sabato 23 giugno 2012

A proposito di Living Theatre e Motus, “The plot is the revolution”, Théâtre de la ville, Parigi









 “L’intenzione politica maggiore era quella di smuovere le acque stagnanti”, di provocare l’inquietudine del dubbio,  dell’interrogazione esistenziale, un’ estetica che portasse a riconsiderare l’ambiente esterno. “Leggere non soltanto il senso superficiale delle parole ma sondarne il vero significato.  A cominciare da questo: il comportamento umano é assurdo, ma, sappiamo che l’esistenza é bella, ogni cosa sacra e magnifica. O forse no, non importa. Allora possiamo gioirne con piacere, criticarla o adorarla. E’ la stessa cosa.”

“Pessimismo: tutto é dolore e sofferenza nato dall’incomprensibile vuoto di senso. I nostri migliori sforzi sono ridicoli, le nostre rivendicazioni, desideri, speranze patetici, il progresso un’illusione, l’amore uno stato effimero, l’ottimismo un falso ragionamento intellettuale[..]”
E poi c’é l’espansione della luce. Attraverso questa immagine manichea abbiamo sempre avuto la preoccupazione dell’espansione di coscienza, obbiettivo di tutti i nostri sforzi intellettuali e emozionali [..] Cerchiamo soluzioni armoniose, mezzi di vivere insieme che possano porre rimedio all’ingiustizia e alla miseria generati da sistemi precedenti. Affondiamo muri e ne troviamo altri. Affondiamo muri e ci troviamo identici a noi stessi, ancora una volta preda d’abitudini usurate, seguendo cammini che bloccano la vostra volontà ed espressione. Come far evolvere il carattere di tale realtà?
Solo l’espansione d’una coscienza luminosa può far pendere il quadrante verso un’altra direzione. Questa apertura di coscienza, arco che ti spinge, la schiena contro un muro, contro la tua oscurità muovendoti in una lentezza quasi dolorosa” (Julian Beck, Théandrique Dernières notes)






Due attrici, due donne, due generazioni a confronto dialogano sul senso possibile di un fare teatrale oggi nel confronto tra individuo e potere, tra l’ affermazione d’una libertà individuale e l’imposizione, a diversi gradi, d’ogni forma d’oppressione, di violenza, d’impostura politica o militare, sociale o personale, come formato disciplinare socialmente indotto o auto-imposto alla coscienza singola. Che cosa significa, allora, essere rivoluzionari in teatro oggi, come comprendere tale parola nel “fare” d’un atto creativo quale processo interno all’individuo e al linguaggio, prima che esterno alla società e ai suoi codici estetici oltre o contro i limiti di un testo, d’un autore, d’una tradizione?  
E’ forse per uno stato di necessità o d'appello interiore irrevocabile,  lo stesso che Antigone come figura tragica sembra incarnare nel testo ritradotto dal Living Theatre? Si parte– sembra dirci la performance vista – da un sommovimento del fare performativo, dall’essere in uno spazio, in una condivisione o messa a distanza critica dell’ esperienza, di codici condivisi in una resistenza o forzatura dei medesimi. Diventa, come nel lavoro del Living, un’affermazione non-violenta, libertaria, poetica e politica insieme del sé, dell’atto teatrale, per una visione della società  che va verso un modello più umanista e collettivo.






Judith Malina:

“Antigone rappresenta per me la resistenza, la resistenza contro tutte le nostre forme d’oppressione, non solamente le guerre, la violenza ma anche il sistema di produzione e di denaro, di consumo e di profitto in cui siamo tutti intrappolati".  
Resistenza contro i nazionalismi esacerbati, tutte le prigioni, l’esecuzione estrema delle leggi, dell'ordine disciplinare in uno stato, oppure i sistemi più sottili che agiscono a livello di controllo diffuso, organizzato, nella manipolazione e sorveglianza  mediatica degli individui inducendo colpevolezza, auto-repressione, formattazione dei loro comportamenti, dei loro corpi e delle loro anime. 
Resistenza contro uno sguardo panottico, invisibile, onnipresente del potere, generando fobie paranoiche di controllo, meccanismi di sospetto e paura dell’altro, dello straniero, dello sconosiuto, infine un’ auto-censura, 
l’auto-repressione punitiva per induzione di colpa.

“Abbiamo tutti la forma d’un educazione là dall’inizio come l’impronta d'una legge auto-assimilata”,  un alone invisibile e stringente, limitante o auto-mutilante per l’individuo, 
una sorta di dover-essere passando dentro l'impronta legittimante d'un sistema atto al livellamento del singolo in un regime sociale costituito,  
allo stesso modo del  riassorbire la discrepanza, l'anomalia, la differenza entro un modello dell' unico, o, ancora, del reprimere le energie creatrici, le forze sotterranee prime, primarie all'individuo nell’ entropia alienante di un mondo fondato sulla legge unica del profitto. 
Sono tali forze, in teatro, a essere viste nel come rivoluzionarie nel lavoro del Living se utilizzate nel senso di un superamento dello stato attuale di cose, d' una trasformazione della coscienza individuale che potrebbe infine portare a un cambiamento politico collettivo.











Immagini di Antigone dalla performance “The plot is the revolution”

“E in quanto al corpo del giovane Polinice che morì così miseramente é stato proclamato che non sia sepolto né compianto. Deve restare senza luogo di sepoltura ne tomba, dolce pasto agli avvoltoi e chiunque trasgredisca questa legge dovrà essere lapidato. Questi gli ordini del re  Creonte”.

Nel corso del dialogo tra le due attrici  viene evocata la versione di Antigone portata su scena dal Living Theatre per vent'anni in diversi paesi del mondo divenendo il simbolo in ogni luogo, nei momenti diversi della sua rappresentazione_ dalla Spagna di Franco alla primavera di sangue a Praga nel 1968_ dell'oppressione, della lotta tra individuo e potere, della lotta per la libertà, la libertà individuale, libertà che Antigone domanda per sé stessa tanto più rivoluzionaria in quanto figura di donna in un sistema dominato da leggi fatte da e per gli uomini, nel potere assoluto delle medesime, nella sovranità di un’autorità repressiva e tirannica.  Contro quelle, l’appello a un ordine divino, a leggi superiori poste al di sopra della volontà umana, qui l’obbligo di dare sepoltura al cadavere del fratello. La resistenza individuale, allora, è intesa come legittimità d’una coscienza non sottomessa ciecamente al potere che opprime l’individuo, alla legge disciplinare che schiaccia la ragione o la dignità del singolo. La versione del Living, tradotta direttamente dal greco da Judith Malina a partire dal testo di Sofocle, intendeva ritornare alle radici, al nucleo vitale della tragedia eliminando tutto il superfluo della cornice, dei costumi o delle aggiunte successive nelle varie riscritture del testo.  Improntata su un forte presenza corporea oltre alla dinamica della parola, le immagini, le azioni e i gesti performativi fanno appello direttamente all'esistenza fisica degli attori su scena, ai legami che si instaurano tra loro nel corso delle improvvisazioni, allo spazio scenico, infine all’interazione di questo con il pubblico. Rendere presente una verità su scena ponendo il limite, la costrizione come leva di superamento verso il raggiungimento d'una libertà individuale Allo stesso modo in cui parole sono unite ai corpi, é il tentativo di unire il teatro politico di Brecht con la forza e la potenza visionaria di Artaud, la riflessione, la messa a distanza critica del fare teatrale brechtiano con la  visceralità di forze e pulsioni, giocate direttamente sui corpi, propagandosi come la potenza devastante d’un'epidemia che contamina gli attori e lo spazio scenico.

La giovane attrice di Motus accompagna le parole di Judith Malina attraverso una serie d’atti performativi, l’una prestando il proprio corpo alla voce dell’altra: 
“ La mia Antigone é un' Antigone fiera, con lo sguardo alto, non urla. Quando piange ha un pianto che nasce dal corpo, un pianto fisico che parte dalle vene, dai muscoli, dalle ossa.”
La contrazione fisica del corpo a terra; il pianto é urlo, grido, spasimo silenzioso dal fondo dell'essere, da qualche parte quel grido  nascosto, inumano.
Il corpo ravvolto a terra, rivoltato in quella contrazione dolorosa, portato totalmente in esteriorità, fuori da sé, al limite della pelle. Dandosi in una presenza sacrificale su scena, si espone, si pone, s’offre compiendo questo atto d’auto-immolazione, di messa a distanza della propria interiorità e insieme messa alla prova di sé stesso per quello che può smuovere, rivoltare, sommuovere nel pubblico che riceve il suo gesto.


  




“La mia Antigone quando entra nel palazzo del potere e arriva di fronte al tavolo di Creonte appoggia le mani in questo modo e lo fissa così". E' uno sguardo potente, indignato, fiero, portato dalla determinazione della propria scelta, dalla decisione di dare sepolta al cadavere del fratello, dalla volontà di farlo, di portare a termine quel suo mandato personale oltre le leggi dello stato, della città, contro l'interdizione del potere e al prezzo della propria vita,  rifiutando l’imposizione del decreto umano per seguire una volontà divina, l’appello d’un destino a compiersi, la propria rivoluzione in quella determinazione, in quella scelta.

Antigone raccoglie polvere dalla terra per seppellire il corpo morto che il tiranno in collera ha fatto gettare agli avvoltoi e ai cani . Prende quella polvere con le mani, se ne riempe la bocca  con il suono della sua voce in una sorta di rigurgito serrato in gola, di spasimo rauco, insistente, ripetitivo. 
Ingoia quella polvere dalla terra in un crescendo disperato, di morte,  scandito da battiti, respiri che divengono scosse epilettiche fino a estrometterla, vomitarla fuori all'incontro del corpo. Lo seppellisce in quella espulsione di polvere e sangue o suono che ha generato fino al soffocamento.
Qui é l'atto di rigurgitare e estromettere qualcosa che viene gettato, buttato fuori come polvere dal corpo, in un'espulsione violenta di materia-terra o materia-suono.  Polvere ingoiata voracemente, violentemente prima,
con gesto animale, in una dismisura, in un eccesso, 
solo per accompagnare il corpo alla sua morte,
 solo per compierne le esequie e portare a compimento il rito di sepoltura. Lo trascina, se lo carica sulle spalle e lo porta fuori di peso, fuori fino a condurlo oltre la scena.  

La performance  prosegue con la parodia della disciplina militare feroce imposta dall’esercito americano ai soldati delle forze di difesa riconducendo l’individuo a una macchina disumanizzante che esegue ordini imposti dall’alto, gridando e marciando, sputando e ripetendo più forte l’ingiunzione dall’altro, imitando e rifacendo, uniformandosi, a una pratica disciplinare disumanizzante introiettata come una forma d’assoggettamento, di meccanizzazione, d’auto-imposizione alienante e violenta su sé. Malina riprende qui la parola:

“tutti noi da qualche parte abbiamo introiettato o vissuto, magari inconsapevolmente una storia d’oppressione, a partire dalla nostra infanzia, dalla nostra educazione”. Abbiamo imparato ad obbedire alle leggi dei padri, delle madri, all’autorità, delle istituzioni, delle convenzioni, delle norme sociali, delle abitudini. Antigone é presente in ciascuno di noi come il desiderio di superare uno stato di cose dove l’autorità diventa abuso di potere, la legge o l’imposizione una forma alienante per l’individuo, repressiva per la propria libertà d’essere, la norma sociale una sorta d’armatura, di gabbia soffocante contro  l’affermazione del sé.





 “Siamo in un’armatura. Comincia in una piazza. Camminiamo in una piazza, e tutto é normale”. Poi accade qualcosa, un incidente, un avvenimento di poco conto, una cosa da nulla eppure qualcosa cambia, si rompe, si spezza in quella apparente innocuità. Cominciamo a comprendere che qualcosa é sbagliato, ad avere la sensazione che qualcosa che accade lì non é giusto, in quella piazza, in quella società, ovunque nel mondo intorno a noi, e anche tra gli uomini, non possiamo respirare normalmente, infine intacca il corpo, arriva dalla testa al cuore, dai polmoni discende fino al ventre. E’ una sorta di epidemia, una peste, un malessere diffuso e illocalizzabile come una condizione sociale di cui soffriamo senza sapere.”

Una crisi di soffocamento, una crisi epilettica travolge l’attrice su scena. Il corpo é preso, invaso, intaccato, convulso al suolo si rivolta a terra come un animale braccato, ferito, senza difese, in preda a spasimi respiratori in estromissione violenta di sé, letteralmente nudo, denudato fino alla vita, esposto di fronte a chi guarda. Corpo animale, corpo della lacerazione, del grido che trapassa l’armatura dello spettatore nel suo lancito violento, nella sua ritrazione dolorosa al suolo. Movimenti del sangue in salita e discesa libera nelle vene delineandosi a vista sotto la pelle; blocco polmonare, crisi di soffocamento, qualcosa che esplode all’improvviso in una sequela di ansiti respiratori. Corpo senza organi, a buchi, a fessure, senza quasi più differenza tra interno e esterno, la profondità portata violentemente alla superficie, sulla pelle. Si da nell’atto completamente, in estromissione ultima di sé, é come morisse davvero in quel momento quel corpo, il pianto dalle ossa, nella linea ricurva delle vertebre, nella nudità della carne esposta al limite della figura.


  




Judith Malina nella conclusione:


“Adesso: la sola realtà che abbiamo, quello che siamo ora. Il passato, una finzione che ci raccontiamo, il futuro una flebile speranza; adesso, qui, insieme in questo momento, in questo luogo, su questa scena in cui si scrive qualcosa, questa é la sola realtà che abbiamo. Perché siamo andati dalla sofferenza all’estasi, ma la gioia resta qualcosa di effimero, precario, pericoloso, in pericolo di sopravvivenza. Voler volare, superare la paura e volare, 
è stato questo per noi Paradise Now”  . L’attore nella scena finale dello spettacolo respira profondamente pronto a lanciarsi, inarca la schiena, spinge le mani e le braccia avanti a sé e salta guardando verso l’alto. Il suo volo atterra tra le braccia tese sotto di lui pronte ad accoglierlo, a tenerlo, impedendogli di cadere, gli altri attori tra il pubblico ad attenderlo.

Il senso della parola ‘rivoluzione’ nella visione del Living diviene portare alla coscienza questa forma di resistenza, spirituale prima che politica, nell’apertura, nell’espansione della coscienza individuale, nella presa di consapevolezza critica di un poter insito nell’individuo che non sapeva di possedere. “Per migliaia d’anni gli si é fatto credere che non poteva. Ha dunque negato questo potere a sé stesso, l’ha rimosso come una cosa vergognosa o inesistente”. Dare all’individuo questa possibilità, fargli compiere questa rivoluzione in sé prima che nella società.
Rivoluzione: viaggio interiore e esteriore, politico e spirituale dove il cambiamento politico corrisponde a un cambiamento reale, individuale concomitante”, a uno stato di cose nel quale il singolo non é sacrificato al funzionamento del sistema di potere, ne la libertà individuale alla legge sovrana. “Non ci sarà vero teatro se non ci sarà questa forma di rivoluzione interiore” afferma Julian Beck, sollevata, indotta, auto-generata perfino sui corpi nelle loro disposizioni e uso; gesti, grida e segni corporei che vorrebbero essere il prolungamento d’una parola rimasta non-detta, indicibile forse su scena.

La rivoluzione é, infine, per Living Theatre  questo viaggio da intraprendere, interiore e nella società per uscire dalle “camicie di forza” che ci vengono imposte a qualsiasi livello d’esistenza, individuale o politico, personale o ideologico, messe addosso come uno stato di cose, esistente, immodificabile, tale l’immenso corpo malato dominato da meccanismi ciechi di potere d’un sistema a valore unico, quello della produzione e del profitto fine a sé stesso, macchina di morte perseguendo ineluttabilmente verso la propria auto-distruzione. Contro quella, voler erigere, ergere, risvegliare le vibrazioni vitali d’una visione altra, qui nello specifico attraverso il lavoro teatrale, le energie prime, creatrici, queste forze sotterranee e potenti che abitano l’individuo in quanto creatore e artista, quello che la società cerca di reprimere o alienare, di rendere inutilizzabile perché esplosivo, pericoloso, giustamente rivoluzionario se messo in movimento, in azione nel fare creativo d’una visione del mondo modificata, utopica, altra.







domenica 10 giugno 2012

"Excentrique", liberamente suggerito da Daniel Buren, Monumenta 2012, Grand Palais, Parigi






L’opera “in situ” nasce nello spazio per la quale é pensata, realizzata, qui la struttura in vetro del Grand Palais, lo assume, lo assimila ma non ne é piegata entro la sua ossatura, al contrario, se ne appropria, diventa quel luogo, lo decostrusce come sito esistente, ricevuto, storicamente dato e lo trasforma in esperienza sensibile reinscritta  nel momento presente, in tale contingenza.  
E' cio' che decostruisce lo storicamente acquisito di un luogo reinventandolo  attraverso dispositivi ottici o visivi, plastici o cinetici messi in atto dall’artista come modo di amplificare il senso e le potenzialità del nostro “ essere nello spazio”: quello architetturale, astratto e insieme quello presente, abitato, di iscrizione e posizionamento nella realtà. 

Non uno spazio di “destino” ma uno spazio di “scelta”, non uno spazio ricevuto, storicamente dato e contaminato, pre-esistente al soggetto e al suo esserci, essere là come esistente, dunque non uno spazio imposto  a lui come un limite, una gabbia percettiva, una costrizione ottica, allo stesso modo d'un esistenza presa entro i fili della sua obbligata tessitura, ma, al contrario, costruito a propria misura, impregnato d’una presenza a sé, 
ricondotto alle proprie dimensioni fisiche e interiori.

Passeggiata sensoriale: attraversiamo una foresta d' alberi fatta di colonne, supporti, o steli in acciaio sottile ripresi nel motivo ricorrente in Buren di strisce verticali alternate bianche e nere.  
Al di sopra scorgiamo sfere trasparenti e colorate, aperte, simili a trasmettitori solari per attirare la luce naturale dell' esterno, catturarne il riflesso al massimo grado contro un cielo coperto, 
illuminato da rari o fugaci lampi di luminosità, velato nel grigiore usuale delle brume parigine.

 Percorso di sfere colorate, di forme circolari trasparenti, tese simili a tele intessute, sottili e riflettenti d’una distesa di girasoli in composizione libera, ritmica nello spazio. Sono accostati come cerchi tangenti in una zona di riempimento senza mai divenire sovrapposizione, contatto, intrusione, espropriazione dell'uno all'altro. 
L' orizzontalità  taglia il volume smisurato dell’interno e se ne appropria, lo riempie e lo riduce a dimensione umana attraverso questi semplici supporti verticali tagliati in altezza a meno di tre metri dal suolo e, allo stesso tempo, lo riflette, lo rinvia attraverso molteplici filtri colorati verso l'alto là dove si ammassa la massa d'aria della struttura in vetro e cemento.

Cambiare il luogo d'entrata, definire  degli accessi laterali per arrivare al centro della cupola, all'apice dell'installazione,  significa scegliere l'estensione dello spazio in lunghezza piuttosto che l'altezza o la verticale dominante nella vetrata.
Significa ripensare lo spazio come tracciato, attraversamento, percorso che si rende necessario, conducendo forzatamente da qualche parte senza avere la nozione chiara di quale esattamente, verso un centro inevitabilmente, come nelle basiliche medievali lo spazio absitale sferico dell’altare, il fulcro dell'opera, il nucleo della struttura raggiungibile solo dopo la lunga traversata  delle navate laterali lasciate all’oscurità. 
Si procede, qui, dal pieno d'una foresta di proiezioni colorate d'alberi astratti in forme circolari geometrizzanti per ritrovarsi all'improvviso in questo vuoto centrale,  in questa zona di vertigine aperta verso l'alto e il basso insieme: 
uno spiazzo aperto, semplicemente sotto la cupola del palazzo, nel dispiegarsi del suo reale volume in altezza senza altri elementi che il gioco di rispecchiamenti tra la blu dei suoi tasselli vetrati e il suolo di specchi traslucidi ricoperto.




















Deve essserci nell’esperienza personale, esplorativa dello spettatore nettamente una sensazione di riempimento d’uno spazio compresso, tagliato dal suolo a un’altezza-limite, 
tale la sensazione di un pieno denso, voluto, d’una foresta con il maggior numero di sfere colorate possibili senza sovrapposizioni ammesse nella quale avanzare, arrestarsi, cambiare direzione, punto di vista, sviarsi, perdersi. 

Un “tutto pieno” astratto, geometrico, impersonale autogenerato come dispositivo  in ripetizione libera, in ombrelli riflettenti e supporti-pilastri bianchi e neri a sostenerli che riconducono l’immensità dello spazio a una scala umana, a una misura ancora possibile per noi.

Percorso sensoriale e visivo: far discendere lo sguardo verso il basso, i piedi verso la terra, fare attraversare una vasta superficie multicolore, sfere verdi, azzurro, rosso, arancio o giallo. 

Sfere colorate al suolo creano zone sensoriali precise dove spostarsi, filtri di realtà, guardando in alto attraverso quelli le intessiture in ferro dell’ossatura architetturale pre-esistente. 

Stati sensoriali scorrono dall’uno all’altro in concomitanza alle zone colorate: blu ombreggiato, malinconico fino a smorzarsi con la luce esterna in azzurro sfumato, evanescente, celeste. 
Giallo solare, brillante, e di seguito arancio vivo dalla vitalità bruciante, accesa, eccessiva, infine 
verde smeraldo, tenue, in tonalità diffusa fino a dissimulare i contorni e le linee delle percezioni esterne.
 Effusioni colorate camminando, effusioni d’arancio, di giallo solare o blu saturno. 
Giallo: solarità, chiarezza luminosa delle linee attraverso la tela riflessa. 
Arancio: la solarità diviene energia, slancio d’una presenza d’estate, verde filtro che attenua e ricompone in segreta armonia,
blu colore diffuso, a volte lunare, acquatico per eccellenza in volume spaziale implificante.      
                                                                                                                    Il percorso é astratto ma di un' astrazione concreta, resa all'esperienza sensibile del corpo nell'attraversamento, 
alle contingenze del giorno, della luce nel momento diurno o notturno, alla sua irradiazione o oscuramento, nel percorso indotto da filtri esterni e risposte interne attraverso queste zone sensoriali, che vi attraggono, vi captano, vi assorbono, vi fanno passare dall’una all’altra attraverso i colori come attraverso precisi stati corporei, modulazioni fisiche e emotive insieme. 




















E poi all’improvviso al centro della struttura in vetro e acciaio la pergola é come debba scomparire, lo spazio liberarsi e il palazzo ritrovare il proprio reale volume in altezza, 
la massa d'aria compressa, percepita nel contrasto, pienamente ora solo all'uscita dal tunnel quando il visitatore avrà accesso alla tridimensionalità delle molteplici navate, alla visione globale della struttura, dal suolo alla cupola, dal cemento dell’abside vetrata passando per il grande vuoto centrale. 

Al centro dovrà aprirsi questa zona circolare, relativamente vuota, questa sorta di vertigine sferica che procede verso direzioni opposte nel gioco dei rispecchiamenti:  si ricongiunge verso l’alto in altezza alla cupola del palazzo e, attraverso quella verso al cielo – blu cobalto, il colore scelto per la decorazione dei riquadri nella vetrata- poi sprofonda attraverso gli specchi riflettenti posti sul suolo, dentro la terra in una sorta di vortice circolare, in un moto di riassorbimento eccentrico tendendo verso il suo fondo.


Sul suolo, sul pavimento di fronte all’enorme cupola-schacchiera blu e bianca differenti sfere argentee, traslucide, riflettenti appaiono come stagni o specchi d’acqua, 
sfere come superfici che si spostano insieme a noi e al nostro vagare su quelle lasciandoci portare da una o un’altra direzione secondo le fluttuazioni dell’alto e del basso. 
Dalla cupola agli stagni d’acqua.

Dal centro l’immensa sfera di riquadri blu e bianchi s’apre a spirale per riflettersi sugli specchi le pareti laterali o gli stagni al suolo esplorando il vuoto e insieme la profondità, la caduta amplificata dal cielo al centro della terra,    dalle proporzioni verticali del Grand Palais a questo altro lato dello specchio. 

Sprofondare insieme alla propria immagine in circolarità, in un movimento sferico riassorbendosi a spirale verso l’interno, verso un nucleo primo; movimento ipnotico, concentrico, ripetitivo, portandosi verso un centro mobile impossibile a cogliere o a arrestare che si sposta insieme a noi e alla nostra figura in corsa, in fuga, in movimento libero nello spazio.