venerdì 12 luglio 2013

Su Dada Masilo, “Swan Lake”, ( danza, visto a Ravenna Festival 2013)









Su una scena vuota le luci unicamente in monocromo rilucente, puro, netto e assoluto a enfatizzare  i corpi e le diverse qualità di movimento, gli umori che li rivestono, le diverse atmosfere o stati energetici che vengono ad abitarli in questa rilettura personalissima, potentemente impregnata di influenze afro-contemporanee del più classico dei balletti di Tchaikovsky, “Il lago dei cigni”:   ora il fondo rosso, esplosivo, luminoso d’un deserto come energia d’una danza gioiosa, disinibita, totalmente ritmata su movenze africane che vengono ad abitare queste parti corali all’origine codificate in punte, salti e piroette multiple del balletto classico, ora i blu luminescenti, pervasivi, malinconici fin quasi a toccare le tonalità oscuranti del nero per le parti in duo o in assolo, le zone liriche e notturne del Lago, l’incontro tra cigno bianco e il principe, e, in questa versione, tra il danzatore cigno nero e lo stesso Siegfrid prima dell’epilogo nel tragico finale.
Originalissima, iconoclasta la versione di Swan Lake portata in scena dalla danzatrice e coreografa sud-africana si pone sotto il segno della commistione, dell’ibridazione, dell’innesto: tra tecnica classica dal virtuosismo conclamato di cui le punte restano il simbolo più evidente all’apporto della danza moderna e della tradizione africana; la commistione è, a un primo livello, tra cultura bianca e nera in Sud Africa con tutte le implicazioni e i sotto-testi ideologici, politici e sociali che questo include , l' ibridazione è ancora di generi, tra maschile e femminile volutamente frammisti in corpi che ne smussano volutamente le chiare determinazioni là  dove amori lirici da libretto classicamente idealizzati divengono duetti gay  in questo voluto abbattimento di barriere e categorie, di genere e identitarie come d’ appartenenza o un preciso stile danzato secondo l’estetica originalissima e nella visione post-moderna  di Dada Masilo.     
Al di là del tentativo di costruire e insieme sovvertire  lo scheletro d’una storia d’amore e morte idealizzata dal destino tragico di due personaggi in una serie di ruoli stereotipati- principe, donna-cigno, cigno-nero assumendo le sue sembianze per l’effetto di un sortilegio- quello che emerge nel lavoro della Masilo è l’ibridazione, la riappropriazione da parte della coreografa dello scheletro dissecato del balletto classico passando attraverso l’identità e la cultura sud-africane: contaminarlo, appropriarlo, fondere perfettamente nel suo personalissimo stile gli slanci opposti della sublimazione, della fuga verso l’alto, della tensione  rigorosa del classico e il ritorno a un’energia radicalmente terrestre, improntata su un dettame ritmico primario  tanto che la commistione avviene in maniera istintiva, spontanea, naturale, innata quanto il riflettersi della sua propria identità. Due componenti, in primo luogo lo studio, la formazione nel balletto classico e moderno, poi, la liberazione nel processo del medesimo linguaggio, la riscoperta delle proprie radici africane, riescono a coesistere o meglio a fusionare insieme portate in qualche modo dalla corrente  gioiosa e istintiva della danza che da esse scaturisce. Da una parte il richiamo alla terra, a una qualità di movimento molto più organica, istintiva, terrestre, ancorata  al suolo come i talloni lo sono, ginocchia piegate, anche oscillanti, braccia e fianchi che ondeggiano in aria al ritmo della musica,  e ancora questa energia estremamente fusionale che scaturisce dal contatto con il suolo, che prende il proprio slancio nei piedi a terra, nelle ginocchia flesse, nei movimenti del bacino e delle anche, ritagliandosi in una forma implicitamente propria; dall’altra l’elevazione del classico nelle sue punte che fuggono verso l’alto, nei suoi voli e salti virtuosisticamente ripetuti, nella grazia sublimata di questa danza aerea, leggera, dalle movenze eteree e dalla perfezione ineguagliabile della sua imprescindibile maestria tecnica. 
Nel parte danzata in assolo del cigno bianco la danzatrice-coreografa ironicamente rifà una parte di variazione dell’adagio classico con meccanismo a ripetizione a una velocità raddoppiata rispetto a quella originale aderendo tuttavia perfettamente al tempo musicale, alla ritmica intrinseca della composizione di Tchaikovsky con totale libertà, prendendola di contropiede quasi fuori da quella distanza intoccabile, da quel rispetto monumentale che si instaura  tra coreografia e sinfonia classica per fare appello, quando necessario, ai registri della danza popolare, di quella contemporanea o africana. Ginocchia flesse, movimenti rotatori di braccia e sterno si alternano a passi codificati dell’ adagio o a posture dagli arti tesi tipiche del passo e del portamento del balletto. Come riprendendo  la sequenza dell’adagio in un meccanismo a ripetizione essa viene fatta accelerare, rifatta in un tempo molto più rapido, dunque in qualche modo ripetuta ironicamente, sarcasticamente parodiata come se si giocasse con la medesima, con umorismo, leggerezza, con la gioia implicita, universale d’una danza che si vuole vivente della ripetizione differita, nella passione del trasmettere o rifare rendendo proprio, con il piacere anche d’essere dentro la materia completamente aderendo ad essa nel modo più credibile possibile, nella libertà che questa concede misurata dalla distanza che separa storicamente e culturalmente un’estetica, dunque uno stile,  da un altro.
La ripetizione dell’adagio rifatta in maniera personalissima e iconoclasta, accelera o rallenta, sperimenta con una ritmica modificata rispetto a quella originale; istintivamente si unisce alla musica senza sottomettersi al suo solo ordine armonico; intercala con intrusioni, incursioni d’un altro linguaggio cinestetico, gesti che si frappongono, poi influenze dalla componente più intrinsecamente africana implicitamente iscritte in questi corpi e,ancora, citazioni o ritorni riveduti e corretti all’adagio classico nella più totale libertà del linguaggio e, tuttavia, nel più grande rispetto e ricerca d’una simbiosi possibile tra i diversi stili.
 “Ogni volta che creo una coreografia è una sfida; sono nata in una città multiraziale dove si doveva andare d’accordo tra diversi, si tratta tuttavia solo di trovare il modo giusto, questo ho portato nella mia danza. Le barriere sono fatte per essere abbattute: rompere le barriere che divengono restrizioni, di quelle non abbiamo bisogno. Amo distruggere gli stereotipi, strappare i luoghi comuni; anche se non definirei militante la mia coreografia è chiaro che dietro la danza voglio dire qualcosa, ma questo tema sociale non deve soffocare quello che essa racconta”.
Perché dietro la facciata umoristica, leggera, disinibita o libertaria di tale versione del “Lago dei Cigni” l’innesto originalissimo del linguaggio, dello stile maturato dalla Masilo, nata a Soweto in un ghetto nero e disertato di Johannesburg,  è lo specchio dell’identità complessa di un paese come il Sud-Africa oggi; riflette l’identità di una società post-apartheid con i suoi conflitti esacerbati, i suoi chiaro-scuri violenti, le sue interne lacerazioni tra una componente bianca e una nera, tra una classe dominante, elitaria, improntata sulla supremazia del denaro e la lotta per i diritti civili delle minoranze, da cui gli eccessi di omofobia e violenza fatta alle donne, gli esiti devastanti d’una piaga come l’aids in tale realtà . “Rompere le barriere culturali d’un paese”, alludere attraverso la danza a problematiche reali d’una società, in qualche modo coreografare con la nozione o la consapevolezza di tale complessa identità significa, anche, nel lavoro e nello stile di Masilo cercare la via o percorrere la strada d’una sintesi, d’un tentativo di risoluzione o di dialogo  nel conflitto tra le diverse componenti,  bianca e nera, maschile e femminile, africana e occidentale, classica e afro-contemporanea. Implicitamente la sintesi si compie in sé partendo dalla propria pelle,della propria identità sfaccettata e complessa che pur riesce a trovare unità, come questa danza una implicita coerenza e bellezza da qualche parte, in qualche luogo.
Ancora più radicale la commistione, l’ibridità, il superamento di barriere che divengono restrizioni politiche o sociali si applica alla decostruzione dell’idea di genere in tale coreografia . Allo scheletro della narrativa amorosa tradizionale si oppongono amori omosessuali, cancellazioni di nette distinzioni tra i sessi, ibridità conclamata di questi corpi fino a  evocare  la cancellazione delle opposizioni binarie, il voluto metissage dei medesimi che rinvia a quel corpo universale, femminile e maschile insieme, asessuale e bisessuato incarnando in ultima analisi il corpo assoluto della danza.   Dal “passo a due” dell’incontro amoroso tra il cigno nero e il principe Siegfried dove il femminile e il maschile sono incarnati daicorpi di due danzatori uomini rispettivamente in tutù nero e tuta bianco su scena, a corpi di danzatori maschili apparendo transiti, trapassati, investiti d’un femminile universale corpo poetico danzando in loro, al contrario a corpi di danzatrici  dal torso nudo, dai capelli rasati e i seni quasi inesistenti mostrandosi estremamente mascolini nel loro esporsi, infine a questi corpi coralmente liberati nel lirismo dell’ ultima scena all’unisono eppure in singole parti improvvisate.
I torsi nudi e le ampie tuniche nere sino ai piedi, i gesti sinuosi di braccia e torso, il rapimento quasi estatico cui sono lasciati nel loro farsi portare dal flusso infinito e sinuoso della danza  si mostrano nella voluta indistinzione tra danzatori e danzatrici, uomini e donne semplicemente come corpi offerti, ceduti, esposti, totalmente donandosi al potere della danza, a questo  grande corpo ibrido, universale risvegliato attraverso e per mezzo loro.