martedì 11 dicembre 2018

…VIAGGIO, RACCONTO, MEMORIA, attraverso le fotografie di Ferdinando Scianna




All’inizio di questo viaggio per immagini nella retrospettiva “Viaggio, Racconto, Memoria” ai Musei san Domenico di Forlì è la miriade di scatti e storie, racconti e memorie legati all'universo fotografico di Ferdinado Scianna: la quintessenza del suo stile, il suo essere attraverso la fotografia a stretto contatto con il mondo, in presa diretta con la vita e parte in causa della storia che in maniera estemporanea documenta nel lavoro di reportage. La selezione di immagini dedicate a Bagheria nella prima sala rende testimonianza alla sua terra natale, la Sicilia, luogo d’appartenenza e di radici, di fughe obbligate nel corso degli anni ed ossessivi ritorni, di salti in avanti nel tempo al presente e riecheggiamenti di un mondo arcaico e vagheggiato  simile a scintille di memoria dall'infanzia o dalla prima giovinezza 
ritrovate in fulminei istanti di fuga dal presente. 





Bagheria, l’odiato-amato paese in cui sono nato, dove ho passato la mia infanzia, in provincia di Palermo, dove ho vissuto fin ai 23 anni, dolce e terribile luogo dell’anima dove ho scattato ben più fotografie di quanto non sospettassi. Ho continuato a fotografare a Bagheria nel corso degli anni, negli innumerevoli,  desiderati ora temuti, felici ora dolorosi, qualche volta inevitabili ritorni”[i].

La questione ossessiva quanto inevitabile per Scianna sull’essere siciliano si lega alla ragione prima, all’essenza stessa del fotografare  che per lui è indiscutibilmente un modo, forse il solo di approcciarsi alla realtà, di esserci e guardare il mondo nel tentativo di comprendere, fosse solo qualche istante decisivo, e di raccontarlo attraverso il mezzo fotografico . Cosa significa essere nati in quel luogo , isolato e isolano, impregnato di anacronismi e tradizioni, riempito di rituali e affondato in un immobilismo fuori dal tempo, letargico e fatale, poi andare via, allontanarsene per gettarsi nel maelstrom del vivente da Milano a Parigi collaborando con un’agenzia internazionale e e prestigiosa come Magnum o nei vari reportage in giro per il mondo , eppure continuare a guardare, a esplorare la realtà con occhi da siciliano. 

Quando partiamo la nostalgia comincia a tormentarci, il lavoro di trasfigurazione della memoria in un ritorno tanto sognato quanto reso impossibile. Dalla Sicilia si scappa ma non si lascia mai l’ossessione delle origini..”.





Origini, radici, la terra di Sicilia





Le fotografie della prima sala scattate negli anni ’60 dalle inquadrature altamente cinematografiche ricreano ambientazioni, atmosfere, stati emozionali dell’intrinseca identità dell’isola evocando in scorci suggestivi immagini giunte dagli anni dell’infanzia o della  della prima giovinezza in Sicilia. In “maestro d’acqua”: un uomo di età avanzata appare 


seduto tra gli arroccamenti a ridosso del mare sulle coste  palermitane intento a sorvegliare un gregge. Solitario, asettico, inerte all’ azione, il suo sguardo appare gettato lontano oltre gli altopiani, pensatore  estraniato dal presente. Palermo velata da una tenda è inquadrata in un’altra fotografia. Dietro quella il profilo di una donna si intravvede tenendo per mano il figlioletto in primo piano: tendaggi, schermi o reti mediano lo sguardo e separano, oscurano, pongono dei filtri visivi alla memoria rendendo quel mondo lontano e fittizio, più distante e remoto. Un gruppo di uomini in un bar avvolti da una coltre densa e grigiastra di fumo aspirano lentamente dai loro sigari mentre si soffermano indolenti e solitari a giocare a carte e  a scommettere sul nulla del proprio presente. Bagheria sono le case arroccate sugli scogli in prossimità del mare, scavate dentro la pietra in un piccolo borgo solitario e resistente, lì da secoli esposto alle intemperie e alle tempeste, alla durezza della vita dei pescatori, costruite l’una a ridosso dell’altra a strapiombo sulla costiera. E’ lo sguardo di una donna anziana lucido e acuto in primissimo piano dagli occhi tempestati di nera ematite rilucente di ghiaccio. Sono i volti di donne avvolti da veli neri nel sole accecante del mezzogiorno a ridosso delle case del villaggio. Sono orizzonti, “dalla terrazza della casa dei miei nonni si vedevano agrumeti fino al mare, dalla cappella di s. Giusipuzzu la Villa Rosa si stagliava libera contro il monte Pellegrino”.









Le feste, ugualmente appaiono tra i soggetti più frequentemente fotografati e affascinati per Scianna che già all’età di ventun anni collabora con lo scrittore Sciascia pubblicando il suo primo saggio in immagini “Feste religiose in Sicilia”.  Patronali o liturgiche, barocche o religiose, riferite a santi o patroni di un paese,  un villaggio, o una contrada come la  notte del fuoco rigeneratore di S. Giuseppe, le feste ricorrono nelle fotografie di Scianna come momenti catartici, eventi rituali nella vita di un gruppo, momenti di estasi collettiva o insieme riti regolatori e purificanti di una comunità, infine , nelle parole del fotografo: “ il solo momento in cui il siciliano esce dalla sua condizione di uomo solo, del suo vigilante e doloroso super-io per ritrovarsi parte di un ceto, di una classe, di una città.” 
I volti estasiati e sorpresi di una folla di giovani e bambini attendono con gli sguardi volti verso l’alto in un'unica direzione nella prima di queste immagini l’accendersi del fuoco rigeneratore, l’inizio del falò rituale che brucerà in ogni piazza, in ogni angolo di strada  “mobilio e roba vecchia” danzando per rigenerare speranze ed energie collettive nel mezzo dell’inverno. Sono ancora le sfilate patronali con i volti celati degli adulti e i bambini coperti da vesti sacramentali per riappropriare l'evento della passione del Cristo, interpretata e ritualizzata come scena di catarsi collettiva nelle strade del paesino.  


 A Lourdes, in contrasto sulla stessa parete un uomo porta tra le braccia in primissimo piano un giovane probabilmente infermo e la dimensione della fotografia sfiora d’un tratto l’altro estremo del rituale religioso tacito, silenzioso e interiorizzato: il volto in cerca di redenzione, l’infermità esposta in attesa della straordinaria presenza del divino, l’intervento del miracoloso. Qui non è più la folla, il caos, l’esasperazione del rito collettivo e catartico ma il gesto silenzioso dell’offrirsi totalmente per questo singolo corpo infermo e senza difese al divino: l'abbandonarsi alla grazia salvifica e rigeneratrice. Le due singole figure, una portando tra le braccia l’altra, inerte, sembrano rischiarate da una misteriosa fonte di luce giunta sulla scena come un’ irradiazione del divino  sullo sfondo lasciato all'oscurità circostante.


Reportage di viaggio

“La speranza di vita a Kami, meno che un villaggio era un accampamento di minatori aggrappato a quattromila metri sulle Ande boliviane, era di 31 anni. Distrutti dalla fatica, abbrutiti dalla chica e dalla coca, quando rientravano, spesso troppo ubriachi per trovare il loro casotto di lamiera, crollavano per strada..Eppure ogni giorno, soprattutto in quelli di festa le donne passavano ore a pettinarsi i densi capelli neri ed a agghindarsi per loro.

“Veniva da un villaggio lontano ed era arrivato con un mulo e un lama. Il suo volto concentrato nella fatica e nella paura aveva sfaccettature da scultura lignea medievale.” (Scianna,  Visti e scritti)


Sono le Ande boliviane dove ignoti individui, uomini e donne nei secoli hanno scavato oro, argento, stagno e metalli per far risplendere i palazzi e i gli splendori degli imperi colonizzatori che li hanno dominati. E, ancora, in Etiopia nei campi profughi i bambini in emergenza di guerra e di carestia morivano ogni giorno sotto gli occhi del fotografo, infine, tutte le zone della terra colpite da emergenze politiche o umanitarie dove i mandati documentari hanno condotto il fotografo nel corso degli anni.

 Scianna in un’intervista a proposito degli scatti in Etiopia ricorda la stretta atroce che lo paralizza,  nell'impossibilità di fotografare di fronte all'ineluttabile evidenza della sofferenza atroce dei molti, della morte toccata con mano in quel campo profughi dove a migliaia, soprattutto bambini, morivano ogni giorno di stenti e malnutrizione nelle condizioni più miserabili. Come Scianna afferma ciò che lo spinse ad attraversare quel muro di silenzio, a superare la parete invalicabile della sofferenza atroce di quella realtà  e ritrovare così una motivazione al suo lavoro fu  la risposta immediata e intuitiva del corpo nel suo innato sapere, il suo grido primordiale verso la vita più impellente e pervasivo di ogni fragilità o blocco psichico vissuto di fronte alla tragedia dei molti.
Come egli afferma a questo proposito: 

“Nelle fotografie metti il tuo dolore, la tua pietà. Non cercare di fuggire, non tentare di cambiare il mondo. Usa la tua fragilità, il corpo nel suo bisogno primordiale, nel suo istinto primo di vita più forte dell’angoscia o della paura del momento”.

 La necessità fisica quasi, l’impulso alla vita  in quel faccia a faccia diretto e inequivocabile alla morte. I volti di Kami (1986) in questo senso non sono la semplice documentazione di sfruttamento o miseria per i minatori delle Ande Boliviane ma inseguono negli scatti più belli questo grido alla vita, svelando una forma di sorprendente bellezza insita nel volto di una giovane donna colta di profilo nell'atto di pettinarsi o sciogliersi i capelli scuri sulla pelle olivastra, ondeggianti al vento. Lei avvolta in uno scialle di lana di tessitura indigena appare in una sorta di innata sensualità come il ragazzo nell'immagine accanto in una inesorabile malinconia, ben al di là del reportage giornalistico sullo sfruttamento in atto.

Ossessioni: gli oggetti al centro della fotografia

“Se queste fossero le fotografie, immagini fuggite dagli specchi per vivere di vita propria. Un tentativo della cultura occidentale di dare una risposta sulla domanda fondamentale relativa all’ esistenza, al mondo e a noi stessi”.

“Forse le fotografie sono davvero le memorie di tutti gli specchi che hanno riflesso le cose, i volti o le immagini di tanti uomini(..) Per una volta non siamo noi che abbiamo rotto gli specchi per andarvi a cercare dentro chissà quale verità nascosta di noi stessi o del mondo ma è la labile verità delle immagini che è uscita per invadere il mondo, per invadere i nostri album di famiglia, per problematizzare il nostro rapporto con la memoria sino all'inflazione nullificante che oggi viviamo”.


Le cose rappresentano per il fotografo un modo di guardare il mondo nella sua miriade di sfaccettature che rimandano spesso proiezioni conflittuali o contraddittorie, e, a partire da quelle,   di ricostruire un’idea unitaria di sé stesso rispetto ad esso. Le immagini di Scianna nascono in una continuità tra il vedere, sentire e pensare, convocando spesso citazioni visive di imprescindibili maestri come Cartier-Bresson. Le cose, gli oggetti del mondo, ciò in cui ci si imbatte o che si incontra accidentalmente fino a divenire “occasione” in senso poetico per la fotografia restano sempre al centro del suo lavoro: “ piccole cose di poco prezzo, senza importanza. Le cose raccontano, ci raccontano, le fotografie fanno parte di questo racconto”.



Foglie viste con sguardo ravvicinato ci avvolgono come un panno avviluppante di bianco tessuto che diventa fogliame, lenzuolo in filigrana di madreperlacea, avvolgente memoria su un fondale oscuro. Uova di struzzo come bianche rotondità candide e preziose su una terra inaridita di siccità a Dijbuti sono ammonticchiate in primo piano ai piedi consunti dal cammino di una donna  africana. Accanto e' un paniere ricolmo di cannucce. Scintillanti si stagliano come oggetti preziosi investiti di un’aurea fuori dall'ordinario, quasi reperti archeologici bizzarri e introvabili, preziosi e magnificenti nel loro bianco candore.





Fotografare i dormienti

Al sonno ci si abbandona quasi di nascosto, in luoghi protetti, al riparo dallo sguardo d’altri per trovare quiete, riposo, rigenerarsi dopo una lunga giornata di affannoso vorticare del corpo e nello spirito, magari per proiettarsi in sogno o svegliarsi invece tormentati da intrusioni insidiose della mente, dai margini oscuri di una psiche risvegliata da inusitate intrusioni dell’inconscio. Nelle fotografie di Scianna ci si abbandona letteralmente al sonno, e in uno o nell’altro versante; gli scatti rubano momenti in cui il flusso della vita si interrompe e il tempo in divenire di un eterno presente si arresta e attende di fronte al miracolo della quiete naturale ritrovata.
Un bambino dorme in Mali avvolto sulla spiaggia e cullato dalle onde di una bassa marea lentamente avanzante , avvolto e cullato quasi da un lenzuolo intessuto sulle acque che lo avviluppano come una grande foglia nel palmo di una mano. Una natura primordiale e matrigna qui pare ancora accoglierlo, lui parte di quella unità totalizzante.  .
Si dorme trovando quiete, una donna in un luogo di detenzione su una panca di legno intagliata da scanalature di acciaio opache. Si dorme ancora sulla panchina di un parco a New York per un ragazzo nero della strada trovando qui per un attimo pace dallo stridore e frastuono di un intollerabile al di fuori. Si dorme sui sedili delle metropolitane o dei parchi, nelle stazioni, nei luoghi meno avvenenti in Scianna, nei margini di abbandono, a lato degli spazi pubblici mondani contro la ricchezza  platealmente  esposta di un capitalismo che esilia e marginalizza gli individui rimasti esterni all’ingranaggio del sistema. Oppure si dorme sulle rive del mare in Malì abbracciati alla forza primordiale di una natura benigna in continuità con il vivente, distaccati dal tumulto invadente del mondo altro, esterno all'inquadratura. La fotografia, allora, salva istanti di vita nel momento stesso in cui li arresta, li fissa e li immobilizza in immagini che portano in sé ciò che non è più come scriveva Barthes: il divenire di uno sguardo, un volto o l’apparire di un evento in un istante unico e irripetibile, l'immagine offerta al mondo in luogo di una reale sparizione del soggetto.

                 
I luoghi


“Ho sempre pensato che faccio fotografie perché il mondo è là…questi luoghi non mi sembra di averli cercati, li ho incontrati vivendo, poi ho scelto tra le fotografie realizzate alcune in cui riconoscermi”.

Riconoscere quasi, intuitivamente qualcosa dei luoghi, scorci che lo connettono alla sorgente dell’immagine e della memoria, in qualche modo del fare fotografia per Scianna. Il camminare è parte integrante del lavoro del fotografo, cioè il vagare attraverso i luoghi e le cose cercando momenti significativi per cogliere “ il sentimento che il mondo, la vita in quel momento ci offre ."

Viaggiare, camminare, percorrere a piedi, perdersi e ritornare sui propri passi; la ricerca non è mai semplicemente documentaria ma ontologica, esistenziale in questo ossessivo, insensato e necessario vagare.
Come afferma Scianna: “ogni viaggio è sempre anche un viaggio spirituale  se andando altrove si viaggia anche dentro sé stessi”.

I luoghi parlano di identità, posseggono la tacita consapevolezza d’essere insieme viventi e abitati, propagano il  sentore delle persone, degli eventi che li attraversano, qualche volta l’afflato disperante di una scena di morte o distruzione. Così vediamo il volto di un giovane boliviano dagli occhi e capelli corvini con addosso un cappello e una giacca nera ai margini della foto contro il miraggio dall’altra parte della strada di una vetrina con tv, stereo, manichini e oggetti della cultura consumistica occidentale. 
E' l’immagine di un bambino morente in Etiopia stretto al seno della madre sullo sfondo di un campo profughi durante l’emergenza umanitaria della carestia etiope dell’1984.

Uno scenario da sogno in un elegante giardino parigino è visto attraverso lo schermo distanziante di una finestra , come si trattasse di un sogno guardato attraverso le linee nere degli infissi che separano e filtrano l’immagine proiettandola in una dimensione surreale e psicanalitica. La giovane coppia elegantemente abbigliata in bianco è vista abbracciarsi, stingersi  intrappolata nello specchio al di là del nostro sguardo. Ancora Milano appare avvolta nella nebbia, e un tracciato di tram è inciso a terra sulla distesa bianca e incontaminata dopo una nevicata imminente. 



Valencia è l’abbraccio appassionato e clandestino, la stretta sensuale di due giovani amanti contro  un muro scrostato, trasudante di scritte in vernice contro le inferriate della cella di una prigione o un vecchio edificio di reclusione . Infine New York appare nell’immagine emblematica dall’interno di un fast-food frequentato dai  neri d’America in primissimo piano. Al suono tintinnante di un banco di fronte a un cassiere  un uomo nero ordina hot dogs e un altro se ne sta seduto, espanso e magnificente nella sua carnalità, obeso e inerte dall’altra parte del tavolo, sazio e impassibile di fronte a un piatto vuoto.





“Se parli della vita, la vita ti regalerà le fotografie”

“La fotografia contro l’indeterminato del flusso mediatico” rappresenta per Scianna l’arresto, il punto nodale, la presa di posizione critica e poetica, l’interrogarsi e insieme la scelta, anche se mai completamente consapevole su quello che la realtà offre o espone ai suoi occhi al momento dello scatto.

 “Prima viene il tuo rapporto con la vita, poi la fotografia: ciò che ti parla, ti preme, ti indigna o ti fa reagire, ciò che tu come artista vuoi raccontare. Usi la fotografia per dirlo perché se parti dalla vita e non dalla forma la vita ti regalerà le più belle fotografie”.

 Sono immagini trovate o ritrovate secondo Scianna e non costruite, scoperte vagando attraverso gli oggetti o gli eventi del quotidiano oppure che risvegliano in lui, come in noi spettatori, una qualche intrinseca memoria, antica, forse a noi stessi a priori inconoscibile. Le stesse hanno il potere di raccontare una storia attraverso un istante fissato sulla pellicola come una “verità delle immagini uscita per invadere il mondo” al di là della volontà del singolo di manipolarla o arrestarla_ quello che Cartier-Bresson chiamava l’istante decisivo. 



Egitto, (1989)

Nata come foto di moda l’immagine esula dai limiti del mandato commerciale e coglie nell'istante stesso dello scatto la quintessenza di un moto verso la vita.Traspare immediatamente l’ebrezza leggera della libertà nella corsa della donna attraverso l’arido deserto, nel gioco e nelle risa dei bambini sullo sfondo. L’insostenibile leggerezza dell’essere al centro della fotografia, essa in primis arte dell’istante, dell’effimero e del transitorio fissato come impronta di luce sulla pellicola in negativo: istantanea traccia sul fluire indeterminato del vivente.   

La giovane donna  in tayeur bianco aperto a v avanza nella corsa in sospensione aerea quasi sollevando i piedi calzati da saldali e a metà immersi  ancora nella sabbia del deserto egiziano.  Nel salto gioioso e leggero celebra la bellezza dell’istante sradicando i piedi dalle sabbie immote del deserto accompagnata dalla grazia di questi bambini egiziani forse del vicino villaggio. Il movimento traspare sullo sfondo del deserto, delle rocce e dei rilievi,  contro il villaggio visto a distanza, sulla povertà che trapela tra le linee, sullo sfondo  dei promontori, delle case di terra dissecata e della sabbia arida del deserto. 





[i] Tutte le citazioni sono tratte dal catalogo della mostra, “Ferdinando Scianna, viaggio, racconto, memoria” a cura dei Musei  San Domenico di Forlì, 2018.