martedì 22 settembre 2020

Monet e gli Impressionisti: paesaggi d’acqua a Palazzo Albergati ( mostra a Bologna)



Nel 1875 Monet dando inizio alla svolta pittorica  moderna scrive a proposito del suo quadro “treno nella neve”: “Quando il treno parte il fumo della locomotiva è talmente denso che rende ogni forma difficilmente riconoscibile”. Tale il treno diviene sulla tela:  una presenza scintillante, viva come due occhi irradianti nella notte, un bagliore arancio sulla bianca coltre di neve, una fantasmagoria di punti luminosi , fugace come l’impressione che l’ha generata. Tale la svolta semplice quanto radicale della nuova pittura impressionista alla fine del diciannovesimo secolo: dipingere la vita, l’impressione immediata e autentica dei sensi, lasciare l’atelier per lavorare in esterno, “en plein air” utilizzando  la contingenza del momento, le varianti atmosferiche, l’influenza dei primi procedimenti fotografici. Gli impressionisti abbandonano  il canone e la staticità della pittura accademica classicista di soggetto mitologico; dipingono all’aria aperta portando con sé tele e pennelli, rapidamente  prima che la luce del giorno scompaia oppure utilizzandone le sfumature più cangianti per immergersi in quei paesaggi e renderli così come apparivano  ai loro sensi. 





Color is my daily obsession, joy and torment”: il colore è la mia ossessione quotidiana, la mia più grande gioia e tormento”  affermava Monet, come leggiamo nella citazione all’inizio del percorso a Palazzo Albergati; al centro della mostra bolognese alcuni tra i più noti  capolavori del movimento impressionista francese, in particolare Monet, Degas, Renoir ecc sono affiancati da alcuni inediti provenienti dal museo  Marmottan di Parigi tra i quali assumono particolare rilievo le tele di Berthe Morisot unica esponente femminile del gruppo.


Un’irradiazione di colori accoglie i visitatori attraverso l’installazione all’inizio della mostra:    ninfee d’acqua, distese fiammeggianti di papaveri rossi, piccoli pesci guizzanti nel laghetto dai riflessi smeraldo di Giverny trasformano il corridoio del palazzo in un prato fiorito, in un campo acceso di colori dove le ombre dei passanti si confondono con quelle delle forme proiettate  sugli specchi laterali per lasciarli precipitare nel sogno luminoso degli impressionisti.

Uno spazio particolare della mostra bolognese è dedicato alla figura di Berthe Morisot, artista auto-didatta in un’epoca in cui le accademie d’arte erano riservate esclusivamente ai pittori , la sola esponente femminile del gruppo impressionista. Modella in diversi ritratti per Monet con il quale stinse una lunga amicizia sposando poi il fratello del pittore, Berthe elabora una propria cromia fantasiosa e vitale che definisce il suo stile singolare rispetto agli altri impressionisti.

 

Manet, “Ritratto di Berthe”,  Berthe Morisot “donna con ventaglio”, 1875

 







Al centro della sala Berthe appare nel dipinto di Monet; la ritrae distesa, allungata su un divano focalizzando l’attenzione sul suo volto, quell’aurea magnetica che attrae lo spettatore verso il punto focale dello sguardo al centro della tela. Quegli occhi vitali neri investiti di profonda sensibilità. Coglie in lei l’artista e non solo la bellezza del volto da ritrarre: lo spirito sagace e intuitivo, l’intelligenza, forse la vitalità di un momento in un’impressione che la rende quasi istantanea fotografica della realtà.

La mussola del corpetto bianco stretto in un decolté sinuoso, il chiarore traslucido dell’abito insieme al ventaglio e ai guanti si stagliano contro gli occhi e i capelli neri raccolti, un mazzo di fiori oscuri sullo sfondo. La postura della donna rivela fascino e mistero convocando l’immagine di una dama di fine secolo colta nell’atto di mostrarsi con attitudine all’esterno. Gli occhi, al contrario, irrompono di una luce propria oltre lo stereotipo femminile emanando autentica vitalità.  




 


Nelle tele successive la pennellata dell’artista diviene sempre più ampia, fluida ed espressiva fino a rendere i personaggi parte integrante del paesaggio, fino a creare continuità cromatica tanto da spingere le figure alle soglie dell’astrazione espressiva. La figlia Julie appare di profilo su un albero, il suo cappello di paglia appeso a un ramo. La luce permea la tela, l’artista la immerge in una piena cromia luminosa tanto che i volti e le figure tendono a dissimularsi sfuocati dalla pennellata immensa che la riconduce quasi alla sperimentazione pittorica moderna. 

In “sottobosco in autunno”  siamo immersi nel fluido colorato e oleoso di questa pittura al femminile mentre le forme sono rese sfuocate, morbide e indefinite come linee sinuose immerse nella vivida cromia dell’insieme: i gialli accesi, i rossi brillanti, i blu chiari, gli azzurri a macchia o a getto oleoso evocano una vera e propria danza d’acqua e di luce sulla tela.

 


Degas, “Ritratto di Madame Ducros”(1858)

La vede in questo volto dalle tonalità creole e dai tratti finemente delineati.  In tale bellezza altera e quasi malinconica, in qualche modo irraggiungibile, in sé stessa austera  Nella frangia blu dell’ abito nero che le serra la vita. Nella macchia rossa dei fiori ai suoi piedi, sullo sfondo della stanza sfuocata alle spalle. Della donna resta questo: un volto madreperlaceo, un nastro rosso, una frangia blu sul nero semi cancellato del fondo.

 

Monet si trasferì a Giverny nel 1883 con la famiglia e passò qui metà della sua vita in quello che scelse come il suo luogo ideale per la pittura. Dipinse ugualmente paesaggi ad Argenteuil nei pressi di Parigi e visioni della Senna in diversi momenti del giorno e dell’anno,  nella luce brillante di primavera oppure attraverso un filtro rosato e attenuante  per effetto del crepuscolo. Altrove la Senna gli appare irreale e fiabesca come coperta da un alone traslucido e luminoso per liquidare  la realtà nel suo corrispettivo favoloso. Dopo la serie delle “Matinées sur la Seine” si consacra quasi esclusivamente ai fiori e in particolare alle “ninfee” del suo giardino in particolare nelle ultime grandi tele là mentre la forma dissolve sempre più a favore della vibrazione luminosa anticipando la svolta astratta  di Kandinsky.

 

Monet, “Passeggiata ad Argenteuil” (1873)



 

Attraversano un campo di papaveri rossi e scintillanti, illuminati dalla piena luce del giorno, il padre la madre e il figlioletto accanto. Camminano, sono portati dal divenire di quella folata invisibile e vigorosa che insieme spazza via e trascina i tre in un moto continuo verso l’avanti, l’orizzonte, forse il domani oltre il loro sguardo. Appaiono avanzare sospinti dal vento nella brezza lieve che muove i loro abiti e insieme li restituisce al paesaggio in unione quasi ideale con essa, lussureggiante e meravigliosa. I riflessi del blu, del rosso e del bianco sul campo fiorito, il cielo indaco attraversato da nuvole basse sopra di loro, gli alberi oscillanti al vento sullo sfondo. E’ forse un sogno di matrice romantica quello che racchiude il segreto di questo quadro che da sempre affascina gli spettatori, oppure una  sensazione d’infanzia  nella quale si ricorda vagamente di aver camminato per campi fioriti, il sole in faccia o il vento alle spalle. I contorni sfumati, indistinti ritornano  alla tavolozza chiara nell’armonia di un istate ritrovato.

 

Serie delle ninfee, (Water lilies, 1916-1919)





Scrive Monet a proposito di Giverny: “ Amo l’acqua ma anche i fiori; il mio giardino è un’opera lenta perseguita con amore.”  Il pittore continua a dipingere queste visioni d’acqua e di fiori tutta la vita, ogni volta ritorna sullo stesso soggetto inevitabilmente per approfondirlo, ricrearlo, immergerlo in una progressiva fusione con quella natura rigogliosa e selvaggia o nella percezione d’essa. Grandiose queste tele emanano le tonalità intime del luogo, vivono di quell’acqua e di quelle ninfee, ne amplificano i ritmi e il loro scorrimento lento e sensuale. Incarnano l’immersione dell’anima in quel laghetto indaco, violaceo e blu fino a divenire liquido, espanso irradiante di luce.

Queste tele nel loro amplificarsi e ripetersi divengono un atto d’amore verso il creato, il fluire lento e inarrestabile, il costante estinguersi  e rinascere della vita alla natura. Un lavoro al microcosmo intessuto con amore di cui i fiori restano il segno tangibile, movimento primo verso il sensibile che gli impressionisti convocano nella loro pittura.

“Il mio giardino è il mio più grandioso lavoro d’arte”, conclude Monet, un luogo della pittura che evoca atmosfere fino a quel momento non ancora catturate , di smeraldi che si riflettono nei blu argentei, e rosati, un luogo della creazione di Dio sulla terra.

 

Le rose (1925-26)

 

Nel 1926 Monet a ottantasei anni prende in mano per l’ultima volta il pennello e dipinge delle rose per rendere omaggio, dire addio in qualche modo a quei fiori che l’avevano da sempre ispirato a diventare pittore. Dipinge quei boccioli rosati su un fondale celeste come dono, ultimo lascito, incanto di un’istante e insieme gesto d’addio, come traccia indelebile di una bellezza per l’ultima volta ritrovata.  Sceglie l’azzurro lieve del cielo soffuso al bianco delle nuvole disseminato   di boccioli nuovi o dischiusi come omaggio al creato, sancendo il suo legame ultimo d’amore verso l’universo.