lunedì 17 marzo 2014

Giorgio Morandi, Tony Cragg e Rachel Whiteread: dalla poetica dell’oggetto alla sua dissolvenza (al Mambo di Bologna)







Giorgio Morandi, “Natura morta”, 1964

Sono una bottiglia, il volume rettangolare d’ un oggetto simile a scatola  squadrata e una piccola sfera li’ in primo piano d’avanti a quelli nella composizione mentre lunghe ombre cromaticamente si distendono a partire dagli oggetti come presenze velate e oscuranti su una superficie orizzontale incrociando perpendicolarmente l’ altra della parete retrostante. Arrivano a noi come una sostanza cromatica pura, in una pasta di colore opacamente, densamente distesa attraverso tonalità in gradazione tenue dal beige al grigio. 

Gli oggetti compaiono, si auto-rappresentano, arrivano a noi in primo piano come fossero in un’azione performativa,  auto-referenziale di loro stessi, quasi fossero una presenza colta da uno sguardo distante, impersonale, anonimo, e, insieme, assorbiti, catturati in parte da quel denso substrato pittorico; nella continuità cromatica, per esempio, che lega il fondale beige all’oggetto-bottiglia affusolato dai contorni smussati come fosse mosso da liquidi interni o attraversato da correnti d’aria che ne rendono la linea morbida, la pennellata mossa, fluida .

 Gli oggetti appaiono così nell’ultima natura morta di Giorgio Morandi nel 1964 prima della sua scomparsa, giungono a noi come lascito e via aperta alla sperimentazione plastica più recente nel loro questionamento dell’oggetto quale valore plastico e insieme dei limiti e delle possibilità dell’esperienza pittorica ad esso sottesa. 
Assorbiti e catturati, diluiti e irretiti, in dissolvenza nelle linee morbide dei contorni, nelle sagome sfumate e tuttavia ancora imprescindibili come forme certe e primarie di realtà, essi fondano una poetica che non prescinde o non giunge mai a lasciare il piano dell’oggettualità per spingersi nel puro magma materico e, ugualmente, tuttavia non resta mai come pura e astratta, sterile esperienza formale. 

E’ probabilmente quella tensione che lega lo sguardo del pittore all’oggetto nella distanza, nella messa in rilievo, nella sua osservazione costante e nell’interna visione del medesimo, in seguito, combinando i vari elementi in composizione libera sulla superficie piana seguendoli come attraverso una mappa di spostamenti, di ripetizioni, di montaggi possibili da una tela all’altra. 
Opaco, intransitivo, anonimo come lo sono questi volumi_ parallelepipedi, scatole, bottiglie o caraffe_ l’oggetto resta al centro del lavoro morandiano, fulcro e instancabile ossessione di un laboratorio visivo che non smette di analizzarlo e comporlo in paesaggi immobili: essenziale rigore e riduzione del dato realista,   pura forma geometrica, nell’ ultimo periodo dileguata attraverso la luce e il colore.
 Testimone e insieme presenza disinvestita d’ogni soggettività, esso è immerso nel puro gioco delle variazioni cromatiche o tonali, solitario ergendosi tuttavia al centro della scena, fatto vivere attraverso un’azione pittorica che nel gesto del dipingere lo concretizza come presenza viva, performativa nello spazio.

Come scrive Roberto Pasini a proposito dell’ultima fase della pittura morandiana denominata un “costruire dissolvendo[1]” : “l’immagine è vaporosa, al posto della forma c’è la nuance. Morandi interpone tra sé e il mondo infiniti veli, traduce l’oggetto in dissolvenza dopo averlo a lungo tenuto nel processo. Le forme cedono a una loro sostanza interna, si diluiscono in un umore che trova ancora la forza di arginarsi in un contorno ma vibra nel palpito dell’immagine come le scaglie impazzite, micro-erose, sparpagliate sulla tela dell’ultimo Cezanne.”

Solitari nell’assenza appaiono come sorte di simulacri d’oggetti reali, calchi di presenze svaporate o eluse, sebbene definiti ancora da un contorno, in un’apparente oggettività, in una forma di figurazione; restano, tuttavia, solo il pretesto d’una pittura realista ergendosi nel vuoto quasi metafisico dello spazio in cui sono immersi, interrogando la soglia del visibile, i limiti di realtà, l’essere e il luogo della pittura stessa come di un'altra esperienza del figuabile. Semplificati, appaiono tendere a forme essenziali e geometriche_ bottiglie, scatole, caraffe o altro_ ricondotte a volumi e parallelepipedi, sfere seppure ancor riconoscibili come provenienti da un lontano reale, e qui, allo stesso tempo attraversati da questa sorta di vibrazione interna che  rende la loro forma liquida attraverso il colore e la luce. 
Nelle ultime tele quella luce di provenienza interna all’oggetto coeso con il fondo, è, nella sua emanazione, un mezzo quasi di liquidare il medesimo in uno smussamento o dissolvenza parziale dei suoi contorni, anche se in maniera appena accennata.

 Dunque, se tale paesaggio , sulla scia di Cezanne, nasce dallo sforzo morandiano di isolare l’oggetto, di porlo là al centro d’una scena vuota, di sintetizzarlo, interrogarlo, vederlo nella sua piena volumetria, di erigerlo come valore plastico in sé  nella sintesi tra visione retinica e idealità plastica, di mostrarlo infine nel suo quid essenziale , esso appare tuttavia derivare in questa versione in una decostruzione del medesimo: il costruire sfocia nel decostruire, l’oggetto come presenza piena giunge alla sua erosione o vaporizzazione parziale mentre sono le ombre ad assumere consistenza corporea sulla tela. La luce diffusa, quasi endogena alle forme si pone in osmosi con il fondo, il colore dato per minuscoli pigmenti  genera una micro-erosione dei contorni degli oggetti, infine l’emanazione dei medesimi come presenze energetiche o performative resta fissata nella loro ultima, finale solitudine sulla tela.  




Tony Cragg, “Eroded landscape”


Bicchieri, bottiglie, vasi trascendono le loro relazioni funzionali di cose nello spazio per situarsi un una relazione immaginaria o emozionale al medesimo, per darsi in un’accumulazione sottile quanto studiata, in un incastro complesso quanto precario, in un fragile equilibrio di parti in sospensione aerea nell’installazione. Bottiglie, vasi o contenitori in vetro opaco sono appoggiati su lastre-supporti trasparenti dall’apparenza traslucida, ricoperta, vagamente riflettente come impilandosi un piano dopo l’altro nel tempo.

 Nel delicato gioco di equilibri l’installazione imponente, maestosa si erge al centro della sala in un cumulo di oggetti vari, trovati, perduti, li’ capitati per caso, in  una genealogia di strati su strati senza fine cumulatesi come cose su cose, ergendosi un piano dopo l’altro al passare dei giorni, degli anni, delle contingenze, delle forme e dei momenti del vivente.  Sempre più  portate da un moto sublime verso l’alto per divenire eteree, evanescenti o della consistenza stessa del sogno, in una spinta dinamica a partire dalla materia della scultura.
 Come afferma Cragg: “ sono un assoluto materialista, per me la materia è esaltante e sublime. Quando sono coinvolto nel processo scultoreo cerco un sistema di valori o di etica dentro materiali. Voglio che la materia abbia una dinamica, una spinta, che si muova e cresca da dentro la medesima.”
 




“Il paesaggio in erosione” di Gragg appare come una ri-elaborazione contemporanea del paesaggio immobile di Morandi, una messa in vita, un portare alla piena dimensione spaziale, tridimensionale e plastica la precedente pittura senza ispirarsene tuttavia direttamente. L’installazione si erge, chiede e prende spazio, si vuole come esubero, accumulazione di cose, il troppo pieno delle nostre vite, qui cose accatastate, sapientemente incastonate o appoggiate l’una all’altra, alcune volutamente rovesciate, altre incrinate, leggermente intaccate o corrose nell’apparenza opaca della materia. 

Il vetro sabbiato o ricoperto si rende impermeabile, traslucido, scivoloso schermo che non lascia passare il nostro sguardo; ugualmente le lastre di vetro-cemento di ergono su sei o più piani in studiatissimo incastro, in millimetrico equilibrio per dare vita a questo “paesaggio eroso”, persistente nelle forme del reale eppure estraneo, distante, circondato dalle ombre allungate delle tele circostanti del pittore bolognese cui pure pare tacitamente dialogare. 

Come la pittura di Morandi l’installazione erosa di Cragg si espande nella stessa dinamica di rigore e epurazione di forme tendenti all’essenziale, d’un effimero apparire dalle medesime, d’un distacco dalla realtà cui pure ancora appartengono che tende a svuotare quegli oggetti, a renderli eterei, pretesti o apparizioni, a renderli lasciti di reali presenze, frammenti plastici svaporati verso l’alto.    
Rachel Whiteread al museo Morandi




 



I paesaggi morandiani o i suoi studi sulle nature morte riecheggiano sotto forma di installazioni nello spazio nel lavoro di Rachel Whiteread, attraverso un linguaggio essenziale, minimalista, assolutamente epurato d’ogni commento o intrusione direttamente emozionale lasciando il compito di parlare alle cose o meglio, in questo caso, alle loro impronte in negativo. Si parte da oggetti comuni, quotidiani come rotoli di carta igienica, lattine di coca cola o partaceneri i cui interni solitamente non visibili, sono qui materializzati  da calchi di gesso liquidi colati entro forme vuote e poi lasciati solidificare come vere e proprie sculture togliendo via infine l’involucro esterno dell’oggetto. Allo stesso modo sono i calchi degli spazi non abitati, scorti sotto i mobili, negli interni degli armadi, nei vani delle stanze, nei vuoti delle case, lo spazio dato come rovesciamento del tangibile, dell’abitabile, d’ogni cumulazione di presenza.
In “Hoard”(cumolo) ispirata al lavoro di Morandi sono calchi in gesso di libri, scatole impilate in un mobile-libreria aperto come tanti piccoli volumi, parallelepipedi, forme cubiche, calchi d’oggetti anonimi che divengono presenze scultoree in sé, forme astratte essenzialmente date nell’opacità dei toni cromatici freddi dal beige, al bianco al grigio. I parallelepipedi essenziali, le scatole monocrome, le strutture svuotate dei libri rifatte in gesso compatto e collocate sugli scaffali ci riportano a queste impronte negative di presenza, a  questi rovesciamenti dei foderi o degli involucri dall’interno all’esterno, a queste tracce emerse come modo di trasporre il vuoto dentro e intorno alle cose in pieno, da una parte liquidando il reale referente plastico di realtà, dall’altra rendendo visibile o meglio interrogando l’esperienza pittorica, il sostrato che sottende al medesimo e precede la nozione di figura, la soglia o  il negativo dell’idea di rappresentazione.
Dunque sculture in negativo, calchi o interni di cose e spazi resi sculture, concrezioni plastiche nate a partire dal vuoto dell’oggetto. In altri collage su carta  Whithread apre gli oggetti e li mostra bidimensionalmente come se decostruisse la reale forma d’una scatola di cartone mostrandola al



suo interno in foglio di carta traslucida- carta sottile e ripiegabile e simile a quella utilizzata negli origami giapponesi- riflettente e argentea, e pezzi di celluloide incollati insieme ad essa, incorniciati a grafite da matita. Quasi che, le sue reali dimensioni, il suo volume esteso nello spazio fossero stati riassorbiti, ricondotti a mero contorno, intelaiatura appiattita incollata su foglio di carta bianca da parati, distesa nelle due sole dimensioni e, tuttavia, a noi mostrando il risvolto interno, l’impronta in negativo dell’oggetto ormai scomparso nella sua reale presenza.  





In altri disegni è la struttura nuda degli oggetti visti su misura millimetrica, guardati come attraverso una lente di ingrandimento, studiati, messi sotto esame, geometricamente amplificati e misurati attraverso acquarelli e inchiostro su riquadri di carta millimetrata. In “studio per una stanza” del 1993 l’edificio è visto come un parallelepipedo, scheletro vuoto, forma puramente geometrica  d’una casa  tridimensionalmente data nella sua ossatura primaria come struttura senza tetto dalle pareti aperte con riquadri o varchi geometrici al posto di porte e finestre.

 Casa, parallelepipedo svuotato, finestre, porte, varchi vuoti e aperti, passaggi, spazi di transito ma senza umanità alcuna quanto resi totalmente all’astrazione formale del disegno; la sua struttura aperta lasciandoci intravvedere il rovescio della facciata trasmette tuttavia, il senso d’una perdita, d’una espropriazione, d’un rovesciamento come dall’interno all’esterno delle sue pareti.
 Ci sono varchi aperti in uno spazio circoscritto da una forma geometrica tuttavia delimitata, iscritta sul piano di una carta millimetrica e astratta senza altro commento, altra intrusione possibile all’oggetto se non il lasciar parlare la sua traccia primaria, la sua archi-struttura che sottenderebbe alla casa-scultura finita e riconoscibile, umanizzata e reale; dileguata qui lasciando al suo posto solo passaggi aperti al sostrato del visibile.


“Clouds” (2010) sono piccoli buchi di forbici sulla carta da disegno, forme svuotate, ritagliate e intagliate, il profilo decostruito d’un edificio o castello su un cielo grigio  a tempera nebbioso, vaporizzato e denso, su questa terra fatta di reti e fori, di  intagli e ritagli di oggetti vuoti, di volumi svaporati e pellicole-ragnatela dense ricoprendo in un reticolo  intermittente il profilo d’una città scomparsa. Là, visibile solo attraverso maglie della rete nel suo intaglio in negativo sulla carta.








[1] Roberto Pasini, Morandi, Clueb, Bologna, p. 141