo e discendendo come un'onda, lanciandosi e ricadendo, assottigliandosi e moltiplicandosi come animati da questo lavoro paradossale che è la de-composizione, il suo mormorio continuo, la sua esuberanza, il suo movimento ritmico. Da un lato le forme si cancellano, dall’altro riappaiono come qualcosa nell’atto di nascere, un abbozzo lento a venire sulla tela di qualche pittore attento alle malattie del visibile.” [2]


Un abbozzo lento a venire come questo corpo femminile a metà riapparendo in contro-luce sulle coltri d'un letto. Da un lato è un dileguare, dis-fare il contorno, la forma, il finito-definito fino a renderlo irriconoscibile, fino a farlo tornare al fondo irradiante del suo campo visuale primo; dall'altro è reiscrivere tale deriva come superficie sensibile. “Survivances [3]” é ciò che messo a morte, disfatto, spinto indietro come figura o realtà non smette di ritornare, proliferare, rifluire vestendosi d'un nuovo alone di visibilità, a volte di incandescenza, dandosi in un nuovo ordine del visibile. Volto, dunque, é diluizione, la figura alone luminoso, dettaglio di un qui-basso divenuto tonalità, totalità di un inconoscibile “là fuori” . 

La superficie-immagine é tessuto, nuova estensione manifestandosi nell’ordine dell’informe.                          De-forma: compulsione al movimento dei tratti dell'immagine, ad aprire in circolarità contro contorni che chiudono, isolano, separano nella metafora del tessuto morbido, fluttuante come seta per eccellenza. Metamorfosi fotografiche nascono da tali tessiture incoscienti, . L'eterno presente del loro darsi él'istante che sopravvive al fondo della loro memoria storica.























Serie “She”


Piccoli frammenti estratti, rubati all’anticamera dell’inconscio, singoli respiri o istanti colti, rinchiusi come farfalle in scatole di plexiglass  sono restituiti nella serialità d’una compulsione a ripetere  del meccanismo psichico, 

in tale  necessità di aggiungere, rifare, serializzare, continuare fino a liberare nel processo fotografico associazioni aleatorie di immagini, corrispondenze visive, momenti fugaci sconfinando oltre la percezione ordinaria.  Sogno, incubo, ricordo, surreale, immaginario, fluttuante oltre i limiti di coscienza o realtà.

Esclusivamente in bianco e nero,
nel sogno, nel sonno, figure o dettagli di corpi femminili, nudi in tagli laterali, paesaggi in uno spazio-tempo immobile. Vediamo neve, alberi, un selciato di fogliame scintillante sotto la pioggia, distese bianche aprendosi  a raggiera, a ventaglio, a estensione immobile verso una terza dimensione, fuori da ogni temporalità storica.
Associazioni totalmente arbitrarie del pensiero si traducono in strutture oggettive di corrispondenze, in immagini poetiche , scritte o fotografate, poste in un fuori tempo immobile rinviando a forme archetipiche universali, innate, all’umano.


“Catture di  Sogni”

Rinviano alla stessa captazione/ creazione d’un mondo di sogno, d’apparizioni di invisibilità, d’immagini che flirtano, fluttuano si affacciano, fugaci nell’anticamera dell’inconscio. Ricorrente la sfocatura intenzionale in bianco e nero, l’immagine é un piccolo quadro incorniciato su fondo  bianco;  tante piccole finestre, inquadrature, quadri s’animano, s'aprono cosi' sulla parete bianca e liscia di realtà. Le incursioni o discese nel mondo sotterraneo, retro-stante si danno, giustamente, come apparizioni-catture di qualcosa dell’ordine del “sottile”, del fugace o ineffabile, apparizione d’un archi-memoria passando da un reale soggettivo, personale a un atemporale, 
inventato, pre-figurato, post-scritto, posto come visibile.

Scrive Georges Didi-Hubermann : “Bisogna aprire gli occhi, dunque, su tutto quello che accade ma, anche, saper chiudere gli occhi per lasciar venire a sé tutta un’insieme di relazioni, condensazioni, spostamenti, genealogia inosservabile ad occhio nudo. [1]” Aprire gli occhi, dunque, per rendersi attenti, per analizzare, osservare, comprendere l’oggetto del nostro sguardo ma, anche, saperli chiudere per meglio sentire quello che aleggia intorno ad esso, quello che emana come un alone luminoso nel gioco di reminiscenze. Chiudere gli occhi per lasciar venire a sé agglomerati di nebulose indistinte, configurazioni moventi d’immagini viste in serialità, nella voluta diluizione dall’una all’altra, nelle metamorfosi intime, segrete che instaurano rispetto all’oggetto di realtà dal quale derivano, nelle libere associazioni che evocano . Agglomerati o costellazioni fantomatiche, affare di diluizioni, metamorfosi, di tessuti che si dispiegano, di dissimulazione della figura per far comparire la sua prefigurazione archetipica come un’immagine del sogno o dell’inconscio.

Pulsione al movimento dei tratti, al dileguare d’un contorno che chiude, delimita, isola per andare verso la discesa nel mondo del senza-forma.Pulsione all’irradiazione luminosa, all’accecamento nel bagliore d’un istante immobile, giustamente l’istante fotografico che sopravvive al passaggio del tempo storico.

Nella serie “Catture di sogni” di seguito: il tempo che scorre, una pendola appesa in aria, sospesa nell’atmosfera, bambole guardandoci dalla loro sinistra oscurità, apparizioni o de-focalizzazioni di pura luce. Uno sguardo, un volto, sedie su una banchina di stazione sospesa nel vuoto, una panchina solitaria in mezzo a un parco, tazze di tè lasciate al varco di luce che le trattiene,  l’istante effimero della cosa contro il passaggio seriale della fotografia, derealizzazioni di  presenza, un abito estasiato senza corpo, dettaglio di grate, porte chiuse, aperture, passaggi, presagi. E ancora, sono  spazi disabitati riemergenti nella plasticità d’una metamorfosi luminosa, escrescenze di piante e arbusti, bouquet di fiori caduti su una strada deserta.






































 “Dernières songes”

Orditure tese, soffocanti d’arbusti contro tessuti molli di filamenti d’erba,
proliferazioni barocche in  intrecci, in grovigli di rami e nugoli di fiori contro griglie cubiste d'astrazione di realtà.

Pieghe, angoli, spigoli, ripiegamento di tele-maschere

Resistenze, sovra-esistenze sensibili come infiniti modi di dis-fare i contorni della figurazione
volendo far intravvedere attraverso la fotografia “una realtà altra”.


 Un corpo esposto, denudato trasmette il potere di irradiazione della propria pelle,
un viso preso nella lacerazione d’una linea del suo contorno , preso nella dissimulazione del suo tessuto riemerge nel potenziale d’una figurazione impura, a metà cancellata, solo resa possibile nella de -realizzazione di sé.   

“L’istante P”

Serie a colori: qui  sono i fiori, calici di iris, iridescenza, esplosione in primo piano di forme floreali ondulate o coniche sovra-esposte alla luce solarenell’accecamento della sovra esposizione luminosa.
Dettagli di bosco, alberi, erranza, vagare, fuga tra le tessiture boschive, infine pure macchie colorate di fiori trasfusi senza più forma.
Steli blu incenso o argento liquido, fondo rosso incandescente, violaceo o puro bianco.
Sovra-esporre, sovrapporre, mettere un’immagine al contrario, ingrandire un dettaglio, cercare degli effetti di pura materia o puro colore.

“Le Crissement du temps” 

L’increspatura del tempo, reso all’atemporalità fotografica, affascinante perché ti fa piombare in questo mondo di apparizioni sotterranee, di lampi istantanei, bagliore,
divino accecamento dell’istante che ti salva, oppure ti fa sprofondare nel varco senza fondo.
Ti illumina, ti trasforma, porta oltre te stesso, ti fa ascendere , toccare l’istante dell’essere, o ripiombare, caduta nel nero, neri tracciati di nero fumo, e trasmigrazione di visi e corpi.

Impronte di luce, negativo-positivo, fili tesi, un cuscino all’angolo d’un letto, un uomo camminando su una strada umida di pioggia, boccioli, fiori dall’alto d’un ramo ,
un numero su una porta, il tempo che passa, il battito delle ore, il pendulo d’un orologio, una casa persa tra gli alberi, una finestra illuminata, papaveri sullo sfondo d’un quadro incorniciato, un pozzo coperto all’angolo d’un giardino, la cripta d’una chiesa, una maschera, un clown dai tratti malinconici, il volto d’un uomo in meditazione, la stanchezza della fine, riflessi delle cose intatti nella densità immobile delle acque.

Cimitero d’alberi e rami incrociati, foglie secche, a terra cadute, una fonte e guizzi d’acqua intorno. Foglie secche ancora, e occhi chiusi, ombre d’uomini discendono scalinate nell’oscurità, una silhouette ricoperta di nero, barriere che tagliano in linea orizzontale, fiori di campo, sterpaglie, rami d’alberi in reticolo selvaggio.

Sono specchi liquefatti, una cascata di foglie intrecciate su un selciato umido di pioggia,
un volto di tenebre a poco a poco disparendo riassorbito dalla potenza della luce irradiante. 






 [1] Charles Baudelaire, Les Fleurs du mal, cité dans George Didi-Huberman, Ninfa Moderna, Gallimard, 2002, p. 100
[2] George Didi-Huberman, Ninfa Moderna, Gallimard, 2002, p. 100

[3] Ibid., Didi-Huberman, p.106
[4] Idib., Didi-Huberman, p. 127

giovedì 8 marzo 2012

Paesaggi provvisori, interazioni, fotografia e altro (intorno a Ai Weiwei, "Entrelacs", Jeu de Paume, Parigi)



Provisional Landscapes (2002-2008)

“Esiste una continuità nell’architettura occidentale dal rinascimento ai nostri giorni. In Cina tale continuità é stata spezzata dalla rivoluzione. Da allora odiamo il passato, non ha ai nostri occhi alcun valore. Allora lo distruggiamo. Ed é così che ci ritroviamo con questi edifici senza anima, senza gioia né vita che massacrano la terra e il territorio circostante”.  



















Terre di interi villaggi, considerate proprietà dello stato in Cina, vengono sottoposte a sistematiche operazioni di smantellamento, vecchie case tradizionali, gli hutong, interi nuclei rurali sono rasi al suolo nel corso d’una notte nel processo di riconfigurazione dello spazio architetturale, della sua dislocazione in linea discontinua aderendo a vasti progetti edilizi a basso costo.
La velocità di ricostruzione, quanto l’altrettanto rapido atto d'azzeramento, tabula rasa, messa a capo dell’eredità precedente riconfigurano il territorio in gerarchie spaziali, in reticoli e sistemi visivi mai neutrali anche quando si presentano negli stadi mediani di terre a raso, di cantieri industriali o cumuli di macerie. Eppure, la riconversione del territorio, tanto rapida negli ultimi decenni, quasi rincorrendo freneticamente il ritmo del cambiamento, sembra lasciare nelle fotografie di Weiwei delle parentesi di vacuità, questi campi lunghi ricorrenti in primo piano di terreni aridi, brulli, di intere estensioni rase al suolo e corsi d’acqua in fuga prospettica verso il fondo. I primi piani resi alla denudazione di forme e segni pre-esistenti e i nuovi edifici sullo sfondo come altra dimensione architetturale, altra configurazione  d'un modello estraneo che si affaccia, senza reale continuità al precedente, sul retro delle immagini.
Nella giustapposizione che occupa una parete immensa della galleria sono insieme queste visioni di case e villaggi secolari spazzati via dalle esigenze di un capitalismo ascendente, poi lo spazio del provvisorio, della transizione, l’indefinito d’una trasmutazione riempita di macerie e sassi, di detriti in eruzione-irruzione; tale la materia di pietra o terra in fase di sommovimento, nel riavvolgimento apparente su sé stessa.  Accanto alle macchine, alle scavatrici, e ai cantieri aperti nella caoticità ingovernabile dei lavori in corso, appaiono,  queste terre o superfici messe a zero, rase, rese a terreni incolti, a pozze d’acqua, alla denudazione d’una non-memoria o solo forse al fascino d’un transitorio, d’un provvisorio voluto, inevitabile o volutamente assunto che vi si insinua.



Ai Weiwei:  “Nel mondo d’oggi fotografare é come respirare, finisce per fare parte di sé come disegnare o prendere note.” Diviene gesto quotidiano, sociale, di relazione e inter-azione necessariamente allontanandosi dalla ricerca d'un valore estetico primo, affidato alla provvisorietà di cellulari o macchinette digitali, lasciato allo scatto rapido, senza importanza, di immagini che portano in sé gli umori del quotidiano,  momenti condivisi, il linguaggio dell’ordinario e l’automatismo d’un gesto che, portato in rete crea tessuti di connettività, di condivisione e scambio più che la ricerca d’una esclusività dell’immagine.
“Mezzo é metodo, portatore di senso, grido di speranza ma spesso, anche, fossato disperatamente inattraversabile, mezzo ingannevole e pericoloso. Non può né registrare né esprimere una verità”, l’autenticità della cosa rappresentata ma produrre forme di realtà potenziali, visioni possibili d'essa passando per la “messa in spazio” o meglio “in gioco” d’oggetti materiali nel senso del creare, dare una visione di realtà partendo dal loro potenziale.
E’ piuttosto “un processo per raggiungere una comprensione e il mezzo di esprimere tale comprensione” secondo Weiwei;  una ricerca di conoscenza, la necessità di rendere leggibile o di decriptare una realtà dandosi come groviglio, ammasso caotico di informazioni, falsificazioni e travestimenti dei discorsi ufficiali,  o ancora, i silenzi carichi di ambiguità delle autorità che detengono il controllo dei media in Cina.
Si tratta giustamente di mettere a disagio, mettere sottosopra là dove la superficie appare troppo liscia, uniforme, levigata, coperta di intonaco bianco, dove la verità ufficiale stride sotto il peso d’una tacita censura, nella mancanza d’una coscienza collettiva, d’una aperta presa di posizione critica da parte di molti artisti nella limitazione dei diritti individuali, la parola in primo luogo.
 Fotografare, dunque, è tentativo di comprendere, posizionarsi, di porre uno sguardo mentale, analitico, altro rispetto a quello apparente, tentativo erroneo forse, parziale, certamente soggettivo di posizionarsi rispetto a quello che travolge,  circonda,  investe, e non può fare a meno di incombere, intralciare il percorso di un’esistenza.
 
In questo senso il lavoro artistico di Weiwei, dalla scrittura alla fotografia, dalla blogsfera all’attivismo politico, dagli interventi architetturali a quelli attraverso l’immagine video si situa in questa  mobilità provvisoria, nella transizione rapida  da una forma e l’altra tanto da impedire il suo irrigidirsi o essere neutralizzato dalla censura, tanto da far perdere tracce di sé trasmutandosi nello spazio virtuale, nel passaggio in una rete globale presa al suo potenziale democratico e libertario. 
 Fotografare diviene, nel lavoro di Weiwei, atto chiarificatore, ordinante, in grado di restituire una certa trasparenza o meglio visibilità, leggibilità a un sistema occluso e totalitario; si vuole presa di posizione critica, individuale e sovversiva, non sottomessa all’imposizione d’uno stato-regime  e, insieme, slancio creativo verso una transizione democratica del paese.

Seven frames,  1994 (sette inquadrature):  l’ambizione del potere impersonale, cieco, senza volto d’uno stato autoritario appare nell’immagine delle sue gerarchie anonime di militari e funzionari.
Prima inquadratura: sono scarpe lucidate e gambe dei pantaloni neri d’una divisa,  mani anonime. Nella serie, di seguito, sono pantaloni, mani e uniforme senza volto, cintura e bottoni dorati.
Nell’ultima inquadratura è il volto anonimo, depersonalizzato, in acciaio ricomposto, incorniciato da un berretto di divisa militare d’uno stato che si incarna in una maschera plumbea, pesante, inossidabile, sulla quale lo sguardo inciampa, rimbalza e torna indietro, violentemente, senza possibilità di passare attraverso.  

Dropping a Han dinasty urn, 1995  (Lasciando cadere l’urna della dinastia Han)
Un gesto ironico e performativo, nella stessa sala, sorge in eco e risposta all’imposizione dell'uniforme militare  rigorosamente  smantellata dalla scomposizione precedente.
La serie fotografica é ugualmente arrestata qui in tre fotogrammi d’un gesto decisivo, rapido, irreversibile, gettato con la leggerezza d’una distrazione, d’un atto casuale che manda in frantumi un reperto archeologico  illustre, carico di valore aggiunto, greve quanto il peso della tradizione imperiale, quanto il lasso di tempo d’una storia millenaria incombente sul suo capo. 
Atto primo: sospendere il vaso antico, gravido del peso d’una storia e d’una cultura  secolare tra le mani,  reggerlo in aria,  fermarsi, attendere.
Atto secondo: con la più grande noncuranza, forse con tacito piacere o ironico distacco   lasciarlo volutamente, semplicemente cadere al suolo, precipitare portato dal peso della sua forza gravitaria verso il basso, buttato come si butta una zavorra a mare, un carico insostenibile che altrimenti farebbe affondare il bastimento.
Terzo atto: frantumi di cocci, ora inutili, senza più valore sono ai suoi piedi sparsi sul pavimento, irriconoscibili, dilapidando in pochi istanti il legame, il simbolo che l'oggetto   costituiva con quel passato scomodo, discontinuo eppure ancora troppo presente.



  

“La complessità d’una visione fratturata domina l’ambito politico e culturale della Cina d’oggi. Molteplicità e confusione, cambiamento e disordine, dubbio e distruttività, la perdita del sé, il vuoto che ne consegue, la disperazione e la libertà che si raggiunge, il superamento della colpa e il piacere che l’accompagna”.


Fairytales Portraits”, 2007

Milleuno cinesi venuti da tutte le classi sociali, da tutti gli angoli del paese, aiutati a ottenere un visto per rendersi a Kasseln dando vita a questo mosaico composito, installazione vivente e multiforme, a questo montaggio, collage, paesaggio seriale di figure riprese in piedi di fronte all’obbiettivo, singolarmente sullo sfondo dell’ambasciata tedesca. La demoltiplicazione  si dà come variante dello stesso, parla del  dilemma tra identificazione prototipica in un modello collettivo e liberazione di individualità incontestabili nel rapporto tra autenticità, ricerca di sé  e adesione ideologica a un gruppo nel  quale essere assunti, fisicamente assorbiti, ideologicamente assimilati.
 Forme prototipiche, simulacri, francobolli a ripetizione con variante su carta postale sono impressi a vivo dai dettagli d’ogni figura ; stessa posa in tensione di fronte all’obbiettivo per visi diversissimi, sullo sfondo d'un palazzo di vetro riflesso, miraggio dell’occidente; lì s'annida il sogno del  benessere, d’una ricchezza materiale immanente, d’ un solo colpo raggiunta. 
 La contraddizione si situa in questa ricerca di individualizzazione nei colori, negli abiti, nei volti e , al contrario, il ritorno a una posa comune, intagliata nel piano fisso di forme sagomate, figurine seriali tagliate e incollate su un medesimo sfondo. Il colore è indice di diversità, di differenziazione nella definizione dell’abito, d’uno stile come auto-visibilità, libera espressione del sé, d’una ricchezza individuale anche attraverso la mescolanza di generi e mode contro l’impronta d’un posizionamento, d’un messa in posa, d’ una postura o auto-imposta che si ripete  identica per quasi tutti. 
Al centro della sala, in contrasto, una video-intervista racconta l’evento intollerabile d’un licenziamento, d’una persecuzione agita, perpetuata contro l’artista in risposta alle sue prese di posizione critiche contro lo stato cinese attraverso il suo lavoro. In contrasto alla censura e alla persecuzione raccontata nell’intervista, alla realtà grigia, dominata d’un senso d’oppressione e d’ineluttabilità nel video, emerge sullo sfondo un’utopia democratica riempita di colori, d’auto-espressione, di partecipazione del singolo come condivisione di diversità, di tonalità colorate in un progetto-installazione collettivo.
 Si vuole, infine, la ricomposizione d’una realtà nata dalla somma di molteplicità auto-figurate, di corpi e volti auto-soggettivandosi.




“La creatività è il potere di rigettare il passato, di cambiare lo stato di cose, di cercare nuove potenzialità. Al di là dell’uso della propria immaginazione è il potere di agire, l’azione che volge l’aspettativa, la necessità o la domanda di cambiamento in una realtà.” 
“Viviamo in un’epoca che avvelena la creatività a morte, allontana la politica da comuni ideali d’una società umana e da valori universali. Un paese che rifiuta la libertà, rifiuta il cambiamento e manca di spirito critico è senza speranza. Libertà d’espressione, uno dei diritti fondamentali dell’esistenza, libertà di esprimere e comprendere, pietre fondanti della nostra civiltà. La modernità non può esistere senza tale liberta”.

“Study of perspective” 1995-2010

Sulla piazza di Tienanmen a Pechino nel 1995 la prospettiva adottata è quella dell’artista sul diritto all’autonomia e alla libertà d’espressione di fronte a uno stato post-totalitario, a una certa violenza politica o militare tacitamente agita.
Il fotomontaggio del medesimo gesto all’onore, gesto di un ironico “fuck off” titola anche un’esposizione di Weiwei aperta a Shangai nel 2000, mano e braccio in primo piano sullo sfondo di monumenti iconici o simbolici della storia o della cultura occidentale : la Casa Bianca, Buckingham, Palace, la torre Eiffel,Roma, Londra, Venezia, Pechino.
Palazzi del governo e delle istituzioni, facciate, travestimenti ufficiali di potere, pareti di intonaco bianco per coprire le manipolazioni ideologiche ad esse connesse, la corruzione di diritti fondamentali che vi si celano dietro. 
E ancora facciate come “luoghi ufficiali della cultura”, forme volutamente estetiche, discorsi etichettati come tali, fossilizzazioni entro stili o codici di norme usurate dall’uso. La prospettiva scelta è quella dell’individuo o del singolo, dell’artista in una postura critica, vigilante, non-ceduta al potere, a un’istituzione che uccide il suo diritto ad essere, a prendere posizione, a prendere parte, aprendo a un ideale democratico e egalitario.  




“Le cose che crei con i loro limiti fanno parte del tuo stato d’esistenza. Cercare di eliminare o guardare al di là di quei limiti attraverso diverse alterazioni è un’altra via d’espressione. La vita è più esuberante, più colma di significato che qualunque stile immaginabile”.

Internet, Twitter, le reti sociali sul net, la scrittura d’un blog fino al 2009 poi la sua soppressione causata dalla censura cinese per i suoi contenuti “”politicamente sensibili”, le foto numeriche sopravvissute da quell’archivio. I canali e flussi di comunicazione aperti in rete,  le nuove forme d’espressione ad essa connesse si rivelano per Weiwei un potenziale inimmaginabile, una via d’accesso a una comunicazione libera, a uno scambio democratico di idee, a una partecipazione collettiva e egalitaria, linea di fuga sovversiva, creatrice a un regime di sorveglianza, di controllo, alle forme di censura applicate dal governo,  infine nell’impossibilità fisica per Weiwei di lasciare il paese, vale a dire di cercare una via di fuga reale, nello spazio.
 L’interconnetività aperta dalla rete virtuale produce degli effetti impensati sulla società cinese: un’opportunità d’accedere liberamente all’informazione, al libero scambio della medesima oltre le limitazioni imposte all'individuo, infine una moltiplicazione di forme d’auto-visibilità sul net.

Immediatezza, mobilità, interazione rapida nella comunicazione su Internet,
connettività universale, infra-spazio, infra-rete, infra-numerico;
transitivo, transitorio, sintetico, provvisorio, senza importanza.
Questione di legame, link in senso mediatico, interazione, intervallo,
accesso a  una rete dove tutto entrerebbe in circolo, in risonanza, in gioco di rimbalzo e rinvio, lancio, rimpallo e ritorno, "de-comunicazione" anche come decostruzione dei codici della lingua scritta in forme brevi e incisive una volta immesse in questo  canale mediatico.

Nel 2009 dopo la chiusura del blog Ai Weiwei inizia a utilizzare Twitter come piattaforma di comunicazione. Fotografie scattate con il cellulare e trasferite immediatamente su Twitter seguono sul net in tempo reale gli avvenimenti che accadono nella società al quotidiano. 
La plasticità dello spazio virtuale diviene un’arma, un mezzo di comunicazione rapido, transizionale, difficilmente intercettabile che si oppone e si insinua negli interstizi del discorso ufficiale, ai margini delle strategie di controllo e sorveglianza, scomposto, frazionato, disseminato oltre il potere dello stato d’arrestarlo.
L’informazione sul net è contagiosa, rapida, difficilmente controllabile,  si diffonde a velocità vertiginosa;
 la parola, ugualmente diventa strumento d’affermazione di voci singole, apre spazi di libertà e di rappresentazione individuale , sposta infine una società chiusa e recalcitrante a un’apertura democratica oltre le proprie barriere.

Le fotografie dal blog, proiettate  a flusso continuo nell’ultima sala della galleria, documentano avvenimenti politici e sociali_ il terremoto nella regione dello Sichuan, demolizioni, nuovi progetti di costruzione_ ma anche eventi del quotidiano, occasioni per ritrovarsi, dettagli di vita ogni giorno, cene condivise, momenti con amici, scorci di Pechino, ritratti, primissimi piani su dettagli d’oggetti, volti, cibi o prospettive spaziali. 

Titolano  “Auto-riprendendosi in foto”, “al lavoro” e così via..
 Sono foto qualsiasi, foto fatte con un cellulare e scaricate su un computer,
foto auto-riprese, auto-selezionate, senza formalità o finalità, senza troppa importanza;
foto automatiche, con auto-scatto, neanche stampate, quasi senza avere una forma finita, insieme di indici, di segni dal reale, d’un reale possibile, reticoli significanti immessi nel flusso mediatico, nel canale aperto dalla comunicazione, sul suo muro di visibilità.

 Il banale e l’estetico, l’artistico, il politico e il personale si confondono, fondono nella documentazione d’una realtà possibile attraverso la fotografia, d’una forma d’esistenza forse non ancora trovata.