martedì 20 febbraio 2018

“The Wall”: intorno e attraverso i muri ( mostra a Bologna, Palazzo Belloni )











Il “muro” è immagine, traccia dai molteplici sensi e sovra-sensi oppure architettura data storicamente nello spazio, e ancora metafora letteraria in testi, canzoni o opere d’arte nella mostra attualmente in corso a Palazzo Belloni, “The Wall”. Un itinerario per farci riflettere, una mappa concettuale che dirama come un labirinto e sfalda in molteplici sfaccettature di pensiero da una sala all’altra, e ancora un viaggio attraverso il video, le installazioni, i quadri e testi letterari. Perché in fondo là è la dicotomia del suo esserci, su due piani, a due facce, come ciò che difende ma anche che separa e preclude l’accesso, o ancora la barriera che qualora blocca lascia intravvedere una possibilità nell’altrove, e nascondendo rivela se le sue pareti si trasformano in superfici espressive, iscrizioni d’arte o architetture che dimorano e danno vita allo spazio.

 “Parole sui muri” (installazione gruppo Loup)


Parole come pietre, dense e stratificate si aprono dal loro guscio di silenzio e incomprensibilità in diverse lingue nella prima sala come citazioni letterarie da fonti tanto lontane nel tempo quanto ravvicinate nella loro simbolica evocazione silenziosa: le pietre sacre in cui fu eretto il tempio di Gerusalemme nell’Antico Testamento, le mura di Uruk sulle quali Gilgamesh incise le sue fatiche e riportò  le storie del passato narrando ciò che era segreto, Italo Calvino dalle “rossa mura di Parigi”, infine E.Dickinson per la quale avanzare è la condizione stessa dell'esistenza, le pietre tombali solo un ristoro all'eterno  fluire che le rende odiose all'anima . Parole sacre o di poesia proliferano in caratteri verdi e ocra fiammanti attraverso i filtri di plastica rossa, ora blu sul piastrellato bianco e luccicante del fondo.
Se i muri sono da sempre mezzo o tramite attraverso cui i messaggi si depositano, le parole si iscrivono o si proclamano magari abusivamente o nell’impeto di un momento, essi da un altro punto di vista appaiono come ciò che separa, ostacola e preclude un reale scambio. Ci fanno pensare qui a muri di parole che non arrivano a destinazione_barriere di incomunicabilità nella profusione dei messaggi inviati o ricevuti_  ai muri virtuali su cui si scrive senza avere nulla da dirsi, infine al silenzio di fondo che  mormora nella sovra-produzione di messaggi, notizie, cronache o delle parole urlate dai media al quotidiano.

Nell’era della globalizzazione assistiamo, come sottolinea la scelta curatoriale di “the wall” in un’altra sala, a una crescente presenza di muri come sbarramenti reali o ideologici fra le nazioni del mondo: fenomeno trasversale che interessa tutti i continenti e diversi tipi di paesi democratici o meno, ricchi o in via di espansione. Di fronte al dilagante fenomeno globale di scambio di informazioni, merci, risorse e individui, virtualmente unificati negli andamenti delle borse e dei mercati su scala mondiale è la disparità di un reale accesso alle risorse in un mondo solo apparentemente interconnesso dove reali mezzi e ricchezze restano spesso inaccessibili alla maggioranza e le risorse concentrate quasi esclusivamente nelle mani di poche potenze economiche e militari e grandi monopoli multinazionali. Flussi migratori di popolazioni nel mondo emergono sempre più massicci dal sud al nord dall’est all’ovest dell’emisfero fuggendo guerre civili, persecuzioni religiose o di minoranze etniche in Siria, Afghanistan, o Iraq , occupazioni indebite di territori o condizioni di povertà e indigenza economica. La crisi di influenza o di potere delle istituzioni nazionali e l’affermarsi di quella che è stata definita da Baumann   una “società liquida” pone come risposta politica dominante in diverse parti del globo l’erigersi di muri, barriere difensive, irrigidimenti anti-democratici di pensiero attraverso strutture solide e impermeabili per gestire e contrastare questi flussi debordanti di individui, merci e informazioni. 
















Al di qua dal muro  ( Be here)

“Esiste una inevitabile presenza del muro, la sua impenetrabile consistenza”. La sua pesantezza oggettiva esclude, impedisce, blocca il passaggio di individui, mezzi e merci, in senso lato del pensiero, dell’informazione come fluido vitale. Prima linea di guerra, di confine o di frontiera, la sua barriera non attraversabile ci rigetta indietro, la sua materia arida e dura, ci graffia o percuote senza scalfirsi.
Il muro è cemento armato nell’installazione di Giuseppe Uncini: blocco, occlusione di un riquadro massiccio e traforato fuoriuscente di viti, speroni e ferro ai lati.
 E’ una distesa di piombo pesante che sedimenta sinistra su una base lignea  in Arnaldo Pomodoro e sfalda sulla superficie in strisce scintillanti e auree di rame rilucente   dall’interno impenetrabile.

E’ un manifesto stracciato, lacero ai bordi ma ancora oggetto di culto nel volto di una diva che si affaccia dalle labbra carnose e i tratti pulp dell’icona popolare.

Il confine proietta verso un altrove, qualcosa al di là. Impedire, separare fisicamente attraverso un muro induce la tensione di un superamento, la necessità di oltrepassare, andare oltre l’ostacolo. Ogni muro porta in sé una separazione, un’assenza e il desiderio o la proiezione oltre il suo limite fisico.
I muri sono ciò che ergendosi non permette il fluire del pensiero, della creatività in senso lato come forza d'amore spirituale e unificante, universale linfa vitale . Muri sono prima di tutto quelli del pensare e del sentire lì dove il pensiero si blocca e si irrigidisce, si cancrenizza o si ulcera in forme di rigidità o intolleranza, di aggressività o avversione verso l’altro, il nemico, lo straniero o il potenziale detentore di tutte le nostre rovine, svenute o infelicità. Forse è da quella barriera mentale, difensiva e in parte rimossa alla coscienza che esso diviene poi barriera fisica, di edificazione di muraglie o recinzioni e fortificazioni nello spazio. Anche se per legittima difensiva, o semplice salvaguardia, esso pone un limite invalicabile, apre una dialettica dell’esclusione verso un esterno da cui difendersi, un “nemico” da contrastare, mettere a tacere, ridurre a silenzio, al limite contro cui fare la guerra. Anche nel pensiero sono i muri dell’apatia e dell’indifferenza, quella nebbia soffusa, tangibile ai sensi che ci priva di una visione netta e chiara dei contorni, dissimulando la verità dietro la patina densa e opaca­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­ della manipolazione mediatica;
l’ indifferenza generalizzata verso il vicino, l'a me “prossimo”, e ancora l’apatia diffusa verso lo stato sociale di marginalità, indigenza ed esclusione che ci circonda.
I Muri sono ancora quelli dei mondi virtuali del “social” quando monopolizzano e assorbono completamente il nostro spazio-tempo interiore proiettando l’esperienza, la vita unicamente dentro una realtà simulata, in sé stessa, compensativa e illusoria del reale.

Infine evoca la prigionia di un meccanismo a ripetizione che ci attanaglia o “mura ”l’anima da qualche parte fino a farla fuggire , retrocedere e nascondersi, perfino addormentarsi. Tale gabbia oppressiva e monotona del “dover essere” dissolve i corpi nell’indifferenza grigiastra del quotidiano e  mette in fuga l’anima dalla sua reale dimora alla nebbia del pensiero, all’inerzia dell’azione.    



“Al di là” (Be-yond)

Lucio Fontana: Concetto spaziale.

Il verde compatto e rasserenante del fondo è tonalità soffusa e pacata nel suo distendersi sulla superficie uniforme della tela. Il taglio inaspettato e incisivo al centro è apertura o passaggio verso un’altra dimensione spaziale, oltre la piattezza bidimensionale del quadro, ciò che apre verso un’idea di spazio omnicomprensivo, tendente a un infinito in tutte le sue dimensioni e visto qui come il passaggio di materia-energia attraverso un varco inatteso. 

Christo: “Running fence” ( 1976 , progetto per un’installazione pubblica)

La siepe corre, come un percorso in divenire, circumnaviga e avvolge come un manto bianco e rilucente per una quarantina di kilometri il paesaggio californiano da est a ovest nell’installazione di “land art” qui vista nella sua fase iniziale di progettazione. Ricopre quasi la parete in rilievo e i suoi declivi con un nastro bianco-argenteo, lucido o nitido a seconda del passaggio della luce sul fondo ocra e beige delle asperità collinari retrostanti. Scivola, corre, lungo tutta la sua frontiera deviando l’ostacolo, lasciandosi portare da quel fluido magnetico e lunare. La bianca traccia di luce si disegna come una pennellata sullo sfondo rossiccio e stagnante del territorio.


Scritte sui muri

Impronte, disegni, scritte, graffiti, murales o bacheche virtuali sui social oggi, dai muri fisici a quelli digitali  si è sempre scritto e si continua a scrivere, lasciare un’esclamazione di gioia o di rivolta, lanciare un grido di rabbia o una parola maleducata tra l’indifferenza o l’attenzione casuale dei passanti, oggi dei lettori sulle bacheche digitali. Tali muri di parole divengono un’opera interattiva nella mostra bolognese “the wall” perché riempiti di citazioni e graffiti ai quali si aggiungeranno le firme lasciate "in itinere" dai visitatori invitati a prendere parte all’installazione. Luci di un proiettore ne illuminano una o un’altra sulla massa caotica di tratti che affollano la parete.

 Sono scritte colanti di vernice, parole rotte, spezzate, striscianti, o marcate ad inchiostro, 
scritte di un momento di rabbia o di incomprensione, spesso deposte casualmente da sconosciuti. Disegni scherzosi divengono occhi, ritratti accennati, dediche o preghiere. Le parole si illuminano nei corridoi in penombra stretti e oscuri: un cerchio di luce a tratti compare , balugina e si sofferma come la sfera luminosa di un proiettore al centro di una scena vuota. Sono cunicoli di parole nei quali si resta intrappolati scivolando in dialoghi e conversazioni inutili o consumate di un non-senso urlato. Divengono qui corridoi di scrittura dove esse prendono vita dalla loro precedente  profonda sordità  per riallacciarsi all’esistenza sensibile.

Hitomi Sato, Sense of field”,  

Rompere un muro, spostare una pietra, vedere lo scomporsi di una massa solida e immutabile attraverso un varco, un passaggio di luce che fatica ad attraversare, e incerta, liquida, ora limpida taglia il bianco immobile e diademato del fondo.

Dentro un muro un’apertura soffusa, uno squarcio inatteso di luce per liberare i sensi e vedere, sperimentare attraverso il corpo questo passaggio o corridoio aperto nell’installazione “sense of field”.
Contro l’immagine di barriera o sbarramento metaforico, di isolamento e oppressione evocati in una sala precedente dal video "the wall" dei Pink Floyd emerge qui l’idea di aprire   uno di questi squarci metaforici di luce, volgendo il termine “muro repressivo” in "espressivo".
  Nella pratica meditativa buddista cui si ispira l'artista, infatti, l’annullamento di ogni forma di ego, lo svuotamento della mente e dell’individualità ricondotta allo stadio zero simile a  una parete bianca che è a poco a poco annullamento del sé  permette essa solo l’affioramento di un’esistenza più pura e primaria, ancorata nella verità dell’essere e precedente ogni mutazione transitoria e effimera dei sensi.
Nella citazione a lato dell’ installazione : “Fare in modo che la tua mente sia come un muro e entrare dentro la vita. Meditare di fronte al bianco muro, annullare l’illusione del vero, ritornare all’essere.”

Muri si squarciano e lasciano entrare luce, creano percorsi visivi e spiragli di energia densa e vuota, vie d’uscita dei sensi e dell’immaginazione. Sentire attraverso quei varco di bianco contro il grigiore del fondo l’aprirsi di strade, di porte e sentieri. Soffuso scintillante corridoio dove l’anima attraversa, corre verso la propria dimora, divino istante di folgorazione. E riluce di immenso splendore.