giovedì 3 marzo 2016

Opera Aperta, (partendo da “Arte Fiera 40, storia di una collezione” al Mambo di Bologna)











Elisabetta di Maggio, “Butterfly fly trajectory”, ovvero 
le trame di un’esistenza..


Come il volo d’una farfalla la traiettoria si dispiega limpida, leggera attraverso l’aria e sul fondale d’una bianca tela. Irrisoria, lieve avanza in arzigogolanti risvolti, in linee morbide e irregolari , in impreviste svolte o sinuose curve tracciate da un’infinità di minuscoli spilli che delineano un percorso certo, innegabile sulla carta tuttavia.  
Una domanda aperta in cerca di risposta, la linea di vita perde il filo, si increspa su sé stessa fino a divenire un merletto arricciato, inizia all’improvviso in un punto, s’arresta forse in un punto oltre il nostro sguardo, intreccia fili su fili e come seta tende trame d’aria, arzigogolanti ricami sul vuoto. La vediamo apparire all’improvviso e continuare, tendere all’infinito oltre l’orizzonte limitato dalla tela o dal nostro sguardo. Come la trama di un’esistenza volge su sé stessa e ritorna, dimentica, si smarrisce, perde il filo o la traccia della matrice divina che l’ha generata e poi la ritrova; lascia circumnavigare il proprio ordito inseguendo senza saperlo un destino, smarrendolo ogni qualvolta perde il filo per poi ricordarsi involontariamente molto più tardi. Pare derivare a tratti in cerchi ed ellissi imperfette, ripiegarsi in ritorsioni vane o cadere nella perdita del senso, della visione d’insieme; ma poi la vita la riporta indietro a forza sul suo tracciato, la costringe a fermarsi, a sbattere contro in un arresto improvviso, una barriera o un ostacolo forzato e derivando, con pena, a fatica, dolorosamente a ritornare sul proprio cammino, lì dove la trama aveva perduto. Vista dall’alto a distanza appare, tuttavia, come una linea sinuosa e morbida oltre i nodi e gli imbrogli delle singole cadute sul piano basso e corruttibile della materia quasi apparisse tra rilievi di schiuma soffice, di nuvole bianche o di sinuose brume, mousse dolce e vaporosa. Come una linea tracciata tra le mille appare la variabile d’un presente la cui matrice prima resta eterna, oltre il tempo, solo a metà conoscibile, dell’anima all’anima tentando di annullare o modificare estranee interferenze , trame o lasciti di altri precedenti esistenze.





Francesco Candeloro, “Memorie e luci”, 2014 (taglio laser su plexiglass)


 




I profili delle case sono ritagliati da una fiammella laser sullo skyline d’una città orientale impressa in plexiglass in un mare di luce. Essa rende tutto semplice, luminoso, splendente. D’un tratto un’immagine si disegna, nitida, chiara all’osservatore, s’apre nella mente come un’evidenza. Non più sovrapposizioni mentali, idee confuse, imbrogli o vapori svaporanti nel cervello a stordirvi la memoria e il pensiero, ad annebbiarvi o obnubilarvi la mente, a privarvi della nostra capacità di comprensione, di parola. Vedete questi profili stagliarsi netti nell’arancio, nel giallo o nel rosato, riflettersi in una luce che rivela memoria, involontaria visione, improvviso via d'accesso all’anima. D’un tratto gioite, siete rassicurati, salvi, riconfortati mentre vi immergete dentro il riflesso di quegli aranci, ambra o rosati che come profili di palazzi antichi, dall’aria fiabesca, irreale, fatata quasi si sdoppiano al contrario sulla superficie liquida del piano evocando una scia di luce, un quadro che dissolve a poco a poco e liquefa come un riflesso affacciatosi e tanto rapidamente scomparendo dentro le acque mobili di un lago. Le loro forme frastagliate all’orizzonte sul paesaggio d’una città orientale evocano finestrelle ritagliate, torri e minareti in oro simbolo di moschee e luoghi di culto sulla terra, cime acuminate e cupole ricoperte di ceramiche verdi e turchesi; le tonalità dell’oro e dell’ambra, i celesti e gli smeraldi, le cupole e gli archi, i simboli o i segni calligrafici misteriosi tratti dai versetti del Corano, poi agli intarsi e gli arabeschi, i motivi arabeggianti dipinti o scolpiti, impressi o celati sulle moschee e i palazzi di Istanbul, Marrakesh o Casablanca. Bastano poche cromie luminose sulla superficie lucida del plexiglass e profili emergono lasciando intravvedere un mondo come per un riflusso involontario di materia o di un’immagine comparsa sul vacuo del fondo.

Nicola Melinelli, (olio su tela 2015)


Il lato opposto della parete mostra il formalismo e l’astrazione geometrica di riquadri colorati ritagliati in stile Mondrian. Eppure, quella tela appare singolarmente uncinata da un gancio, stretta da un piccolo morsa d’acciaio su un lato, trattenuta da quella parte e messa in trappola, lì stretta in un solo punto.
Evidenza I: l’opera non può più dirsi assoluta, non esiste più come idealità o verità incarnata dall’arte ma come decostruzione della medesima, iconica affermazione in controluce di sé mostrando il risvolto interno, il bordo non notato della cornice, la parete nuda e bianca sotto la tela, l’ironica affabulazione del soggetto preso al laccio della propria creazione, poi l’ironia implicita nell’atto del guardare e del guardarsi, infine la messa tra parentesi d’ogni giudizio, la sospensione perfino della decisione sul crederci o meno a quel lavoro d’arte.

Evidenza II: sono preso al laccio, irretito, ingabbiato, messo evidentemente in trappola da questo meccanismo che anche non volendo mette a nudo l’aspetto fittizio della mia composizione,  la sua natura di montaggio e rifacimento, l’anti-rappresentazione che essa produce della realtà,  infine l’ironia della sua ultima presenza come della mia implicita sorte, io soggetto celato e svelato dall’opera, demoltiplicato e infranto in una miriade di molteplici sfaccettature, attore e spettatore insieme della medesima mia creazione.  




“Turcata”, Aldo Mondino

“Tutto quanto”, Jalāl al-Dīn Rūmī

Tutto quanto concerne l'Anima si 
svela spontaneamente ed ogni 
sforzo razionale non fa che allontanarla. 
Questo perche' la sua natura 
non e' fenomenica. Si coglie 
col cuore come una poesia,come 
un'opera d'arte. Si sente,si ama 
ma nessun concetto,come ombra 
fugace, e' ad essa adeguato". 


da "Quartine" - Jalāl al-Dīn Rūmī
Sorgi o giorno! Danzano gli atomi di polvere, e le anime liete, in estasi, sante danzano. Colui per il quale danzano le sfere celesti e il vento, te lo 
dirò in un orecchio Lui dove danza.”


Il fondale è rosso intenso, rubino, le vesti dei dervisci sono bianche candide simili a semplici tuniche indiane con ampie gonne roteanti che spostano l’aria nel corso delle loro infinite circonvoluzioni. I movimenti sono continui, rotatori, a spirale o in cerchio proseguono all’infinito in un crescendo di intensità che si prolunga su un ritmo sincopato, irregolare, nella ripetizione impersonale e ipnotica dei medesimi. Ripetono la stessa giravolta intorno a loro stessi all’infinito, disegnano cerchi ed ellissi, ruotano, girano su sé stessi fino alla perdita dei sensi, fino a un’accelerazione ritmica voluta che superi i limiti del proprio corpo fisico, fino a quando il danzatore non avrà più controllo su sé stesso o sulle circostanze esterne al proprio esserci e raggiungerà quel momento di estatica uscita da sé, di incontro mistico con le forze superiori del cosmo o del mondo celestiale. Nella ripetizione il moto continuo si ricongiunge con l’eterna circolarità del cosmo, con la forma sferica e perfetta del cerchio, con l’appena udibile ritmo di un respiro universale che vibra tra tutte le creature del vivente, quel mormorio indistinto o basso continuo che l’accompagna prima della parola, quel rumore di fondo o suono appena udibile che resta sconosciuto o celato ai molti per i rumori che costantemente si sovrappongono ad esso o vengono ad occultarlo.
Aspirano a un moto circolare e gioioso, eterno ritorno della vita in sé stessa come della loro danza , tendono al passo stesso della divinità  volteggianti in aria, quasi rapiti mentre una figura nera appare scomparire in lontananza. Bianche ellissi, vesti fluide e leggere, movimenti ruotanti e circolari su sé stessi continuano fino all’estatico rapimento, fino al divenire uno con la luce, al divenire pianta, minerale o creatura, al  divenire corteccia, albero o vento, al divenire deserto o fuoco bruciante, al divenire eco o musica d’uno strumento suonato da corde celestiali , al divenire danza come essere l’assoluto che manifesta la sua natura nella singola esistenza, al divenire, infine, gioioso ritorno all’unità attraverso quel movimento.



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“Ordine e disordine”, Alighiero Boetti


La tessitura di un  arazzo di lettere è data da fili intrecciati in colori diversi, bianchi, gialli, aranci e azzurri leggibili nei due versi, orizzontale e verticale, e nelle quattro direzioni oblique. Non un singolo spazio vuoto in mezzo, nessun minuscolo tassello nel quale una sospensione trapeli, un respiro, una pausa di senso ma invece una presenza piena, totale, satura di lettere e numeri, scintillante di colore-materia intessuta in fili sapientemente intrecciati l’un all’altro come per andare a costruire l’ apparente alfabeto d’un linguaggio a noi sconosciuto: una pioggia di simboli, un piano o una prospettiva correndo verso un proprio punto di fuga dalla densità stracolma  dei suoi caratteri, un tappeto di parole depositate in attesa d’essere lette o scritte, un manifesto visto al contrario, un  annuncio criptato, un invio senza indirizzo, una tavolozza di colori, terre e tempere in attesa d’essere mescolate, rovesciate,disperse in nuove apparenze. Esiste un ordine nell’apparente disordine o caos in cui le lettere, i segni, i simboli si susseguono, si ripetono, sono aggiunti o mescolati l’uno all’altro? Quale la logica di tale composizione? Potremmo cercare di riconoscere nomi, date, parole significanti distinguibili nel labirinto oppure prendere il moto compositivo come tale, aleatorio assemblaggio di elementi che mettono  in atto una logica di composizione altra, un ritmo forse che impone un proprio senso e un non-finito del linguaggio volutamente lasciato tale   nell’opera aperta, in attivo attraversamento di chi guardando contribuisce ad apportagli un proprio senso?
 Essenziale resta il dispositivo, mettere in atto un meccanismo, darsi un progetto, un tempo, dei materiali e delle regole essenziali e forse che il gioco dell’accadere, del rivelarsi delle cose nell’istante, del dare luogo o dare spazio farà il resto se mai qualcosa sarà da farsi. La tela continua a parlarci dell’eventualità dell’accadimento nella variante del caso e della materia, tale la variante del nascere d’un verso, del venire alla luce d’una parola o del dischiudersi di un’immagine nella mente, dell’ affacciarsi di un pensiero o di un sentire, dell’apparire d’un gesto o di un movimento scritto o agito, detto o danzato come d’uno scatto fotografico a partire da un meccanismo di fondo che si è installato. Oppure al contrario ci parla del ritrarsi, del venire meno dell’ istante, del chiudersi e scomparire d’una parola nitida e scintillante in un caos di lettere senza ritmo e senso, dell’occasione che si affaccia e si perde dentro l’intreccio di questo misterioso alfabeto.



“On stage”, Gioberto Noro



Si è sulla scena ogni volta che si apre una forma di “visione”, attraverso un “far vedere”, rendere visibile, tangibile, sensibile, udibile. Soprattutto su uno sfondo di cemento grezzo e contro blocchi in costruzione dall’aspetto massiccio grigiastro, spoglio o abusivo della nostra realtà industriale al quotidiano. Si apre una scena come si apre una finestra, un antro luminoso, uno spazio dove qualcosa si rende visibile, di qualsiasi visione si tratti, poetica o plastica, profetica o filmica. Metafora sul senso del “fare teatro”, senza dubbio, sulla creazione d’arte in generale. Lì, al centro ad abbracciarvi con quel suo sguardo di vita e braccia tese verso di voi, vita esplosa in mille foglie verdi, sempre verdi salici e piante in esubero, scintillanti, tanto più sorprendenti e luminose a partire da quell’antro grigio del reale: sottopassaggio cementificato di non-pensiero, non-azione o non presa di posizione. 
Aprire squarci luminosi, spazi dove la voce, il corpo, il pensiero proliferano, prendono vigore e forza in un esubero di vita  sul grigio del fondo ha a che fare con il teatro, con la ricerca verso nuove forme e linguaggi di creazione letteraria, artistica o performativa. L’arte tende a  illuminare tali spazi di vita, di presenza, di visione sul grigiore indistinto del fondo, su questa nebulosa dell’anima e astenia generalizzata del sentire, del volere, su questa narcosi indotta e continua, appena visibile di pensiero cui siamo tutti assuefatti senza rendercene conto. Da ogni parte, in ogni dove essa sogna di portare la deflagrazione di quella luce , lo spettacolo, il segno tangibile di quell'inondazione di colore, di creatività che ci guidi verso la sua piena affermazione sulla terra.


 




Allo stesso modo tre neon illuminati al centro dello spazio espositivo  (Sergio Limonta, senza titolo, 2015) fissati nei loro punti di intersezione da tre tuniche grezze di materiali chimici in riuso aprono all’improvviso uno spazio irradiante, luminoso e magnetico nella sala del museo creando un campo di forze elettrostatiche, la  faccia triangolare d’una piramide  al suolo. Lì, qualcosa deve accadere, un “primo luogo” verso cui il nostro sguardo è attirato come verso una fonte di luce bianca e incandescente al centro semplicemente utilizzando residui, scorie prodotte dai processi industriali con l’intento di portarle alla riconversione luminosa del lavoro creativo. 
Nella parete retrostante (Luca Vitone, "Finestra III") una tela dipinta appare come uno schermo occluso alla visione, impossibilitato o chiuso alla nostra richiesta di accedere in qualche modo, percepire o comprendere. Lì, lo sguardo è annebbiato, confuso o impedito, la superficie sabbiosa, opaca e granulare al tatto, la vista dissimulata dalla cortina beige, dalla patina di materia e distesa di colore che ricopre interamente la superficie della tela. Un’opera del non-vedere si concretizza così, dell’immobilità o della non-azione, d’una cortina di fumo spessa e inumana discesa sulla terra, dando vita a un suolo granulare dalla densità d’uno schermo spesso e occludente. Rimanda al vuoto nella mente, alla creatività occlusa  o quando non si ha accesso alle radici, alla sorgente prima, al fluido di pensiero che irradia e fa scorrere creatività  vitale.




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“Da Michelangelo”, Tano Festa



Un volto ridisegnato a matita, rifatto a colori tenui o pastello, appare abbozzato a tratti e lasciato in altre parti al bianco del foglio: accennato, schizzato come bozza o lavoro preparatorio ispirandosi ai celeberrimi disegni e cartoni scultorei di Michelangelo. Anche qui il disegno resta in parte incompiuto, la linea del contorno appena accennata delinea semplicemente una parete retrostante differenziando i piani spaziali e sospende, invece, il volto su questo vacuo del fondo,  su questo spazio sottostante lasciato al bianco del cartoncino se non fosse per la linea disegnata, il tratto trasversale di matita ocra che ancora lo sostiene. Volto combattuto, appare nel contrasto tra le zone del verde e del  giallo distribuite tra viso e figura e il blu degli arti in dissolvenza sul fondo. Fa pensare a questo volto michelangiolesco dagli occhi socchiusi nell’abbozzo o nel non-finito della figura, i tratti marcati da pesanti ombre, lo stesso dell’artista che lotta contro una materia inerte al suo imprimersi in una forma o nel suo venire alla luce. Lui, come doppio del grande artista rinascimentale è forse nel pathos della messa in vita dell’opera, nella lacerazione del dubbio, dell’interrogativo costante contro il  limite dell’umano, del qui e ora, nell’angoscia del cercare e non trovare, nel tormento contro sé stesso, nel fuoco sacro o in quello estinto della creazione. Lui, ancora, contro l’inganno della realtà apparente, è visto nell’inesausta lotta per raggiungere l’idea, la verità in sé, nello sforzo forse  di conciliare gli opposti, di ricongiungere anima e materia nella forma assoluta della scultura. 







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