mercoledì 4 maggio 2016

"La seduzione dell' antico" : ri-configurare il passato nel post-moderno (II parte) al Mar di Ravenna



 Christo, “Wrapped Reichstag”

























La Land Art lavora sulla pelle del territorio, sull’ambiente in quanto paesaggio scritto, inciso, impregnato d’una storia politica e collettiva, luogo di vita vissuta dove il tempo stratifica in visibili tracce come fosse un oggetto estetico ereditato da una tradizione nel tentativo giustamente di sovvertire o reinterpretare quella stessa inflazionata visione. Nell’ operazione utopica e ironica insieme dell’artista bulgaro Christo monumenti, edifici antichi o luoghi naturali sono letteralmente ricoperti, avvolti, in alcuni casi perfino impacchettati da tessuti, tele o materiali fluidi, scivolosi e sintetici che ne appropriano e ne cambiano letteralmente l’apparenza, la qualità del materiale originario, l’implicita iscrizione nel territorio.

A Berlino in un progetto utopico che ha richiesto diversi anni di lavoro e lo sforzo congiunto di un insieme di persone, un tessuto luminoso, lucido e brillante in argento vivo avvolge e ricopre l’antico edificio del Reichstag ricostruito e distrutto nel corso di varie guerre che si erge imperante a simbolo della storia e della democrazia del paese. L’impressione è quella di un manto argenteo che si eleva sontuoso in verticale su un paesaggio urbano grigiastro, mentre l’aspetto brillante del tessuto trattenuto da corde  che ne mettono in rilievo l’essenza strutturale evoca la fluidità, l’unicità del materiale ma anche la sua intrinseca fragilità e l’impermanenza. Si staglia in mezzo ad architetture neo-classiche, ardue e spigolose, modello dei templi greci con colonnati e timpani classici sui quali si modellavano le architetture del III Reich generando evidentemente un contrasto paradossale se non stridente. L’atmosfera quasi metafisica del Reichstag avvolto in un bianco etereo, in una sospensione atemporale contrasta stranamente nella fotografia ripresa dall’alto con il grigiore diffuso della città dove compaiono strade ampie e trafficate in asfalto, un fiume che attraversa in linea serpentina, macchie di abeti in lontananza, la piatta sinteticità degli edifici del regime ai quali si oppone una nuova leggerezza di cui si veste ironicamente il palazzo.




A Roma, ugualmente, parte delle mura Aureliane di Porta Pinciana sono avvolte nel ‘74 da un tessuto sintetico trattenuto da corde tanto che la porta appare temporaneamente impacchettata come fosse soggetta a dei lavori di restauro, trasformandosi in una sorta di architettura fittizia, scenografica e teatrale che si erge in mezzo al traffico e allo smog cittadino trasformando profondamente la percezione dello spazio urbano per investire l’ambiente di una nuovo impulso creativo. Il lascito del patrimonio classico, la durezza della pietra, l’architettura ereditata dalla tradizione viene così alleggerita della sua impronta e pregnanza storiografica, dissacrata dalla sua presenza monumentale, sovvertita nella sua forma estetica prima e rivestita di nylon e tessuto come d’una innocenza ritrovata se pur temporaneamente e in maniera fittizia. Non tanto ingabbiata quanto riappropriata con ironia, Porta Pinciana appare ricoperta della fragile impermanenza del tessuto come d’una nuova pelle; resa innocua rispetto alla pesantezza della sua impronta materica originaria, viva rispetto al paesaggio anemico in cui era immersa, nuova rispetto alla storia dell’architettura da cui inevitabilmente deriva.



Leptis Magna, io sono nato qui” , 1992, Mario Schifano




E’ un tempio antico, greco di derivazione classica degli insediamenti romani in Libia probabilmente parte degli scavi di Leptis magna, sito archeologico poco distante dalla città dove Schifano nasce e che l'artista sceglie di recuperare attraverso la pittura informale come in un ritorno simbolico, nel recupero quasi d’una ideale terra d'origine. Nel quadro di profonda impronta materica il tempio antico è reso a grandi dimensioni e in colori pop, vividi, di pittura ad acrilico, smalti e vernici industriali. Immaginifico e multidimensionale, irriverente e libero nel proprio recupero o dialogo con il modello antecedente giunge a noi come una cascata di colore, bianco soprattutto e blu in rifiniture indaco e arancio. E’ il candore d’un luogo d’origine, la pietra ricoperta d’una vernice traslucida e riflettente distesa per chiazze o macchie rischiaranti di colore. E' l’impronta, la coloritura sintetica e artificiale degli smalti che si sovrappongono, si delineano e ricoprono l’originale contraffacendolo, citandolo, rendendolo forma mitica, fantasiosa e nuovamente vivida di pigmenti colorati. 

“Io sono nato qui” afferma il titolo del quadro, questa è la mia prima provenienza, la mia terra, le pietre bianche che mi hanno visto nascere, che per prime ho visto nascendo come questo luogo divenire sacre: tempio, città, architettura d’un disegno dall'alto, di un tempo di cui non ho più memoria, alcuna traccia scritta. Non cerco quella provenienza se non riappropriandola con i miei mezzi, con le mie macchie di colore, con le mie visioni inverosimili e vivaci, estemporanee e vivide che ho del mondo per impronte, distese o gettiti di smalto applicato sull’ acrilico. Tale tempio originario rifatto in bianco, bluastro e smeraldo aleggia dilatato e sospeso poeticamente sulla tela con i suoi grafemi di lettere a noi sconosciute simili a un alfabeto arabo criptato di cui riconosciamo soltanto i contorni esterni ocra e arancio.

Man Ray, « La Venus est restaurée » (1936) e Yves Klein, « La Venus d’Alexandrie » (1962)




Tagliata nel busto senza più arti ne testa e avvolta da corde come quei frammenti di statue estratte dagli scavi o quegli edifici soggetti a lavori di restauro, come quei busti o manichini destinati a spostamenti, traslochi e movimentazioni, la Venere di Ray è trattenuta, sostenuta da corde; solo il busto è visibile, non l’intera figura nella sua reale statura né il volto della statua ma semplicemente il tronco come fulcro e nucleo figurativo classico ereditato dalla tradizione, giunto dal passato qui a noi e riavvolto, avviluppato nell’aurea ironica e insieme destrutturante del contemporaneo. Trattenuta, embricata da corde, riabbracciata quasi e insieme riappropriata come la forma di quello che potenzialmente sarebbe, potrebbe essere o divenire in una versione amputata, circoscritta della medesima, la statua è focalizzata e citata in quell’ unica sezione di corpo, ora guardata con lente ravvicinata, ora pensata come acefala, ironicamente in una delle tante interpretazioni possibili date dalle avanguardie. Allo stesso modo la “Venere d’Alessandria” nella versione di Klein alcuni anni dopo la scultura di Ray rivive ricoperta di un pigmento blu oltremare brevettato dall’artista stesso con la sigla IKB. Astratta e anomala rispetto alla statua classica, essa giunge a noi come il frammento d’una totalità pre-esistente andata perduta, vista qui nella sola sezione del tronco. Si ripresenta in un primo piano su una parte del corpo, il centro vitale di un busto e bacino che vibra di primaria energia dalle radici e lascia un’impronta, un calco, una traccia enfatizzata giustamente, da questa colorazione di un blu sintetico, artificiale e raro che Klein ha voluto creare appositamente per dare corpo e forma alla propria visione del mondo: una vibrazione che si proiettasse oltre il qui e l’ora del presente_ pur sul solco della tradizione_ per raggiungere quella dimensione spirituale verso cui l’umanità doveva tendere nella sua visione filosofica del cosmo.

Vettor Pisani, “Barca dei sogni” e “Giochi della memoria e dell’oblio” (2001-2002) ( da Bocklin, “l’isola dei morti” e Moreau “Edipo e Sfinge”)



Come una sorta di Ade moderno è il rifacimento di questo paesaggio dall’ ambientazione cupa, immersa in una profonda oscurità e attraversata da improvvisi, fulminei chiaro-scuri su alcuni dettagli, visi o figure dominanti. Nel paesaggio lunare gli alberi o i profili dei medesimi appaiono come aloni o macchie oscuranti indefinibili mentre i due corpi avvolti in una stretta univoca, quasi in complementarietà indissolubile si stagliano nel plenilunio in una luce crepuscolare come figure mitiche assimilabili a quelle di Orfeo e Euridice nella loro discesa senza ritorno agli inferi ma qui sovrapposte volutamente al dipinto classico di Edipo e la Sfinge. Edipo appare stretto alla Sfinge guerriera e portatrice del segreto in una sorta di narcisistico sdoppiamento di sé stesso; lei orrenda chimera dal volto di donna, le ali d’aquila e il corpo da leone stretta al petto dell’eroe pone a lui l’enigma da cui dipende il suo destino, il suo fato di vita o di morte nell’ attimo di sospensione in cui le figure appaiono nel quadro. Abbracciandola, anche, Edipo abbraccia il segreto che è in lui, l’enigma della sua propria esistenza e lo stringe a sé senza sapere, senza possibilità di conoscerlo, di rivelarlo quasi accettasse di attraversare quella soglia luminosa per entrare nel regno delle ombre, nell’ oltretomba pagano visto dall’oscurità della terra come nel riflesso d'una luce alternata a zone di profonda oscurità nell'eterna notte dell’Ade. Una barca in legno , altra scultura installata di fronte alla tela, attraversa nel mito classico lo Stige per arrivarci condotta qui da una donna avvolta in abito nero e velo di morte. Traghettatrice delle anime nell’Ade, o forse solo testimone silenziosa avvolta in oscuro mantello, lei semplicemente osserva quello che accade dall’altra parte, là nel regno della memoria e dell’oblio.

Botticelli visto da Andy Warhol, “Details of Renaissance Paintings” (1984)





Un singolo volto, il dettaglio di un viso estratto dalla “Nascita di Venere” di Botticelli ritorna come stampa serigrafica, immagine iconica, seducente e malinconica a grandi dimensioni nel lavoro di Warhol. Il volto della dea è ripreso in primo piano, isolato dal resto del dipinto e posto come ideale di bellezza classica rinato in stampa moderna tramite la tecnica della pop art su uno sfondo nero di carta ad acquarello. Ne risalta la dolcezza dei tratti del volto, la malinconia dello sguardo, l’aria poetica nei lunghi capelli mossi, svolazzanti e aerei, la coloritura infine data dal contrasto dell'oro e del rossiccio, tra la linea di contorno brillante e l’incarnato rosato e vivo in cui la stampa fotografica restituisce la giovane dea. L’icona contemporanea di Warhol pur nella tecnica utilizzata che riporta l’attenzione alla pop art e alle post-avanguardie ripropone in termini contemporanei l’ideale botticelliano d’una bellezza eterea, eterna e spirituale, come d' una sorta di icona che, svuotata dal mito classico, si sottrae alla sua materialità ma rivive come idealità neo-platonica in aspirazione e in essenza.



Michelangelo Pistoletto, “La Venere degli stracci”(1967)




Volge la schiena a noi, si allontana, se ne va, è visibile solo nell'atto di volgersi contro ed essere avvolta, accolta da questa massa di indumenti usati, stoffe o stracci colorati posti contro la parete di fondo della galleria. Quasi accolta da loro, andando al loro incontro con passo sicuro pare trovare riparo, conforto, forse consolazione in quella montagna morbida di tessuti, drappi o accumuli di vecchie stoffe e vestiti dai variopinti colori. Incamminandosi nella direzione opposta a quella degli spettatori  questa “Venere ” si cela quasi alla rappresentazione frontale per darsi come corpo che sfugge, si allontana, se ne va. Non è la bellezza statuaria della tradizione sublimata su un piedistallo e lì lasciata alla serena contemplazione degli spettatori ma questa figura che animata prende corpo, prende vita e decide di volgersi dalla parte opposta di chi guarda, di vestirsi di stracci e lasciti di un mondo industriale fatto di materie e del loro consumo, di oggetti e del loro uso o abuso, di produzioni e scorie dei medesimi, di quei materiali poveri, infine, che ne sono parte. Sceglie o rifiuta di porsi al pubblico nella sua postura ideale ma più piccola, dalle dimensioni ridotte rispetto al modello classico, forse semplicemente per l'impressione che se ne trae vedendola così inclinata quasi dovesse raccogliere da terra quella montagna, la Venere è vista in questo gesto che la desacralizza, la porta dentro le cose, le stoffe e la materia spuria, usurata del mondo con i suoi colori e sfumature. Si lascia embricare, travolgere da quell'accumulo di oggetti e scorie in disuso della società attuale per abbracciarle e avvolgerle come il futuro abbraccia il passato che contiene in sé, e si tuffa in quella tradizione , in quella montagna di stracci appunto, senza poter perdere di vista la propria contemporaneità, la natura impropria, spuria e rimaneggiata della propria materia.


Michelangelo Pistoletto, “Annunciazione”, 1980 (omaggio a Lorenzo Lotto, “angelo annunciatore” 1525)






E' la sovrapposizione, quasi l'innesto di due figure, la seconda l'angelo annunciatore rifatta in gesso applicata al calco della prima, la Vergine mentre il volto dell'uno porta l'annuncio del messaggio divino, della nascita all'altra. Azzurro, celestiale è il colore dominante nell'abito della Vergine come nelle ali o nel corpo dell'angelo in volo ma i materiali utilizzati sono quelli di recupero, impuri e spuri della contemporaneità come il gesso, il cemento e i colori in acrilico. Siamo di fronte alla sovrapposizione, l'innesto, la fusione quasi dei due volti e frammenti di corpi che divengono la stessa scultura: amorevolmente fusi insieme nell'abbandono al messaggio divino che l'angelo porta su di sé, nell'affidamento reciproco, assoluto fisico quasi dell'uno all'altra. Innesto plastico, scultoreo in una sola figura dove il braccio tronco della Vergine si innesta con quello immanente del messaggero, dove la testa di quest'ultimo si sovrappone al calco della giovane mentre nei colori è l'alternanza, la complementarietà, la fusione quasi tra la tonalità celestiale dell'angelo e il rosato nell'incarnato della giovane donna. Ancora possiamo parlare di una storia e di una cultura dell'antichità, d'una appartenenza malgrado sé stessi a quella tradizione classica, immutabile e eterna che seduce , ma, ancora, riscontriamo nel lavoro di molti artisti contemporanei il tentativo di riassorbire, assimilare e fare propria quella tradizione anche soltanto nel suo involucro svuotato, in una simulazione cosciente o ironica del modello precedente, in una finzione voluta della nuova opera; come dire, affondare nel passato per dare vita a una forma originale che porti in sé i tratti del presente e un alito o un'anticipazione dell'a-venire.