giovedì 15 aprile 2010

Sulla fotografia contemporanea, Sophie Ristelhueber









































Essere contemporanei é, nelle definizione di Marc Tamisier, attenersi, stare al proprio tempo come si starebbe alla propria presenza: stare in questo tempo imperfetto, non-finito, “tempo che é il nostro o che dovrebbe appartenerci».[1]
Tale temporalità ci abita,  ci sommerge,scavandosi in noi silenziosamente come un’azione in divenire, in fase di svolgimento senza poterne vedere chiaramente i limiti esterni.
La Contemporaneità sarebbe questo tempo presente, concepito come campo a sé, insieme espanso e disperso,
ovvero il tempo dell'attuale preso in uno spazio globale e fuori da una dimensione diacronica o storica.






Sophie Ristelhueber, immagini

E’ il colore della sabbia su un suolo bruciante, il deserto, ocra e opaco insieme, apparentemente irreale, diafano sotto il riflesso di una luce fredda, distanziante.
La visione a scala, è ripresa a tale distanza ravvicinata, a pochi metri dell'oggetto attraverso uno sguardo diretto, totalmente a raso dell’obbiettivo, a prima vista “oggettivo”.

Sono queste strade sbarrate da cumuli di terra, ammassi, detriti crollati oppure fatti precipitare al suolo per impedire il passaggio degli abitanti in Cisgiordania.
in alcuni casi barriere metalliche, blocchi di cemento  letteralmente serrano, ostruiscono il passaggio tagliando lo spazio circostante.
Lasciano traspirare anche visivamente, l’estenuazione d’una violenza indeterminata, d’una guerra impersonale sul volto sfigurato del territorio.

E, tuttavia, i cumuli di terra inseriti nel paesaggio semi-arido e brullo di Cisgiordania lasciano intravvedere tra le loro rocce nuova vegetazione,
come per voler integrare questo spazio di morte con una sorta di continuità del processo vitale.

Sono questi incendi apparenti sul suolo sabbioso del Kuweit;
un cielo nero tempestato di tracce, di segni o punti luminosi si apre come una carta di navigazione aerea, un tracciato di rotte a distanza,
una mappa celeste di costellazioni stellari.
Potrebbe essere il suolo, ugualmente, coperto da una spessa coltre di fumo,
giacimenti petroliferi, oppure un quadro monocromo visto dall’alto in una fotografia.
“Oggetti trovati” sulla superficie del deserto 
sono in parte ricoperti o spazzati via dalla polvere di sabbia là dove la superficie resta intagliata e incisa ma astratta. 
Trincee viste dall’alto e oggetti impersonali appaiono abbandonati o perduti sul tragitto:rasoi,coperte di soldati ma anche mine, residui d’armamenti o tracce di pneumatici al suolo, in questo spazio denudato d’ogni presenza umana.

E’ la terra che parla e funziona come figura o metafora impersonale,
in altri casi la pelle, l’epidermide del corpo vista come una superficie scritta, incisa o rifigurata: paesaggi impersonali e umani segnati da cicatrici o meglio da punti di sutura nell’atto  di ripararsi.
Sono questi crateri aperti sulla terra, sembra, in seguito a un’esplosione durante un lancio di bombe in Irak o in Libano, gli stessi visti in montaggio d’immagini nella serie “Eleven Blows up”.
La solidità del cemento o della pietra divenuta fragile come argilla, come sgretolasse tra le mani lascia intravvedere voragini aperte, vuoti al centro circondati da detriti, pietre e macerie fumanti ai lati.
Figure come testimoni impersonali guardando a distanza.

Un alfabeto si scrive in un’infinità di segni viventi, di parole possibili incise sul tessuto minerale, vegetale o umano del mondo 
come se il suolo lasciasse intravvedere la propria storia in una mappatura immaginaria fatta d’ogni segno o solco, incavo o vuoto marcato all’esterno.

Blocchi di cemento, muri, e bordi di costruzioni ritornano incessantemente nelle fotografie di Beirut del 1984.
Edifici scalcinati dalla guerra sono ripresi in primissimo piano, frontalmente;
muri esterni d’edifici diroccati nell’atto di sgretolarsi
forme strane, selvagge, irriconoscibili quasi dall’originale, con scale, fondamenta o strutture a vista dotate di vita propria restituendo un paesaggio apocalittico e pittoresco di rovine.
I massi diroccati, in pietra si disegnano in architetture casuali, surreali nello spazio fotografate in scorci ravvicinati, all-over in primissimo piano, come una materia distesa, espansa su tutta la superficie dell’immagine in modo disordinato,per forme discontinue sul vuoto retrostante.

"La terra distruttrice e riparatrice, minaccia rovina più di quanto non accada veramente" [2] appare sul punto di sgretolarsi, lasciare crollare al suolo interi edifici nel corso di una scossa sismica più forte dell’ordinario.
Le costruzioni sembrano precipitare, dissolvere ed essere ingoiate  allo stadio primario della materia, in pulviscoli o polvere di terra nella loro corsa verso l'originario.


Vedere le forme vacillare, tremare come aliti di vento e poi rimettersi in piedi, tornare al loro statuto ordinario, ritrovare una propria stabilità.







































Segni opachi, a-significanti, portati fuori dall’illusione di una trasparenza realista

L' immagine fotografica non è più una “ finestra aperta sul mondo” ma uno specchio riflettente, narcisistico della mia interna apprensione del reale”. [3]
Uno sguardo oggettivo e soggettivo insieme,
la frontalità impersonale della fotografia e la storia presa nel suo risvolto interno e soggettivo.
Guardiamo il mondo a partire da quello che siamo, istintivamente stabiliamo connessioni, gerarchie tra le cose attraverso il nostro modo di scrutarle.
L’immagine nasce da questo movimento sotterraneo che inconsapevolmente tiene insieme punti di vista diversi su una sola superficie.




La fotografia di Ristelhueber arriva nell’ après coup , nel dopo l'avvenimento non come registrazione o documentazione diretta dell'evento nel reale ma all'interno di un progetto più ampio che investe territori di guerra, Beyrouth nell'84, l'Armenia nel '89, il Kuwait durante la Guerra del Golfo nel ‘92 o ancora l'Irak nel 2000, infine la Cisgiordania nel conflitto israeliano-palestinese.
Lavoro su « territori cicatrizzati »: « non registrare i segni del reale ma significare fotograficamente delle tracce. » [4]
Nel dittico ispirato a ricordi d'infanzia a Vulaine (1998) compaiono dettagli ingranditi di vecchie fotografie di famiglia in bianco e nero . Accanto sono le immagini a colori riprese nel presente, rigorosamente negli stessi luoghi, svuotate questa volta di ogni presenza umana: un copriletto a fiori colorati, carta da parati sul muro, la traccia  d'una porta al suolo. Spazi interiori visti frontalmente, dettagli  metamorfizzati dalla visione infantile.
Le istantanee  in bianco e nero sono  sguardi rubati, volti infantili silenziosi e perplessi  nella sospensione del gioco, momenti fissati su un passato eterno, atemporale.
Lo stesso sguardo è riportato nel vuoto dello spazio presente: una tavola in legno circolare, sedie, un pavimento piastrellato a rombi che si ripetono in serie , gambe  contorte di mobili, squarci di sedie imbottite, spazi vuoti o case vuote. La luce illumina oggetti particolari stagliandone la forma  in primo piano.
Tale paesaggio emozionale lascia parlare le cose in sé, nel solo gioco di luci e nella sproporzione tra le forme, segnando lo scarto temporale, la perdita se vogliamo, come la fessura aperta tra le due immagini giustapposte.

La trasparenza del medium fotografico garante per più d’un secolo d’una forma di verità sul reale si sostituisce all’opacità di un’immagine non descrittiva, che, allo stesso tempo, esclude ogni drammaticità, ogni riflesso nostalgico o effetto estetico apparente. Le pose d’immagine sono prese frontalmente, in all-over, escludendo il senso di una profondità dei piani o una messa in prospettiva per privilegiare, invece, la più assoluta neutralità nel trattamento formale. E, tuttavia, oltre tale apparente valore indiziale, come si trattasse della registrazione minuziosa di impronte lasciate sul suolo, sui corpi o sul territorio, e tuttavia, dunque, oltre tale indiscusso realismo, l’immagine scivola verso altro allo stesso modo in cui lo sguardo scivola sulla superficie, se ne avvicina, se ne allontana, riquadra costantemente, sposta il punto di vista fino a trovare l’ineluttabilità dell’avvenimento.


Il tempo come traccia . L'apertura del tempo sotto forma di traccia, le stigmate prese nel processo fotografico non sono destinate a scomparire ma a conservarsi come punti di sutura, di congiunzione tra il presente e quello che di quel passato riemerge in negativo nell'immagine .

Ogni lavoro fotografico apre dei punti di intensità sul visibile, mostrando qualcosa che é li' ma non appare,  qualcosa di momentaneo, acuto, costringente e lucido insieme che si impone come il senso di una visione.
Si da con l'evidenza di un punto percuotente, lancinante nell'immediatezza di un istante.

La fotografia oggettiva la reminiscenza d’una ferita del suolo, della terra o dei corpi come in Kuwait ma l'oggetto fotografico passa dall'ordinario all'extra-ordinario perché nasce da una
«realizzazione fotografica singolare, senza protocollo definito, non riproducibile, senza norma."[7]
L’immagine non illustra, non estetizza nulla, non nasce da un'intenzione della fotografia ma apre una breccia sul nostro sensibile sviluppando una propria potenzialità di pensiero. Non mostra la guerra, non la simbolizza ma apre nel presente una propria visibilità, un divenire-passato in negativo, per ritrazione.
Affonda nel fatto ma lo fa indirettamente partecipando all'evidenza sensibile della guerra, della lacerazione. Sviluppa un proprio tracciato a partire dal presente, un presente imperfetto, non-finito dove la fotografia affonda nei limiti di un’oggettività che continua ancora e sempre a sfumarsi, a confondersi entro frontiere instabili, divenendo costantemente qualcosa d’altro.
Impronta di un fatto non dato, tale immagine fotografica reintroduce l'idea d’una visione, la mediazione di un segno, la presenza di uno sguardo tra questa e l’oggetto visto.
Simboli vuoti, a-significanti, fuori da una verità, da un'aderenza oggettiva al reale nati, in primo luogo, dalla necessità di uno sguardo.


Luc Delahaye: “Se c’è qualcosa nell’immagine da non potere spiegare é là il segno che c’è qualcosa di interessante.”[6]Un’immagine è giusta quando non si lascia facilmente comprendere come un’evidenza, come un luogo comune del pensiero sviluppando un propria potenza d' avvenimento: un pensare intuitivo e sensibile,  la sospensione dell’evidenza d'ogni giudizio, un punto di non-sapere, l’eco infine d’una risonanza interiore o dei sensi.

“Per riuscire una fotografia bisogna alleare coscienza e negazione di tale coscienza.”[7] Al di là dei cliché riconoscibili la fotografia contemporanea ricerca  in Ristelhueber uno  “stile come assenza di stile”, scegliendo la via della riduzione, dell’assenza, di una distanza o impersonalità che divenga luogo di autosufficienza, d’esistenza dell’immagine per essa stessa. Ricerca le leggi elementari che reggono la geometria dei rapporti tra le forme, la giustezza della materia e della luce. Dietro la figura del fotografo si situa sempre, tuttavia, quella del poeta: “  Non è solo tradurre un’attitudine dello sguardo o razionalizzare un’intuizione con i mezzi fotografici. C’è un rifiuto dello stile, il rifiuto di ogni sentimentalismo, questo desiderio di chiarezza, infine la misura di una distanza che mi separa da quello che vedo. Portare lo sguardo là dove deve essere e creare un’immagine che non sia sottomessa al reale né sottomessa a un’intenzione perché l’intenzione del momento sarà sempre al di qua di quello che si stava cercando.
Enunciare il reale creando un’immagine che sia un mondo in sé, dotato di una propria interna coerenza e autonomia, un’immagine che pensa. ”[8]



[1] Marc Tamisier, Sulla fotografia contemporanea, L’Harmattan, 2007, p.7
[2] Cfr. Lucrezio, De Rerum Natura in Sophie Ristelhueber, Operations, La Presse du Réel, 2009, p. 244
[3] Ibid., Tamisier, p. 143 .
[4] Ibid., p. 147.
[5] Ibid., Tamisier, p. 153
[6] Ibid., p. 169
[7] Ibid., p. 169
[8] Ibid., p. 170.