giovedì 25 aprile 2019

SURREALIST, LEE MILLER ( fotografia a Bologna, Palazzo Pallavicini)









Surrealista il suo modo di osservare il mondo, il ricorso a metafore e paradossi visivi per raccontare attraverso le immagini, ancora il rivelarsi a tratti sorprendente di una bellezza inattesa scavando sotto l’usura del quotidiano; tale lo sguardo surrealista per ispirazione e stile dell’artista Lee Miller nel corso di tutta una vita pur nell’evoluzione delle immagini e degli accadimenti. Tanti volti in un sol volto, tante sfaccettature in una sola personalità, nel corso degli anni la musa ispiratrice diviene fotografa, Parigi diviene New York poi il resto del mondo, la ricerca modernista pura astratta si trasforma nella fotografia documentaria durante l’epilogo tragico del secondo conflitto mondiale. La retrospettiva “Surrealist Lee Miller” attualmente a Palazzo Pallavicini a Bologna raccoglie le immagini più significative di una carriera, da quelle iconiche e d’una perfezione stilistica ineguagliabile entrate a pieno titolo nella storia della fotografia moderna e quelle che come tracce, segni o punti incidenti marcano la storia del nostro ultimo secolo di guerre in Europa. 



L’eleganza innata della figura, i tratti puri e raffinati del volto, l’atteggiamento distante e altero, Lee Miller diviene dagli inizi della sua carriera il nuovo volto della moda Newyorkese sulle copertine di Vogue dove lavora a partire dal 1927 con Condé Nast. Approda a Parigi l’anno successivo inviata da Nast per incontrare il fotografo surrealista più in voga dell’epoca Man Ray iniziando con lui una collaborazione proficua come modella e musa al centro dei suoi più noti ritratti. E’ allora che Miller si inizia al lavoro fotografico sotto la guida dell’eccezionale maestro: vuole che lui le trasmetta i segreti della camera oscura, la perfezione della presa di immagine o la sua voluta distorsione; sperimentando con la nuova estetica dell’avanguardia giungono a sviluppare la tecnica della solarizzazione. “Oggetti trovati” del quotidiano, immagini dai contrasti tonali esasperati nella sovrapposizione luminosa, particolari estraniati dal proprio contesto per divenire altri, misteriosi e perturbanti, tali le immagini che accomunano la ricerca estetica degli anni più propriamente surrealisti.


Nude bent forward” ( nudo piegato in avanti) ne è l’esito più evidente. Il nudo femminile visto di schiena in primissimo piano ingigantito e ripiegato su sé stesso al centro genera un’ immagine equivoca, astratta e insieme perturbante allo sguardo. Allude a rotondità sensuali e tondeggianti, ondulatorie e sinuose evocando nell’inconscio una chiara simbologia sessuale al femminile e insieme avvolgendola di un’aurea di mistero e inconoscibilità. Altre volte sono contorni iconici di volti o figure resi in maniera assoluta, epurati in linee essenziali dalla realtà che come moderne icone pop, espongono sé stessi in una simulata nudità di superficie. Tuttavia, l’ottica surrealista permane sullo sfondo, l’idea che l’arte debba attraversare le soglie del cosciente, del convenzionale o consueto, esplorare il sogno e ogni altra manifestazione dell’inconscio come l’irriducibile del razionale e del senso comune. E, ancora, cercare come voleva Baudelaire, la poesia della realtà in segrete, misteriose corrispondenze parte di una totalità cosmica pre-esistente. 



























1929. La musa diviene fotografa e rende soggetto fotografato il maestro. I ruoli si invertono e lo sguardo di Miller sorprende e immortala il volto di Ray a metà coperto di schiuma nell’atto di radersi. Il suo volto appare a metà nitido e intagliato in linee incisive nell’effetto solarizzato, a metà liquidato, tratteggiato e in parte rimosso, reso nebbia o fumo dalla distesa del bianco. Sul nero della capigliatura, sullo sguardo unico, intenso e presente di Ray, sulla fissità del medesimo che si proietta lontano oltre il momento presente il bianco e nero si compongono in una perfetta simbiosi come un’impronta di presenza e su un fondo di cancellazione preesistente. 
Ancora il volto di Ray irrompe di fronte all’obbiettivo sorpreso in primo piano, spiato contro il suo volere dalla fotografa attenta a coglierne le sfumature, il controluce d’ombra, il risvolto sottile di ciò che il ritratto-icona non svelerebbe. Surrealisti in questo senso sono gli inconsueti scorci fotografici di Lee in quegli anni: scarpe pietrificano in ghiaccio, pietre si rivelano masse animate simili a mani, sabot tracciano impronte lievi di passi al suolo, infine un volto resta intrappolato dentro una campana di vetro trasparente e crudele. In “ritratto allo specchio” una donna è colta di profilo oltre la patina della fotografia convenzionale di moda. Pensosa, avvolta da un lungo cappotto di feltro in una posa statica ed elegante da un lato dello specchio_ immagine inflazionata della moda parigina_ si rivela quasi in un controluce discordante e inquieto si sé dall’ altro lato. Quasi volesse oltrepassare la soglia di realtà e correre lontano oltre lo specchio per ricongiungersi all’altro segreto e recondito ritratto di sé. E’ lì nell’ assenza o nell’ attimo di improvviso smarrimento, nell’infelicità inspiegata e momentanea di un istante, in uno spazio-tempo altro non della vita ma propriamente dell’anima.

Negli anni 30 Lee Miller si trasferisce al Cairo in seguito all’ inaspettato matrimonio con un ricco imprenditore egizio per ritornare a Parigi nel 1937 e ritrovare la vecchi cerchia di amici surrealisti, da Picasso a Ernst, da Cocteau a Mirò. Degli anni in Egitto sono gli scenari di villaggi e rovine nel deserto sub-sahariano all’ ombra delle monumentali piramidi. 







Portrait of space”, Ritratto dello spazio: come percepirlo se non attraverso l’apertura, lo strappo inatteso, la fenditura lieve di una tenda, velo o zanzariera. Un’apertura verso l’al di fuori, l’idea di irrompere e aprire una breccia, oltrepassare i confini, i limiti fisici e di pensiero per andare oltre, verso il deserto, la nuova frontiera di libertà e esplorazione come ci si gettasse in un mare aperto oltre i limiti della stanza. La foto apre a questa dimensione altra dello sguardo e dell’immaginazione immergendoci alla ricerca di tale spazio, personale e di movimento, di libertà e d’azione mentre dischiude un piccolo varco, una breccia semplicemente entro l’orizzonte conosciuto del nostro mondo abituale. Piccola cornice, grande apertura forse attraverso la maglia rotta di una rete , là è andare verso l’aperto in senso surrealista secondo Lee Miller.

Dalla cima di una grande piramide” un’ombra immensa e spaventosa si espande e si propaga, discende in tutta la sua altezza e rende il villaggio un arido deserto, il suolo assolato e brullo ricoperto della consistenza di una grande ombra , un’oscurità densa e abitata, che dilaga come una minacciosa presenza in mezzo al vuoto circostante.

La fotografa si trova a Londra allo scoppio della guerra rifugiatasi lì con il nuovo amante Roland Penrose in fuga dal precedente matrimonio. Fotoreporter durante la seconda guerra mondiale diviene corrispondente di guerra accreditata dalle forze armate americane perseguendo una fotografia di reportage nuda e spietata agli antipodi della precedente estetica surrealista. Documenta durante quegli anni tragici e atroci i bombardamenti su Londra, l’Europa ricoperta di macerie, il ruolo inedito e coraggioso svolto dalle donne durante la guerra, le operazioni di liberazione da parte delle truppe alleate americane nei giorni dello sbarco a San Malò e in quelli successivi, Lee in prima linea sul fronte insieme ai soldati.




Una visione cupa di Londra intorno al 1940, ombreggiata come l’edificio che si erge al centro della foto fa presagire lo spettro del nazi-fascismo in Europa con l’invasione della Polonia insieme allo scoppio imminente della guerra. Dello stesso anno è la visione molto più simbolica di “Revenge on culture” (vendetta sulla cultura): le statue classiche greco-romane dei templi cadute a pezzi insieme ai libri sono deposte al suolo avvolte da un nastro nero. Dal poema di Eliot l’ammasso di immagini infrante della civiltà occidentale, frammenti di umanità dispersa e pezzi naufragati di cultura lottano per sopravvivere in un mondo oscurato da forze infernali scatenatesi come bufera su questa “terra desolata”, privata d’acqua e di vita perché immersa in una aridità pietrificante.



Una macchina da scrivere esplosa appare con molle, lettere e tasti saltati in aria in seguito alla detonazione di una bomba in “Remington silent”: cavi strappati, pezzi di ferro, lettere esplose, parole rimaste intrappolate nel “linguaggio rotto o fatto a pezzi” dalla guerra. E ancora seguono le rovine di Londra, il tetto crollato della University College, donne reporter o infermiere dai volti completamente occultati e coperti da maschere protettive eppure tanto più reali e presenti ora nella loro umanità che non i ritratti puri e denudati, limpidi e iconici degli anni venti. Lee Miller in prima linea su fronte schierata tra i soldati, indossa abiti militari e una maschera antigas, mostrandosi pronta all’attacco, ferma e determinata, tra mine e esplosioni imminenti all’ingresso della fortezza di san Malò in un volto inedito mai visto prima per la fotografa.


La guerra è finita, Hitler sconfitto, l’Europa è devastata dai bombardamenti e coperta di macerie; l’orrore e la rabbia dei crimini di guerra ancora pervadono, possenti, impossibili da affrontare, redimere o in qualche modo liquidare. In una visione di Parigi la città è coperta di neve e ghiaccio, le ombre di morte e l’oscurità imperanti. Figure spettrali e oscure si allungano sull’ampio sentiero di Chaillot ricoperto di bianca neve mentre la torre Eiffel scompare come una silhouette sbiadita all’orizzonte; sulla superficie di morte il bianco manto dell’ oblio discende invocando la luce della dimenticanza.

In Germania Lee Miller fu tra i primi insieme alle truppe americane alleate, certamente la prima fotografa donna ad entrare nei campi di concentramento evacuati di Dachau e Buchenwald nel 1945. Tra i primi si trova di fronte alle pile di cadaveri, all’odore nauseabondo e l’orrore dei forni crematori di Dachau. Tra gli scatti documentari più spietati e atroci del momento il corpo di una guardia SS trucidato, fluttuante tra le acque di un canale a Dachau; ancora, deportati uccisi nel tentativo di fuggire, visti come un mucchietto d’ossa e d’abiti laceri accanto ai binari di una ferrovia; infine prigionieri liberati scavano tra i rifiuti alla ricerca di cibo. Sono le gambe e i piedi unicamente fotografati nelle divise di alcuni sopravvissuti rilasciati da Buchenwald, senza volto, senza busto o testa, senza individualità alcuna in questo dettaglio di corpi scarni al limite della sopravvivenza. Forni crematori e mucchi d’ossa e polvere, guardie SS in ginocchio catturate in abiti civili nel tentativo di fuggire e ancora la fiorente cittadina tedesca a pochi chilometri dai campi.

 

Hitler’s house on fire set by SS troupe” Una delle dimore di Hitler messa a fuoco dalle SS è vista bruciare, ardere, andare in fumo mentre le fiamme divampano al centro dell’immagine lasciata in oscurità sullo sfondo. Sancisce la fine di un incubo di terrore e distruzione che ha devastato l’Europa e il mondo nel corso di un quinquennio, il simbolo della fine di uno sterminio indicibile, infernale, inspiegabile altrimenti. Infine, forse nel suo scatto più celebre la fotografa si auto-immortala nella vasca da bagno di uno degli appartamenti del Fuhrer quasi in un atto di iconoclastia voluta rispetto a un innegabile simbolo di potere implicitamente rovesciato per proclamare la fine del regime.

Miller dopo la fine della guerra ritornerà a vivere negli Stati Uniti insieme al marito Roland Penrose. Fotografa e reporter di fama internazionale, non riuscirà mai a cancellare o meglio a scrollarsi di dosso gli incubi e i mali della guerra. In una degli ultimi scatti della mostra “the hostess takes it easy” Lee appare avvolta da una coperta sul divano di casa sua in California, forse sotto l’effetto dell’ alcool di cui fa uso sempre più frequentemente. Anche lei “ sopravvissuta” della guerra, anche lei liberata come i molti prigionieri dei campi ma mai completamente liquidata dai traumi e la memoria di quegli anni tragici e atroci.




domenica 7 aprile 2019

“UNFORGETTABLE CHILDHOOD”…Indimenticabile infanzia (al Museo Ebraico di Bologna)





Conservare lo spirito dell’infanzia dentro di sé per tutta la vita significa forse conservare il piacere fine a sé stesso o meglio la noncuranza assoluta e gioiosa del gioco infantile, l’uso incondizionato dell’immaginazione e ancora le ali illimitate della fantasia. Nel bambino è la capacità di guardare al mondo senza i limiti stringenti della ragione, del razionalismo e della legge di casualità nel pensiero dell’adulto . Del bambino ancora è il vivere l’eterno presente come un tempo che si dilata illimitato al suo sguardo senza la consapevolezza di un inizio e di una fine, la capacità di guardare la vita senza attribuirgli  un senso altro, un fine secondo ma semplicemente nel suo scorrere eterno e vitale, nel suo essere in divenire.


Perché, inevitabilmente, l’infanzia è per gli artisti di “Unforgetable Childhood” a Bologna, come per molti di noi ancora, l’innocenza gioiosa e senza finalità del gioco, il tutto possibile dell’immaginazione, l’indefinito di ogni singolo istante che si dilata come una temporalità senza limiti dove primariamente è il principio del piacere a dominare. L’infanzia, richiamando il pensiero di Nietzsche è l’arte, artista preso nel gioco della creazione, il fanciullo primigenio e creatore in ciascuno di noi.



Giorgio di Palma, "coni gelato"








Tale l’omaggio, fantasioso e ironico, spesso, irriverente e gioioso  al tema dell’infanzia nella mostra allestita in varie città da Tel Aviv a Ravenna a Matera,  ora al Museo ebraico di Bologna nello sguardo di sessanta artisti contemporanei tra l’Italia e Israele. Diversi gli echi delle singole voci ma  comuni gli oggetti, i segni o le suggestioni provenienti da archetipi universali che si rivestono dei colori di singoli luoghi agli antipodi sulla terra.
Coni gelati finiti a terra, schiacciati o dissipati al suolo di fronte forse al volto incredulo di chi dall’altra parte guardava esplodendo in un pianto irrefrenabile e burrascoso, nell’istallazione di  Giorgio di Palma.

 Ancora nel “disastro annunciato” un orsetto di ceramica posto insieme ad altri suppellettili fragili e preziosi finisce a pezzi al suolo, forse disintegrato dalla furia gioiosa del gioco infantile, dall’impulso creativo del bambino come dell’artista di toccare, sperimentare, fare a pezzi, dalla curiosità innata di far esplodere o esplorare. E, ancora, ricompaiono tra i diversi lavori barchette di carta ripiegate, rifatte in ceramica e poi lasciate scivolare su un immenso foglio bianco e liscio come la scia disegnata su una marea solitaria,  una libreria composta da mille copertine colorate, un elefante in gesso, una scatola in ceramica ingigantita con i quattro colori primari, un secchiello rosso su una spiaggia nuda e  oggetti inflazionati della memoria infantile come ghiaccioli, gomme da masticare,  merendine, liquirizie, palloncini svolazzanti o bolle di sapone .


"Endless Love” nell’affresco su tela juta di Valerio Berruti è la pacificazione del sonno, il riposo sicuro dell’infanzia mentre l’artista osserva i suoi figli “abbracciati, avvinghiati, uniti in un intrigo di braccia e gambe che, non a caso, ricorda il filamento del DNA». E’ la carezza di questo riposo pacificante e sereno amplificato, ingigantito, all’ennesima potenza come un affresco affiorato di per sé su una tela dove le due piccole figure appaiono trasportate, avvolte, completamente immerse nelle braccia del sonno come in un avvolgente stretta materna. 

Adi Kichelmacher
Roberta Savelli

Per Roberta Savelli sono lavori onirici, istantanee fotografiche arrestate in punti incidenti della memoria d’infanzia e ricreate, fatte rivivere come dipinti vividi, incisi in cera su una eterea tela di garza. Là i segreti sono sussurrati all’orecchio, gli occhi bendati tra le due bambine, e le parole disvelate ricreando questo immaginario di un mondo scomparso, fragile e segreto fatto di legami, giuramenti e tacite corrispondenze in qualche modo ritrovate, intuite o captate sulla tela come l’anacronismo di un tempo altro.



Adi  Kichelmacher:“My childhood dreams”(2018). 
 Il mio sogno d’infanzia, racconta questo dipinto, si espande all’ennesima  potenza dal suo fondo rosa intenso, acceso e violaceo, ora indaco e fucsia. Si espande a raggiera, in raggi multipli e brillanti, in linee incantatorie come per l’effetto di un qualche alchimia da queste mani di bambina sorprese nel mentre del meraviglioso. Il mondo è per lei tale spazio illimitato e senza fine che si crea dalle sue mani, che prende forma e si colora di un indaco  gioioso. Tutto si muove intorno a lei nell’infinito moto della creazione,  nel varco aperto dal gioco in un continuo dove creare e distruggere divengono una e la stessa cosa.  In un’altra versione è “ la ragazzina con il sole nelle proprie mani” dove tutto si colora di giallo e arancio, raggi solari espandendosi in una radiazione della solarità e dell’infinito.




Orly Aviv: “Come, fly with me”Lo scenario è immerso nell’oro e nell’arancio, l’immaginario quello di un sogno ad occhi aperti. Le due piccole figure, una l’ombra dell’altra reale ritratta nella foto, aleggiano, si muovono, danzano nel sole, nella vibrazione rilucente e dorata dove sono immerse, nella tempestata di punti fluttuanti come uno stormo disperso nell’orizzonte risplendente del cielo, come piccole foglie verdi, eteree e leggere, che corrono, si inseguono e volteggiano in quel mare d’oro.  Stessa luce, stessa immersione in ambiente liquido e luminoso, questa volta è lo scenario di una città moderna e metropolitana, Milano forse, vista nella stessa irradiazione di una luce oro, giallo-arancio luminosa e riflessa dai fari dei lampioni elettrici.  Attraverso un grande arco è la porta d’accesso alla città, disegnata dalle linee dei  tram che circolari si intrecciano portando verso questa scia di luce lontana oltre il mostro sguardo.

In Eran Shakine lo scenario dell’infanzia emerge dal dopo la tempesta, dopo l’alluvione che ha sradicato e portato il caos, lo sconquasso di forme di vita, il groviglio di piante e alberi sradicati tutti intorno:  multipli mondi da un mondo, il rovesciamento dall’ordine precedente, un nuovo ordine ancora a trovare, cespugli, braccia e rami, sullo scenario di un post-diluvio universale.
 Il nero pennello  ritaglia    il contorno di un piccolo corpo naufragato, ridipinto sulla solitudine del fondo boschivo sul piano nudo di legno.



 
 


“Stitches” (Dado Schapira) sono i punti di sutura che ricuciono e tengono insieme le fotografie dell’infanzia di Schapira. Come un taglio sula pelle aperto e ricomposto attraverso dei punti chirurgici, come si ricuce il tempo tra passato e presente nel tentativo di riannodare i fili tagliati o interrotti della propria storia, come si sutura l’istante e si ricompongono i pezzi, i frammenti o gli anelli mancanti dalle proprie passate esistenze, così si riempiono le immagini  di Shapiro di reali, fisici, tangibili punti di sutura sulla tela ritrovando il bambino che si era nei giochi più comuni come corse, scivolate e capriole immortalate dalle pellicole.



Conclude l’allestimento il grande affresco colorato di materiali compositi, tutti i colori, tutti i rimasugli in plastica ritrovati e ricomposti insieme usando pezzetti di palloncini scoppiati, esplosi o fatti saltare in aria. Un circuito è visto cortocircuitare, come un palloncino esplodere lasciando residui di plastica qui ricomposti in una nuova composizione irriducibile e gioiosa, colorata e multiforme che si sporge fuori dalla forma circolare dell’istallazione sulla parete simile a un bouquet o omaggio floreale a un'infanzia ritrovata in un modo proprio per ciascuno di questi artisti. Una finzione possibile,  re-immaginata a posteriori di un mondo disperso o mai esistito altrimenti, irraggiungibile se non attraverso il gioco del fanciullo o il passaggio alchemico del lavoro d'arte.