venerdì 17 marzo 2017

“LA LINEA DI PIOMBO” , JONAS BURGERT ( al Mambo di Bologna)









Sono scenari teatrali, rappresentazioni di quello che Burgert  considera la drammaturgia dell’esistenza umana nell’inesausta necessità di porre la questione sul “ senso”, poi nel dare forma e corpo al proprio universo poetico e personale. Tele di sorprendenti dimensioni e d’una complessa tessitura visiva  appaiono sulle pareti dalla hall centrale dello spazio espositivo bolognese affollate di figure fantastiche , umane o meno, d’un mondo insieme onirico e inquietante, straripante di presenze nello “scandagliodipendenza”, Lotsucht, dell’artista berlinese attualmente in mostra al Mambo di Bologna.

“Scandagliodipendenza”, come titola l'originale “the plumb line”, sarebbe quella “linea di piombo” insondabile e sottile di realtà o limite ultimo di percezione sotto la quale  l’artista è chiamato a discendere nel tentativo di esplorare, mettere in luce, dare una forma poetica e insieme una “messa in spazio” visiva,  esuberante e barocca nello stile di Burgert, al groviglio emozionale di un’esistenza guardata alla lente magnificante di un microscopio interiore o al filtro espansivo della propria mente. La sua pittura lavora a tale livello simbolico, immaginativo, subcosciente e onirico insieme, ai margini o ai lati oscuri della realtà manifesta dando forma e spazio, in primo luogo, a ciò che si nasconde dietro la rappresentazione o superficie apparente della medesima. 

Paesaggi allegorici, scenari apocalittici da fine del mondo, figure fantastiche di diversa natura o provenienza come creature quasi umane, sciamani, arlecchini, demoni o amazzoni popolano le sue tele.  In altri casi sono i ritratti dei volti visti a distanza ravvicinata oppure le figure femminili simili a incantatrici, muse o baccanti nelle varie rappresentazioni che rimandano all'archetipo femminile della “grande madre” nel duplice aspetto di generazione e degenerazione, procreazione e distruzione.  Allo stesso modo le pareti si squarciano lasciando intravvedere cumuli di corpi tra le macerie di un mondo alla deriva, varchi o buchi improvvisi si aprono al suolo ai quali si affacciano in sordina i personaggi per scrutare quello che si nasconde nel sottosuolo, oppure demoni, prendono corpo ma anche figure del sogno, infine volti femminili simili a divinità d’una straordinaria bellezza. 

E, ancora, paure ancestrali prendono forma attraverso  scenari distopici da fine del mondo, oppure composizioni teatrali sapientemente costruite emergono nella brillantezza dei colori manieristi e dell’esubero barocco delle forme, là dove si affaccia incombente a tratti un’oscurità minacciante. Nei ritratti in primo piano di Burgert il gioco si esplica tra il gesto del nascondere e quello del rivelare, tra il celare o  letteralmente sommergere parti del volto o della figura sotto cumuli di altri corpi, oggetti o macerie e, dall'altra parte, paradossalmente di mettere a nudo  il centro di gravità d’uno sguardo, d’un emozione o uno stato d’ essere catturato attraverso un complesso scenario .


 


Stück Hirn ( pezzo di cervello)


Il dipinto si apre come una visione, un sogno di colori ad olio; grottesche, figure surreali prendono forma attraverso la colorazione dominante di un rosso oleoso a colante a macchia come un fulcro figurativo dal centro della tela.  Un universo onirico, grottesco di elementi si dipana come tutta la pittura di Burgert da tale nucleo generativo, macchia carminio da cui si aprono a raggiera il giallo, l’ocra e l’arancio in sprazzi di colore oleoso gettato per guazzi ovunque contro la parete. Là, piccoli riquadri di volti o maschere appaiono come tante scatole cinesi del sogno o dell’incubo: immagini o simboli di un mondo parallelo dall'inconscio riaffiorano alla mente come sulla superficie della tela rimandandoci a tutto un filone dell’arte  fiamminga popolata da creature fantastiche e mostruose da Bosch a Brughel.

 La figura grottesca di un giovane al centro della scena domina _giallo, ocra e grigio la sua veste puntigliata di colore_ nelle mani legato, impedito ad ogni altro gesto se non a prolungarsi in tali arpioni uncinati in ferro divenuti spatole di pittura, braccia artificialmente aggiunte agli arti impediti. Esse solo paiono potersi ricongiungere ed afferrare i ritratti nelle singole scene o gli altri simboli dispersi sulla tela, quasi Burgert volesse ricomprendere tutti gli elementi d’una drammaturgia perfetta quanto solo accennata dentro uno scenario teatrale al cui centro resta  l’individuo. 

Lui, specchio deformante di sé stesso nel tentativo costante di definirsi rispetto al proprio centro di gravità.



Ihr shon (Suo belmondo)



Un’accumulazione di figure dentro uno scenario onirico da fine del mondo 

l’immagine d’una nave naufragata e di una massa di corpi, detriti, tessuti, colori, oggetti, pensieri, demoni e entità alla deriva vanno a fluttuare, riempire e saturare la mente come lo spazio artificialmente ricostruito sulla tela.  Un accumulo di figure alla deriva affolla nella duplicazione, nell’esasperazione di presenza come si sprofondasse nella densità d’una mente saturata, occlusa da mille presenze fluttuanti di energia ed emozione.

 Quel mondo esploso e deflagrato letteralmente nell’immaginazione appare rivoltato dall’interno all’esterno, scavato nei più piccoli risvolti, nelle pieghe, sui margini della psiche o dell’animo umano, nelle emozioni come nei sogni o negli incubi che d’esse si nutrono. Al centro una sola figura si staglia netta oltre la “linea di piombo” nello scandaglio visivo messo in atto dall’artista: nitida e perfettamente delineata rispetto alle altre.

 L’abito zebrato e lungo, il volto fisso e chiaro di fronte all'obbiettivo, l’intensità dello sguardo è puntato di fronte a noi contro la massa dei corpi mutilati, le presenze ingombranti e confuse che si dissimulano sullo sfondo. Tanto la follia, la distruzione, il disordine caotico di quel fondale quanto la visione netta, chiara, nitida e in rilievo della donna del sogno al centro della scena: animale singolare e zebrato portato in primo piano e messo a fuoco rispetto al resto della savana.

Luft nach schlag ( un bambino che osserva)


E’ un bambinetto qualunque, piccolo e insignificante rivestito della seriosità d’ un tailleur grigio fumo su cui  si staglia unico punto di colore, il rosso d’una cravatta brillante in contrappunto. Il corpo è ristretto, ridotto quasi nelle dimensioni come fosse quello d’un individuo rimpicciolito, la bocca è barrata al parlare da rigature cineree volute. Se ne sta immobile in alto sul muricciolo di un edificio ad osservare un mondo in rovina disfacendosi ai suoi piedi. Su un piedistallo guarda le forme e gli oggetti in disfacimento sotto di lui, i muri colanti di olii e vernici, le macchie e i graffiti lacerati sulle pareti, le scalinate che conducono in basso infine i blocchi di cemento  anonimi quasi in lontananza. 

Sprofondiamo insieme   a lui in un inferno di visione dalle dimensioni immense che si estense in orizzontale su tutta la lunghezza della parete della sala. Una serie oggetti simbolici ne scandiscono lo spazio: un tiro al bersaglio, un pagliaccio, un crocefisso, una maschera, una catena, campane  e fantocci appessi. 
Tutto contribuisce a dare questa visione di un sottomondo degli inferi moderni dominato dalla solitudine essenziale dell’individuo quanto da una raggelante percezione o presa di consapevolezza della realtà muta, oscurante e senza risposte che lo circonda.

Vertrauter

Sono recipienti straripanti fino all’orlo di colore, paste semiliquide fosforescenti e oleose come si rovesciasse da un’anfora una colata di tenue vernice o di latte bianchissimo appena munto. In una stanza nuda, nell’angolo chiuso al fondo da due pareti un indigeno con un copricapo ricoperto di piume, uno sciamano e insieme l’alter ego dell’artista se ne sta immerso in questo universo di colore: un angolo ritagliato sul muro spoglio e denudato d’ogni altra presenza.

 Aranci, rossi polposi o bianchi candidi, blu cobalto al suolo, gialli oleosi a metà rovesciati o dispersi in macchie irregolari, o ancora liquidi straripanti dalle anfore stracolme. Sono colori sentiti come recipienti vivi, paste oleose fatte di materia e sensazione, il gusto e il piacere quasi del maneggiarli come se l’artista e lo sciamano insieme fosse lì sul punto di attendere il momento insperato dell’alchimia: la trasmutazione della materia grezza nell’ oro della creazione. Tale la metamorfosi insperata della pittura. 

Come afferma Burgert: “sulla tela tento di esasperare i colori trascinandoli all’estremo” fino a quando divengono  esacerbati nel contrasto, velenosi quasi allo sguardo. Alcuni appaiono talmente estremi da diventare fastidiosi a vedersi. Ma è voluto: “i colori per me sono importanti in modo vitale, quasi fantastici.”




“Gifter” e “Onne Title” (Padre e figlio)



 “Mi sembra che noi esseri umani riconosciamo noi stessi senza veramente riuscire a comprenderci, la qual cosa porta a un esito grottesco: la battaglia dell’uomo con la sua propria immagine a specchio, o meglio la lotta per definire sé stesso. (..) Così nella nostra mente creiamo narrative individuali di noi stessi, esistiamo ora come divinità, eroi o pagliacci, con sfumature ciniche, grevi e disincantate, ora lucide e appassionanti in ambientazioni artificiali e strane.”


Se ne sta dritto in piedi, sobrio, rustico, solido e semplice. Dalla parvenza popolare, indossa una veste da artigiano usurata, pantaloni e scarpe da lavoro, un corpetto liso sotto il camice lungo fino ai piedi d’un verde fluorescente già in qualche tratto sbiadito. Si staglia netto nel contrasto con il monocromo del fondo, alle spalle una parete blu oltremare. Rustico, sobrio, auto-soddisfacendosi della propria esistenza nella giovialità d’essere, nella pienezza del momento appare accaparrarsi il proprio presente senza ripensamenti. Gioviale, sazio, si mostra con il volto florido, appesantito dagli anni, la punta del naso ridipinta con fare clownesco in nero, lo sguardo sfugge a quello degli spettatori, gli occhi socchiusi e il volto sono ripresi a distanza mentre la figura intera è posta su un piedistallo distanziante non senza ironia.





E' seduto e nascosto al di sotto del busto da un tavolo-parapetto in primo piano che funge da barriera al suo corpo; ne emergono le mani e il volto assente, malinconico in primo piano a distanza ravvicinata, poi le tenui, pallide striature ampie in un verde grigio cianurico e opprimente sulla pelle. Lui, lieve e argenteo è tanto in assenza quanto l’altro in presenza, tanto sbarrato o precluso al nostro sguardo quanto l’altro in piedi, esposto e messo a nudo su un piedistallo. L’uno condensa  tacita intensità  sull’enigma del volto in primo piano, giovane seppur prosciugato di ogni linfa vitale; l’altro espanso si riempie di saturante presenza nella quasi ritrazione dalla propria incombente vecchiaia. Come due opposti complementari i due ritratti si delineano l’uno accanto all’altro sulla parete, l'uno nostalgico quanto l’altro gioviale nel paradosso assurdo delle loro età rovesciate. Come due linee parallele  avanzano ognuna sul proprio cammino senza mai ricongiungersi se non nel tentativo per assurdo dell'artista di creare un dialogo, là discendendo nel groviglio emozionale delle loro vite.
  





Falle, (la trappola)

Rivestito dei panni del destino, piccolo combattente al centro della scena, gioca a scacchi con la vita su di lui impressa come l’abito a scacchiera aderente alla sua prima pelle.

 Le braccia alate si prolungano in rami come armi di difesa incorporate, ali di scintillanti arbusti a fascio lo accompagnano prolungandosi a diagonale nelle opposte direzioni. Intensamente presente in primo piano, vivido, guardingo si muove al centro della scena. 

Un bimbetto laggiù si imbratta di vernici verdi smeraldo, forse in un antro dell’infanzia riaperto o dentro un’immagine onirica, subcosciente affacciandosi alla sua mente.

Figure spaventose, selvagge o semi-mostruose si 
ripresentano in primo piano: una scimmia, un manichino, il becco immenso di una creatura fantastica mentre lo spazio prende vita teatralmente e un tamburello si stacca da un chiodo, un braccio irrompe da una parete, la testa e gli arti di un manichino pendono su uno sfondo di vernice eclettica e fosforescente.      














RITRATTI 



E’ maschera bianca madreperlacea, un volto di grande delicatezza e splendore attraverso un velo di bianca pittura a olio. 
Bianchezza della mente, dello spirito e della forma in essa riflessa, candore dell’inaspettato suo apparire, lo sguardo si rivela sotto una coltre tenue e velata, ingannevole nebbia di rose e petali fioriti. 
Occhi scintillanti ci fissano attraverso quella cortina simulata di splendore.





“Spring essence”: tempo di primavera, l'idea di rinascita, un tripudio di colori estivi “esplosi" in petali, foglie, o coriandoli colorati che dal corpo discendono lungo le spalle e poi attraverso le braccia, lungo il busto fino a dissimulare la figura, confonderla e insieme magnificarla della sua aurea acquorea.

La limpidezza d’uno sguardo messianico, nuovo e immanente di presenza in primo piano in “Halfte Schlafe”. Argenteo e cristallino, il giovane volto fissa lo spettatore dritto di fronte a sé, profetico e voyant nella sua ricerca di illuminazione, spingendosi molto più lontano oltre la “linea di piombo del presente”, oltre il grigiore denso di quella realtà che come il lungo mantello gli avvolge la figura precludendo a noi ogni altra vista. 
Strisce rosso rubino a incorniciargli  il volto. 

Il sé è cancellato in “Scheucht” da macchie di colore e dense pennellate che disfano il volto in coaguli di pasta e vernici distese per masse e colpi di spatola . Aranci, rossi carmini , verdi e ocra manifesti si trasformano in una pioggia di colori come tanta chiazze vivide al posto del volto scomparso.

GRANDI RITRATTI 






 Laubt sich ( "il permesso di")




E' avvolta in un abbraccio di indaco e rosa, di bianco e lilla, un abbraccio di rami fioriti rossicci e primaverili. Come nel titolo, "il permesso di" vestirsi di colori vivi e abbracciare questi rami espansi in bacche rosse e frutti sbocciati come si abbracciasse la vita dopo una lunga pausa d'assenza , un lungo sonno letargico nella terra invernale. 
Il permesso di stringersi addosso quei rami fioriti, di lasciarsene avvolgere, imbrattare e  adagiarsi nel loro rifugio di rose e di spine, di bacche e macchie colorate irradianti di rosso il volto e le labbra. 

Il permesso di diffondere e far rispendere intorno a sé quell'antro di pioggia e di cespugli germogliati. Macchie e pennellate di colore, bacche rossicce e purpuree cadono a macchia e punteggiano l'abito bianco casuale e atono, fino alle calze gialle sul grigiore del fondo. Avvolgono e stringono il busto completamente in un letto di rovi rossi e fioriti, di rose e di spine per delicatamente lasciarsi portare nell'abbraccio.

Winden (il vento)





























Sono creature del sogno quasi, amazzoni o altre divinità dei boschi e delle selve, in una prima versione avvolte da corde bianche, in un’altra, da fasci aranci che come vento srotolano via dal corpo dissolvente al suolo . Disfano la figura avvolta ai loro piedi come fosse vento, come un nastro che srotolando fosse portato lontano dalle correnti. 

Il corpo di verde vernice fosforescente a poco a poco si eleva come spirale di fumo in aria, la testa già in parte svaporata, scomparsa. 
Il vento se la porta, la figura a spirale aerea tende a dissolvere mentre i nastri srotolano a poco a poco fino a  serrare le due creature gemellate, stingendole l'una all'altra e poi ai loro piedi nell'impossibilità di districarsi. 

Groviglio, “Lotsucht”rivestito di  fluorescente, vivido  arancio.



















Feinshaft, (fini legami)


Nastri rosso rubino serrano a spirale agli abiti, inevitabilmente legano e arrestano, indissolubilmente annodano e proteggono, tengono insieme ma anche imprigionano la forma speculare delle due figure.

Madre e figlio o figlia si direbbe  dall'aspetto : la prima dalle proporzioni maggiori rispetto all'altra, occhi aperti nella piccola, occhi chiusi nella grande. Nascondono, dissimulano e rivelano parte del corpo, parte del volto.  Sono in fusione, in continuità in legame anche visivamente delineato là dove uno stesso nastro ricongiunge una all'altra avvolgendosi a spirale attraverso le braccia e il busto per lasciarsi cadere al suolo. 

Lega in “scandagliodipendenza” i corpi, e li rende  entrambi prigionieri, arrestati dentro quella gabbia di rossi filamenti. Purpureo cordone esistenziale cinge e unisce un'ombra gemellare all'altra e insieme soffoca, imprigiona.