sabato 26 marzo 2016

Su "La Rabbia" e il teatro di Pippo Delbono, omaggio a Pier Paolo Pasolini ( visto al teatro D. Fabbri, Forlì)


La verità non sta in un sogno ma in molti sogni”, afferma l’attore-regista Delbono nel prologo all’inizio de “ La Rabbia”citando "Il Fiore de le mille e una notte" di Pasolini, e , ancora aggiunge: ” alcuni provengono dalla nostra vita, altri dalle vite altrui e si mischiano, si confondono, si perdono nel nostro spettacolo”.





Così inizia la pièce di Belbono, in questo monologare d’una voce al microfono che prosegue e si dilata, si tende come una ragnatela immaginaria attraverso un montaggio di frammenti e brani musicali, in un intercalare di parole o solo corpi, di grida e sussurri, di silenzi appesi a un filo ed eclatanti esplosioni di emozione: desiderio d’amore o di bellezza,  rabbia e rivolta nel continuo di un’ora ininterrotta di spettacolo. La scena è aperta, non ci sono sipario o quinte evidenti  ma solo uno spazio vuoto, delimitato da una parete-tenda nera sul fondo mentre entrano gli ultimi spettatori e i musicisti sono già lì, a lato del palco, intenti ad accordare gli strumenti, a scambiarsi qualche parola e a provare poche note accennate da una chitarra o da  un basso come se fossero in corso di prove, Delbono già su scena con loro.














L’attore-regista si avvicina al microfono accompagnato dal continuo d’una ballata per chitarra, inizia questo monologare serrato, sussurrato e sussultante a tratti, in un primo omaggio a Pasolini sull’eco di Rimbaud, abbandonandosi al fluire spontaneo della parola, al suo scorrimento poetico; là la voce disegna e consuma, apre un tracciato vibratorio, ritmico e musicale e poi lo svuota, lo interrompe, lo frammenta, lo esaspera in una tensione emotiva che trascina nell’improvviso rapimento vocale o nel repentino silenzio. Parole sussurrate o gridate intercalate dal pause e note musicali al microfono  riportano l’amore a quella genuina primordiale passione d’eco pasoliniano che vibra nel sangue, nel fremito della carne, in un desiderio sensuale che apre e eleva alla ricerca di una inesausta, infinita bellezza, poi al movimento d’un pensiero che d’essa si libera e si libra nel canto: “Nelle sere d’estate, trasognato lascerò che il vento mi bagni il capo nudo. Io non parlerò, non penserò più a nulla ma l’amore infinito mi salirà nell’anima,
stanco di infrangere i sogni rinascerà libero da tutti i suoi dei”.
Il pensiero invisibile, eterno Dio che vive sotto la sua carne d’argilla salirà, salirà, salirà
e brucerà nella sua mente , tu lo vedrai scrutare l’orizzonte e ergersi sprezzante di tutti i suoi ostacoli, libero da tutti i timori, splendido e radioso gettato sul vasto universo. L’amore infinito in un infinito sorriso”.
“Il mondo ha sete d’amore” afferma il prologo nel montaggio di frammenti poetici, esso salirà come un pensiero che si eleva libero, senza timore dalla sua carne d’argilla; il troppo a lungo oppresso pensiero si slancerà e salirà come un fremito d’amore vibrando sull’ ’immensa lira dell’universo”. Se “la nostra pallida ragione ci nasconde l’infinito” afferma il poeta, il senso di un sapere che oltre i limiti del qui e dell’ora apra a una cristallina, luminosa visione- l'inesausta bellezza del vivente- “canta”, ripete il poeta , canta un canto di sangue e d’amore. “L’amore è carne.. Danzate, ridete..Canta la pietra, l’odore della terra perché anche il bosco canta e il fiume mormora un canto pieno di felicità che sale, sale, sale verso la luce. E’ la ritenzione..l’amore”. Il trattenere qualcosa su di sé per poi donarlo espanso, amplificato, rinato in un canto nuovo , nel gesto gratuito d’una  parola che diviene salute, redenzione o salvezza.
Silenzio totale in sala alla fine del monologo, assoluto e carico d’attesa. Delbono è dietro il microfono per la maggior parte del tempo, i musicisti a lato mentre sulla scena aperta  si susseguono un montaggio di storie di corpi e estratti di testi, oppure brani musicali  che alternano ironia e leggerezza a quei momenti di rabbia feroce o di disperazione prima, di grazia o di candida presenza quasi rubati al tempo e sospesi in un istante di poesia.




Camaleontico, versatile, penetrando nella dimensione del ricordo personale e collettivo Delbono in un alternarsi di ruoli e tonalità veste ora i panni e le movenze di un contadino genovese dal cappello di feltro sformato nella memoria del padre, i suoi gesti e parole, la barba sfatta, le grandi braccia e la mimica grossolana mentre legge versi nel dialetto della sua terra. Diviene poi Charlot mimando in controluce all’ombra d’un proiettore circolare seduto su un sedia la postura infantile del personaggio come in un ritorno all’infanzia del mondo mentre le sue parole affermano in un’atmosfera vicina al sogno e all’incanto: “Ovunque tu sia guarda in alto, il sogno torna a risplendere. Piano, piano usciremo dall’oscurità verso la luce; pensa alla forza che fa crescere gli alberi, che fa girare l’universo, che fa tremare la terra… quella stessa forza è dentro di te”.
La sua mimica eccezionale, le sue movenze tenere e goffe, il suo dialogare con un interlocutore immaginario sulle note d’una tenue musica jazz lo trasformano a poco a poco nella figura metamorfizzata di un invisibile altro: il grido folle  e rabbioso di un piccolo dittatore facendo eco al doppio hitleriano nell’omonimo film dove Chaplin parodia il nazismo e il suo imperversare in Europa negli anni ‘40.  





Del favoloso mondo antico era rimasta soltanto la bellezza..e tu te la sei portata dietro..con un sorriso.. così ti sei portata dietro la sua bellezza, sparivi come un pulviscolo al mondo”. “Bellezza antica, tanto amata e ormai perduta”, afferma il monologo citando Pasolini, visione di un sogno o di un recondito passato, di un tempo prima del tempo, d’una nostalgia antica e senza rimpianto, di una quasi mitica memoria ritornando più come un sogno che come un referente reale preciso. Il monologo la evoca in un sussurro poetico, omaggio a Pasolini, mentre un uomo seduto a terra canticchia tra sé e sé, si trascina ubriaco bevendo da una bottiglia semi-vuota, inciampa, crolla, si ripiega, ricorda qualche stralcio confuso d’ una canzone popolare, si interrompe a tratti in sospensione malinconica o forse perché non ricorda più il resto del testo. Una donna piccola e insignificante- attore o attrice che sia non importa-  entra avvolta da un velo bianco a strascico nuziale su abiti ordinari e avanza lentamente mentre le parole fuori campo continuano a evocare la perduta bellezza; a poco a poco, depone il velo al suolo, la sua massa leggera e fine simile a un nugolo di bianco tulle vaporoso. Si odono gemiti come d’un pianto in lontananza, un pianoforte accompagna, finché lo abbandona lì a lato della scena per mostrarsi metaforicamente nuda, esposta, svuotata, senza più barriere di fronte al pubblico.






Dimmi che mi ami”, afferma la voce fuori campo dell’’attore, “dimmi che mi ami” ripete più piano, “che mi ami” sussurra, implora “che mi ami” grida, impreca, “ dimmi che mi ami” strepita, urla, esplode in un grido di rabbia e folle esplosione acustica di suono mentre le parole si fanno violente, gridate evocando una febbre, il cancro di un popolo, un delitto collettivo, occhi chiusi, il materializzarsi di una rabbia cieca, feroce. Due corpi, un uomo e una donna s’abbracciano prima gentilmente poi crollano al suolo, in un abbraccio, una danza, una lotta, in una stretta colma di violenza e ritenzione; lottano, si gettano l’uno sull’altro mimando un’immobile, ritornante amplesso, si separano e si riavvicinano, si fronteggiano e infine restano immobili, nel silenzio privi di vita facendo eco, indirettamente, agli antecedenti del teatro-danzato bauschiano.




“Sui miei stracci sporchi, sulla mia nudità , scrivo il tuo nome, sui miei fratelli, sul mio primo fratello, sul mio secondo fratello sciancato, sul mio terzo fratello lustrascarpe, sul mio quarto fratello mendicante, scrivo il tuo nome, libertà, sui miei compagni di malavita, sui nomadi del deserto, sui braccianti di Beirut,sui salariati di Oran, sui piccoli impiegati di Algeri, scrivo il tuo nome, libertà,sulle misere genti di Algeri, sulle popolazioni analfabete dell’Arabia, su tutte le classi povere dell’Africa, scrivo il tuo nome, su tutti i popoli schiavi scrivo il tuo nome: libertà” .

Ancora un grido nello spettacolo, ancora un’esplosione di rivolta e di rabbia; una denuncia aperta, senza compromessi o mezze misure è lanciata prima come un’asserzione precisa, fredda e tagliente poi come un grido di rivolta feroce e assoluto, esplodendo spietato sulla scena. Questa volta è la voce di un intellettuale impegnato e politicamente non allineato alle forze governanti nell’ Italia a lui contemporanea: coscienza d’una voce libertaria che dice “io so i nomi dei colpevoli delle stragi di Milano, Brescia e Bologna”, e grida ancora “io so, io so i nomi”, denunciando pubblicamente la politica italiana dell’ultimo trentennio , la connivenza tra politicanti e mafiosi, le manipolazioni del denaro pubblico, le stragi terroristiche degli anni 70, infine il volto cieco di un Potere responsabile, secondo Pasolini, dell’omologazione totalizzante e generalizzata di tutte le classi sociali attraverso l’imporsi della nuova società dei consumi e dell’edonismo.   “Io so i nomi” continua l’invettiva perché sono uno scrittore e un intellettuale che vuole comprendere, conoscere, sapere ciò che se ne scrive o se ne dice, immaginare ciò che non si sa o si tace, mettere insieme fatti disorganizzati e frammentari in un intero quadro politico, “ristabilire insomma la logica là dove sembra regnare l’arbitrarietà, la follia, il mistero”. “La rabbia” è anche quella di un Pasolini  critico della società italiana, testimone della sua radicale trasformazione, acculturazione e appiattimento nel giro di pochi decenni, lui fino alla fine non allineato alle logiche capitalistiche contro i quali oppone la forza di un pensiero libero e di un’arte autonoma, non sottomessa alle dittature mediatiche e politiche più diffuse.





La rabbia coesiste con una pioggia di coriandoli  nell’atmosfera d’un sogno ad occhi aperti nel finale. Si balla sulla memoria e le  note d’una canzone popolare, un tango dalla sensualità argentina lenta ed avvolgente, implicito omaggio a quell’atmosfera bauschiana di riso nel pianto, a quella sua ironia o ieratico distacco al più profondo delle passioni umane, all’anarchia o al dolore che governa le emozioni e le relazioni più intime tra gli individui, alla follia dell’ordinario come al montaggio dei frammenti apparentemente aleatori d’una soggettivante esperienza. 

Personaggi con ali di angelo ballano in festa nel finale tra polvere di coriandoli e l’atmosfera surreale, nostalgica di un sogno ad occhi aperti o d’ un ritorno a una tenera memoria d’infanzia. Ali d’angelo compaiono su un uomo in bicicletta che scorazza attraverso la scena, su una donna bon ton anni ‘60, su un nano in tailleur scuro mentre la pioggia bianca continua a cadere sul cerchio degli attori, su Delbono stesso autore-attore, sull’eleganza accattivante, infine, di un’attrice soubrette che, in omaggio alla Bausch, mima un passo a due lento e avvolgente con uno sconosciuto  su quel ritmo nostalgico e sensuale.    



  

giovedì 3 marzo 2016

Opera Aperta, (partendo da “Arte Fiera 40, storia di una collezione” al Mambo di Bologna)











Elisabetta di Maggio, “Butterfly fly trajectory”, ovvero 
le trame di un’esistenza..


Come il volo d’una farfalla la traiettoria si dispiega limpida, leggera attraverso l’aria e sul fondale d’una bianca tela. Irrisoria, lieve avanza in arzigogolanti risvolti, in linee morbide e irregolari , in impreviste svolte o sinuose curve tracciate da un’infinità di minuscoli spilli che delineano un percorso certo, innegabile sulla carta tuttavia.  
Una domanda aperta in cerca di risposta, la linea di vita perde il filo, si increspa su sé stessa fino a divenire un merletto arricciato, inizia all’improvviso in un punto, s’arresta forse in un punto oltre il nostro sguardo, intreccia fili su fili e come seta tende trame d’aria, arzigogolanti ricami sul vuoto. La vediamo apparire all’improvviso e continuare, tendere all’infinito oltre l’orizzonte limitato dalla tela o dal nostro sguardo. Come la trama di un’esistenza volge su sé stessa e ritorna, dimentica, si smarrisce, perde il filo o la traccia della matrice divina che l’ha generata e poi la ritrova; lascia circumnavigare il proprio ordito inseguendo senza saperlo un destino, smarrendolo ogni qualvolta perde il filo per poi ricordarsi involontariamente molto più tardi. Pare derivare a tratti in cerchi ed ellissi imperfette, ripiegarsi in ritorsioni vane o cadere nella perdita del senso, della visione d’insieme; ma poi la vita la riporta indietro a forza sul suo tracciato, la costringe a fermarsi, a sbattere contro in un arresto improvviso, una barriera o un ostacolo forzato e derivando, con pena, a fatica, dolorosamente a ritornare sul proprio cammino, lì dove la trama aveva perduto. Vista dall’alto a distanza appare, tuttavia, come una linea sinuosa e morbida oltre i nodi e gli imbrogli delle singole cadute sul piano basso e corruttibile della materia quasi apparisse tra rilievi di schiuma soffice, di nuvole bianche o di sinuose brume, mousse dolce e vaporosa. Come una linea tracciata tra le mille appare la variabile d’un presente la cui matrice prima resta eterna, oltre il tempo, solo a metà conoscibile, dell’anima all’anima tentando di annullare o modificare estranee interferenze , trame o lasciti di altri precedenti esistenze.





Francesco Candeloro, “Memorie e luci”, 2014 (taglio laser su plexiglass)


 




I profili delle case sono ritagliati da una fiammella laser sullo skyline d’una città orientale impressa in plexiglass in un mare di luce. Essa rende tutto semplice, luminoso, splendente. D’un tratto un’immagine si disegna, nitida, chiara all’osservatore, s’apre nella mente come un’evidenza. Non più sovrapposizioni mentali, idee confuse, imbrogli o vapori svaporanti nel cervello a stordirvi la memoria e il pensiero, ad annebbiarvi o obnubilarvi la mente, a privarvi della nostra capacità di comprensione, di parola. Vedete questi profili stagliarsi netti nell’arancio, nel giallo o nel rosato, riflettersi in una luce che rivela memoria, involontaria visione, improvviso via d'accesso all’anima. D’un tratto gioite, siete rassicurati, salvi, riconfortati mentre vi immergete dentro il riflesso di quegli aranci, ambra o rosati che come profili di palazzi antichi, dall’aria fiabesca, irreale, fatata quasi si sdoppiano al contrario sulla superficie liquida del piano evocando una scia di luce, un quadro che dissolve a poco a poco e liquefa come un riflesso affacciatosi e tanto rapidamente scomparendo dentro le acque mobili di un lago. Le loro forme frastagliate all’orizzonte sul paesaggio d’una città orientale evocano finestrelle ritagliate, torri e minareti in oro simbolo di moschee e luoghi di culto sulla terra, cime acuminate e cupole ricoperte di ceramiche verdi e turchesi; le tonalità dell’oro e dell’ambra, i celesti e gli smeraldi, le cupole e gli archi, i simboli o i segni calligrafici misteriosi tratti dai versetti del Corano, poi agli intarsi e gli arabeschi, i motivi arabeggianti dipinti o scolpiti, impressi o celati sulle moschee e i palazzi di Istanbul, Marrakesh o Casablanca. Bastano poche cromie luminose sulla superficie lucida del plexiglass e profili emergono lasciando intravvedere un mondo come per un riflusso involontario di materia o di un’immagine comparsa sul vacuo del fondo.

Nicola Melinelli, (olio su tela 2015)


Il lato opposto della parete mostra il formalismo e l’astrazione geometrica di riquadri colorati ritagliati in stile Mondrian. Eppure, quella tela appare singolarmente uncinata da un gancio, stretta da un piccolo morsa d’acciaio su un lato, trattenuta da quella parte e messa in trappola, lì stretta in un solo punto.
Evidenza I: l’opera non può più dirsi assoluta, non esiste più come idealità o verità incarnata dall’arte ma come decostruzione della medesima, iconica affermazione in controluce di sé mostrando il risvolto interno, il bordo non notato della cornice, la parete nuda e bianca sotto la tela, l’ironica affabulazione del soggetto preso al laccio della propria creazione, poi l’ironia implicita nell’atto del guardare e del guardarsi, infine la messa tra parentesi d’ogni giudizio, la sospensione perfino della decisione sul crederci o meno a quel lavoro d’arte.

Evidenza II: sono preso al laccio, irretito, ingabbiato, messo evidentemente in trappola da questo meccanismo che anche non volendo mette a nudo l’aspetto fittizio della mia composizione,  la sua natura di montaggio e rifacimento, l’anti-rappresentazione che essa produce della realtà,  infine l’ironia della sua ultima presenza come della mia implicita sorte, io soggetto celato e svelato dall’opera, demoltiplicato e infranto in una miriade di molteplici sfaccettature, attore e spettatore insieme della medesima mia creazione.  




“Turcata”, Aldo Mondino

“Tutto quanto”, Jalāl al-Dīn Rūmī

Tutto quanto concerne l'Anima si 
svela spontaneamente ed ogni 
sforzo razionale non fa che allontanarla. 
Questo perche' la sua natura 
non e' fenomenica. Si coglie 
col cuore come una poesia,come 
un'opera d'arte. Si sente,si ama 
ma nessun concetto,come ombra 
fugace, e' ad essa adeguato". 


da "Quartine" - Jalāl al-Dīn Rūmī
Sorgi o giorno! Danzano gli atomi di polvere, e le anime liete, in estasi, sante danzano. Colui per il quale danzano le sfere celesti e il vento, te lo 
dirò in un orecchio Lui dove danza.”


Il fondale è rosso intenso, rubino, le vesti dei dervisci sono bianche candide simili a semplici tuniche indiane con ampie gonne roteanti che spostano l’aria nel corso delle loro infinite circonvoluzioni. I movimenti sono continui, rotatori, a spirale o in cerchio proseguono all’infinito in un crescendo di intensità che si prolunga su un ritmo sincopato, irregolare, nella ripetizione impersonale e ipnotica dei medesimi. Ripetono la stessa giravolta intorno a loro stessi all’infinito, disegnano cerchi ed ellissi, ruotano, girano su sé stessi fino alla perdita dei sensi, fino a un’accelerazione ritmica voluta che superi i limiti del proprio corpo fisico, fino a quando il danzatore non avrà più controllo su sé stesso o sulle circostanze esterne al proprio esserci e raggiungerà quel momento di estatica uscita da sé, di incontro mistico con le forze superiori del cosmo o del mondo celestiale. Nella ripetizione il moto continuo si ricongiunge con l’eterna circolarità del cosmo, con la forma sferica e perfetta del cerchio, con l’appena udibile ritmo di un respiro universale che vibra tra tutte le creature del vivente, quel mormorio indistinto o basso continuo che l’accompagna prima della parola, quel rumore di fondo o suono appena udibile che resta sconosciuto o celato ai molti per i rumori che costantemente si sovrappongono ad esso o vengono ad occultarlo.
Aspirano a un moto circolare e gioioso, eterno ritorno della vita in sé stessa come della loro danza , tendono al passo stesso della divinità  volteggianti in aria, quasi rapiti mentre una figura nera appare scomparire in lontananza. Bianche ellissi, vesti fluide e leggere, movimenti ruotanti e circolari su sé stessi continuano fino all’estatico rapimento, fino al divenire uno con la luce, al divenire pianta, minerale o creatura, al  divenire corteccia, albero o vento, al divenire deserto o fuoco bruciante, al divenire eco o musica d’uno strumento suonato da corde celestiali , al divenire danza come essere l’assoluto che manifesta la sua natura nella singola esistenza, al divenire, infine, gioioso ritorno all’unità attraverso quel movimento.



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“Ordine e disordine”, Alighiero Boetti


La tessitura di un  arazzo di lettere è data da fili intrecciati in colori diversi, bianchi, gialli, aranci e azzurri leggibili nei due versi, orizzontale e verticale, e nelle quattro direzioni oblique. Non un singolo spazio vuoto in mezzo, nessun minuscolo tassello nel quale una sospensione trapeli, un respiro, una pausa di senso ma invece una presenza piena, totale, satura di lettere e numeri, scintillante di colore-materia intessuta in fili sapientemente intrecciati l’un all’altro come per andare a costruire l’ apparente alfabeto d’un linguaggio a noi sconosciuto: una pioggia di simboli, un piano o una prospettiva correndo verso un proprio punto di fuga dalla densità stracolma  dei suoi caratteri, un tappeto di parole depositate in attesa d’essere lette o scritte, un manifesto visto al contrario, un  annuncio criptato, un invio senza indirizzo, una tavolozza di colori, terre e tempere in attesa d’essere mescolate, rovesciate,disperse in nuove apparenze. Esiste un ordine nell’apparente disordine o caos in cui le lettere, i segni, i simboli si susseguono, si ripetono, sono aggiunti o mescolati l’uno all’altro? Quale la logica di tale composizione? Potremmo cercare di riconoscere nomi, date, parole significanti distinguibili nel labirinto oppure prendere il moto compositivo come tale, aleatorio assemblaggio di elementi che mettono  in atto una logica di composizione altra, un ritmo forse che impone un proprio senso e un non-finito del linguaggio volutamente lasciato tale   nell’opera aperta, in attivo attraversamento di chi guardando contribuisce ad apportagli un proprio senso?
 Essenziale resta il dispositivo, mettere in atto un meccanismo, darsi un progetto, un tempo, dei materiali e delle regole essenziali e forse che il gioco dell’accadere, del rivelarsi delle cose nell’istante, del dare luogo o dare spazio farà il resto se mai qualcosa sarà da farsi. La tela continua a parlarci dell’eventualità dell’accadimento nella variante del caso e della materia, tale la variante del nascere d’un verso, del venire alla luce d’una parola o del dischiudersi di un’immagine nella mente, dell’ affacciarsi di un pensiero o di un sentire, dell’apparire d’un gesto o di un movimento scritto o agito, detto o danzato come d’uno scatto fotografico a partire da un meccanismo di fondo che si è installato. Oppure al contrario ci parla del ritrarsi, del venire meno dell’ istante, del chiudersi e scomparire d’una parola nitida e scintillante in un caos di lettere senza ritmo e senso, dell’occasione che si affaccia e si perde dentro l’intreccio di questo misterioso alfabeto.



“On stage”, Gioberto Noro



Si è sulla scena ogni volta che si apre una forma di “visione”, attraverso un “far vedere”, rendere visibile, tangibile, sensibile, udibile. Soprattutto su uno sfondo di cemento grezzo e contro blocchi in costruzione dall’aspetto massiccio grigiastro, spoglio o abusivo della nostra realtà industriale al quotidiano. Si apre una scena come si apre una finestra, un antro luminoso, uno spazio dove qualcosa si rende visibile, di qualsiasi visione si tratti, poetica o plastica, profetica o filmica. Metafora sul senso del “fare teatro”, senza dubbio, sulla creazione d’arte in generale. Lì, al centro ad abbracciarvi con quel suo sguardo di vita e braccia tese verso di voi, vita esplosa in mille foglie verdi, sempre verdi salici e piante in esubero, scintillanti, tanto più sorprendenti e luminose a partire da quell’antro grigio del reale: sottopassaggio cementificato di non-pensiero, non-azione o non presa di posizione. 
Aprire squarci luminosi, spazi dove la voce, il corpo, il pensiero proliferano, prendono vigore e forza in un esubero di vita  sul grigio del fondo ha a che fare con il teatro, con la ricerca verso nuove forme e linguaggi di creazione letteraria, artistica o performativa. L’arte tende a  illuminare tali spazi di vita, di presenza, di visione sul grigiore indistinto del fondo, su questa nebulosa dell’anima e astenia generalizzata del sentire, del volere, su questa narcosi indotta e continua, appena visibile di pensiero cui siamo tutti assuefatti senza rendercene conto. Da ogni parte, in ogni dove essa sogna di portare la deflagrazione di quella luce , lo spettacolo, il segno tangibile di quell'inondazione di colore, di creatività che ci guidi verso la sua piena affermazione sulla terra.


 




Allo stesso modo tre neon illuminati al centro dello spazio espositivo  (Sergio Limonta, senza titolo, 2015) fissati nei loro punti di intersezione da tre tuniche grezze di materiali chimici in riuso aprono all’improvviso uno spazio irradiante, luminoso e magnetico nella sala del museo creando un campo di forze elettrostatiche, la  faccia triangolare d’una piramide  al suolo. Lì, qualcosa deve accadere, un “primo luogo” verso cui il nostro sguardo è attirato come verso una fonte di luce bianca e incandescente al centro semplicemente utilizzando residui, scorie prodotte dai processi industriali con l’intento di portarle alla riconversione luminosa del lavoro creativo. 
Nella parete retrostante (Luca Vitone, "Finestra III") una tela dipinta appare come uno schermo occluso alla visione, impossibilitato o chiuso alla nostra richiesta di accedere in qualche modo, percepire o comprendere. Lì, lo sguardo è annebbiato, confuso o impedito, la superficie sabbiosa, opaca e granulare al tatto, la vista dissimulata dalla cortina beige, dalla patina di materia e distesa di colore che ricopre interamente la superficie della tela. Un’opera del non-vedere si concretizza così, dell’immobilità o della non-azione, d’una cortina di fumo spessa e inumana discesa sulla terra, dando vita a un suolo granulare dalla densità d’uno schermo spesso e occludente. Rimanda al vuoto nella mente, alla creatività occlusa  o quando non si ha accesso alle radici, alla sorgente prima, al fluido di pensiero che irradia e fa scorrere creatività  vitale.




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“Da Michelangelo”, Tano Festa



Un volto ridisegnato a matita, rifatto a colori tenui o pastello, appare abbozzato a tratti e lasciato in altre parti al bianco del foglio: accennato, schizzato come bozza o lavoro preparatorio ispirandosi ai celeberrimi disegni e cartoni scultorei di Michelangelo. Anche qui il disegno resta in parte incompiuto, la linea del contorno appena accennata delinea semplicemente una parete retrostante differenziando i piani spaziali e sospende, invece, il volto su questo vacuo del fondo,  su questo spazio sottostante lasciato al bianco del cartoncino se non fosse per la linea disegnata, il tratto trasversale di matita ocra che ancora lo sostiene. Volto combattuto, appare nel contrasto tra le zone del verde e del  giallo distribuite tra viso e figura e il blu degli arti in dissolvenza sul fondo. Fa pensare a questo volto michelangiolesco dagli occhi socchiusi nell’abbozzo o nel non-finito della figura, i tratti marcati da pesanti ombre, lo stesso dell’artista che lotta contro una materia inerte al suo imprimersi in una forma o nel suo venire alla luce. Lui, come doppio del grande artista rinascimentale è forse nel pathos della messa in vita dell’opera, nella lacerazione del dubbio, dell’interrogativo costante contro il  limite dell’umano, del qui e ora, nell’angoscia del cercare e non trovare, nel tormento contro sé stesso, nel fuoco sacro o in quello estinto della creazione. Lui, ancora, contro l’inganno della realtà apparente, è visto nell’inesausta lotta per raggiungere l’idea, la verità in sé, nello sforzo forse  di conciliare gli opposti, di ricongiungere anima e materia nella forma assoluta della scultura.