mercoledì 25 novembre 2009

Frammenti di riflessioni sull’arte





(Antoni Tapiès) "L'arte é una fonte di conoscenza come la scienza e la filosofia. E' la grande lotta intrapresa dall'uomo per affinare senza fine la sua percezione della realtà. Questa lotta dove trova grandezza e libertà non puo' realizzarsi se si ferma a idee già formulate e realizzate”.
Parte da quelle, necessariamente, come se dovesse assorbirle, comprenderle, registrarle, trascriverle, farle parte di sé per meglio appropriarle, poi cominciare a trasformarle lentamente , immettergli la linfa o il veleno che scorre in sé,
plasmarle fino a imprimergli l'impronta delle propie mani, sempre in una infinita, inesausta ricerca attraverso la forma camminando nel varco aperto tra il mondo e la propria personalità.

(Regine Chopinot) “Un artista profondamente é poroso”, veramente ha bisogno di sentire quello che accade intorno a sé”, confrontato agli odori, ai suoni, ai rumori, al mistero della percezione e dei sensi, all'urgenza del momento, all'atmosfera del luogo, alle intemperie del presente. Vorrei parlare di integrazione e di marginalità, d'esclusione e del gioco di forze nel meccanismo di potere, di dominio e di soppruso,
di negoziazione e di ripiegamento, di compromesso e di negazione dell’alterità sotto il segno del consenso. Come rendere la marginalità in un discorso estetico, come concepire un'estetica del margine, della decentralizzazione, delle estremità pensando nei termini di “scarto, d'intervallo o di dissemblanza”(Jacques Rancière) piuttosto che d’unanimità?

(Bernard Stiegler) « l'economia libidinale di questo sistema di produzione e di consumo é giunta a fine corsa. Bisogna trovare un altro modello. »
(Jan Lauwers) « Se l'arte non é connessa con la vita, con la violenza del mondo non esiste. Allo stesso tempo deve parlare solo in un linguaggio che gli é proprio. "
(Romeo Castellucci) « La voce non é solo portatrice di un messaggio. Diviene materiale corporeo come un peso, qualcosa che puo' misurarsi. E' un materiale musicale”. Il corpo vibra, lo spazio anche perché ci sia movimento, voce, suono nello spazio materico. E' densità traversata.

(Thomas Hirschhorn )« Sono qualcuno che lavora liberamente con quello che gli é proprio; quello che mi fa muovere é l'ingiustizia, l'ineguaglianza, la ferita”,
il desiderio di vita e di morte, l' urgenza, il silenzio, il grido.
La necessità interiore, la ricerca di una propria voce, la poesia o la sua impossibilità.
La non-forma, la non-immagine del sé, la ricerca di un altro linguaggio.
Lottare contro i concetti o le gabbie strutturali che ancora oggi ci dominano,
ci intimidiscono o impediscono una libera espressione.
Quello che mi fa muovere é la storia individuale , il cammino fatto, i balzi in avanti, i salti all’ indietro, i cambiamenti di prospettiva, i tentativi alla cieca, le fughe, i ritorni.
Ipassaggi all'infinito ad occhi chiusi, le cadute inaspettate.
La lotta contro contro i limiti stringenti del sé-corpo,
l'occlusione, l'impedimento, il senso del limite.
La chiusura, la reclusione, il ripiegamento dentro un'istituzione,
un sistema di pensiero, un meccanismo di potere.
Le gabbie interiori dove restiamo troppo spesso serrati;
Le barriere psicologiche, fisiche e mentali, quelle che impediscono di trovare vie d'uscita,
quelle che impongono di trovare altri passaggi al di fuori.

Come le cose appaiono guardate dall'esterno, viste dall'interno, non-viste o condotte al limite della loro visibilità , nella distorsione delle loro forme, rispetto a come ci si aspetta debbano essere formalmente,
per come appaiono incongrue, inammissibili, non conformi rispetto alla forma costituita,
a un’abitudine consolidata dello sguardo, alla verità che rassicura, al luogo comune del discorso.

(Boris Charmatz) " Dopo una formazione praticata d'avanti allo specchio nell'influenza che l'immaginario del corpo subisce attraverso tutte le pressioni mediatiche, penso che dobbiamo lottare contro l'idea che la danza faccia parte del dominio della pura immagine.
Investe, al contrario tutto quello che il corpo puo' riuscire a toccare,
a dire sensibilmente", quello da cui é toccato, mosso o sommosso, ma anche tutto quello che lo trattiene, lo limita, lo imprigiona: le strutture sociali e gabbie ideologiche di potere a qualsiasi livello esse si manifestano, nel microcosmo dei rapporti tra gli individui oppure nel macrocosmo tra il potere e il singolo. Per questo non solo cercare nuovi gesti e immagini ma anche, ogni volta, ricordare capire, sapere fino in fondo qual’é la nostra motivazione per ___.

Qualche volta si ha bisogno di trovare uno spazio a parte, di scavarsi una nicchia interiore e gettarsi dentro, in quella solitudine , in quell'isolamento temporanei per andare a cercare, a toccare qualcosa d'altro rispetto alla realtà quotidiana, sociale, alla logica comune che riguarda i rapporti tra gli individui e il loro modo di funzionare insieme in uno spazio. Per toccare un'altra realtà al fondo di sé o meglio, fuori di sé, insospettata o che non si pensava di possedere, fuori dal proprio essere come soggettività, come identità sociale che si dà al mondo. Al rischio forse di entrare, per un momento, in una zona fuori dal tempo, di sfiorare questa zona a-parte, altra, quella dove gravitano il sogno, la memoria, il delirio, la follia e tutti gli stati che sfuggono al pieno controllo della ragione per poi riportarli indietro, ritornare dall'altra parte e restituire questa materia in una forma, nell'equilibrio di qualcosa che esiste e trova in sé una propria giustificazione estetica, che s'offre al mondo come complesso fisico e poetico.

giovedì 19 novembre 2009

A proposito di "Café Muller" di P. Bausch rivisto recentemente nel contesto di VIDEODANSE (Parigi Beaubourg )










Insorgenze di memoria, oscurità, atmosfera opaca, fumosa, grigiastra d'una Germania della memoria, della guerra fredda;
figli della generazione post-olocausto, post conflitto mondiale;
una città spaccata in due da un muro, l'astenia di un paese che ha voluto dimenticare troppo in fretta senza aver saputo fare i conti con la propria storia.
Lo spettacolo è , in un certo senso, rielaborazione d’una memoria personale e collettiva, emergenza, risorgenza poetica.

Ritorna l'atmosfera sordida, opaca, grigiastra di un interno riempito da fumo di sigarette, apertura verso un altro tempo, verso un passato intimo e collettivo.

Sedie rovesciate, il grigiore di un tempo che appiattisce e uniforma sotto una censura non apparente, la nebbia ideologica d’una nazione democraticamente ricostruita.
Atmosfera spettrale come in un sogno abitato, una sorta di surrealtà del quotidiano.
Gesti ipnotici, corpi che si risvegliano a tratti.
Interpreti appoggiati ai muri si risvegliano come se in quel frangente fossero interpellati, prestassero il loro corpo a residui sepolti di sè stessi oppure divenissero altri, revenants morti ma non completamente scomparsi,
quelli che continuano a tormentare la memoria dei viventi.

Ritorna la necessità di andare a scavare in quel “trou noir” , la necessità per questi interpreti e esseri umani in primo luogo di darsi anima e corpo, di andare a interrogare, ad aprire, a toccare quello che é rimasto non-detto, quello che è là e non puo' raggiungersi altrimenti se non attraverso immagini danzate;
immagini astratte, metafore poetiche prese fuori dal flusso di una narrazione continua,
restando come dei complessi di percezione emozionale, dei grumi di materia fisica e visiva.

L'immagine è lasciata a chi guarda: si vuole astratta, implicita, aperta a infinite interpretazioni da parte di chi la riceve. Non deve raccontare necessariamente una storia; è un frammento di materia, una sensazione consolidata come un “correlativo oggettivo” ,
un complesso emozionale e poetico che si dà in sé, che s' offre implicitamente al pubblico.

Esempio: due interpreti, un uomo e una donna, in piedi l'uno contro l'altro, fissi, immobili con gli occhi chiusi; qualcun' altro muove le braccia al loro posto , avvicina le labbra al loro posto. Sono li' come esangui, morti, addormentati,
l'uno fa cadere l'altra dalle sue braccia, lei scivola a terra e subito si rialza tornando a stringersi con forza perché tutto ricominci.
O ancora: un corpo scaglia un altro violentemente contro un muro e cosi' continuano a lungo fino a rotolare a terra. Sedie rotolano a terra, corpi rotolano a terra insieme in un'impulsione violenta che si spegne nell'immobilità. Più lontano, un'interprete femminile si denuda, le spalle al pubblico, e poi si accascia a un tavolo.

Un’immagine: un corpo femminile scarnificato, avvolto in una tunica bianca lunga fino ai piedi. Gli occhi sono chiusi, il viso illuminato da una strana luce spirituale, i capelli lunghi allacciati dietro le spalle.
I gesti sono lenti, lentissimi, abitati, vissuti in uno spazio interiore dove sembra chiuso, serrato, dove non c’è altra via d’accesso, altro passaggio possibile all’esterno . Lo sguardo volto verso l’interno a contatto con una memoria più antica, altro tempo.
C’è dolore, solitudine, l’estrema scarnificazione di un corpo serrato nel silenzio ma anche grazia, infinita volontà di riscrivere altrimenti la vita in queste onde sinuose;
“un abbraccio, una carezza, un’utopia di salvezza”[1].
un universo di desiderio e solitudine;
un movimento infinito, lento e sinuoso che coinvolge l’intero del corpo, dell’espressione.

Corpo sacrificale: si dà, s'offre, si espone nudo allo sguardo in un gesto di redenzione
diventando simbolo d'un epoca. L'immagine fa pensare ai sopravvissuti di Auschwitz, alla storia del ventesimo secolo, alla frase di Adorno su come sia possibile, ancora, concepire la poesia, su quale poesia possa esistere, oggi, dopo l'olocausto.
Se l’ immagine si situa nella nostra storia collettiva, lo spettacolo rimane un' emblema perché riunisce la dimensione più intima della memoria a quella generazionale di un'epoca, e sceglie il lirismo, la bellezza del gesto, la poesia che nasce dal dolore come una sorta di apertura nella poetica del gesto.

Parla della necessità di rivelare il volto interno della realtà visibile, dell'immediatamente leggibile , questa “ zona psichica assorbita dall'amnesia del refoulement alla quale si ha raramente accesso”[2].
Sceglie la condensazione del gesto, l'essenzialità di cio' che si rivela a fatica, con pudore, e resta assolutamente necessario all'interno d'una composizione,
allo stesso tempo illegittimo perché non giustificato nella realtà del conforme, dell'abituale, disturbando perché facendo vedere quello che, di solito, non si ha l'abitudine di mostrare.

“ Una ricerca intellettuale e insieme fisica”[3] iscritta come esperienza nella propria carne, proiettata all'esterno in una sorta di infinità del movimento, d'un movimento interno, se vogliamo li' dove nasce l'atto del movimento danzato.
L'immobilità di superficie si nutre delle correnti che ci percorrono.
“Nel silenzio del corpo le braccia seguono i suoi ripiegamenti, le sue estensioni o disarticolazioni. Ci si avvolge, ci si piega a distanza, si oscilla costantemente tra posizioni di potere e di debolezza, tra il bene e il male, tra il paradiso e l'inferno. All'immagine di una ricerca di vita sempre rinnovata”[4].







[1] Brigitte Gauthier, Le langage chorégraphique de Pina Bausch, Arche, 2009
[2] Brigitte Gauthier, Le langage chorégraphique de Pina Bausch, Arche, 2009
[3] Ibid.,
[4] Ibid.,

domenica 8 novembre 2009

Omaggio a "165 anni di fotografia iraniana" , Photoquai, musée du quai Branly, Parigi
































Dopo le principali preoccupazioni documentarie che dominano il foto-giornalismo iraniano degli anni ’80 (in concomitanza alla rivoluzione islamica e alla guerra contro l’Iraq), dalla fine degli anni '90 una nuova fotografia plastica comincia ad affermarsi, più intimista e personale, mettendo in primo piano la ricerca estetica e identitaria: l’identità del singolo rispetto alla sua storia, alla sua cultura e nel confronto con l’occidente tra estremismo ideologico o religioso e ricerca di libertà. Fondamentale resta la dimensione politica, la denuncia della censura, delle ingiustizie sociali, e, soprattutto, dal punto di vista femminile, la necessità di una liberazione dalle strutture sociali repressive del passato.

Uno stile più intuitivo che metodico, immagini poetiche che ricercano soluzioni visive inedite per tradurre preoccupazioni identitarie, politiche e sociali creando un discorso alternativo in assenza di una vera e propria scuola.

Seifollah Samadian, “Obey2007
Su un’auto bruciata di cui resta solo una carcassa scalcinata bambini giocano alla guerra, una pistola puntata contro una di loro, sguardo attonito, sottomesso, piegato come se la violenza del momento fosse qualcosa di talmente scontato, naturale e quotidiano, di talmente visto e rivisto mille volte, ogni giorno, da scolpirsi sotto la pelle delle abitudini quotidiane come in un gioco rituale e crudele.
Piana deserta, arida e brulla; terra di nessuno: non ci sono adulti qui. Sullo sfondo di un paesaggio roccioso resta solo la carcassa di una vettura vuota e tre bambini che mimano quello che hanno sotto gli occhi ogni giorno, una violenza senza giustificazione, senza comprensione, senza conoscerne il senso, la piccola piegandosi attonita al volere dei due come dovrà fare più tardi mille volte nella vita, implicitamente assorbendo la nozione di quella ineluttabilità, di quella subordinazione in una gerarchia tradizionalmente dominata da uomini.

Vahid Salemi, “stade de France”, 2009
Tra tradizione e modernità, tra repressione e desiderio d'espressione,
una jeunesse éclatée sulla scia dell’occidente...
Serie di tre fotografie: ragazzi fanno il tifo con bandiere in prossimità di uno stadio su un bus polveroso e sgangherato, sullo sfondo di una metropoli disordinata, preda di un urbanesimo selvaggio,
nel contrasto tra i cartelloni in bianco e nero figuranti le autorità religiose locali e il desiderio di libertà, d'emancipazione;
come se un altro modello liberale, democratico, di partecipazione collettiva e ugualitaria volesse farsi strada, lentamente, sulla scia di una certa idealità occidentale.
Presenze di una polizia militare blindata compaiono nella seconda immagine, il contrasto tra il rosso di bandiere e il nero di uniformi , segno di una censura che riduce al silenzio.
L’ultima foto: nero contro azzurro, macchia nera del potere espansa contro la singolarità dell’individuo sullo sfondo di una serie anonima di forme grigie che si perpetuano a ripetizione come le sedie vuote di uno stadio. Il singolo arrestato in questo face à face con le forze militari,
una mano tesa in segno di minaccia a immobilizzarlo.
Sguardo sorpreso, rabbia trattenuta, sospensione tensiva colta al momento dell'affrontamento nello scatto fotografico.


Hamed Yaghmayain, “serie di tre foto, pellicola kodak” 2009
Fotomontaggio: tutto é là, visibile ma velato, celato dietro le lettere a inchiostro semi cancellate impresse sull’immagine, estratti di un quotidiano di cronaca nera raccontando la morte di qualcuno. Tra i due la pellicola di una rete rossa elastica, tesa, amplificata, deformata, tagliata in qualche punto dove compaiono macchie informi, punti o colature di colore tra le lettere.
Infine il velo dell’immagine: volto anonimo, semi-nascosto come fosse velat; volto del piacere, di una jouissance che si rivela dietro le schermo della scrittura. Nella seconda immagine gli occhi sono chiusi come in una specie di estasi dispersa nel nero di segni diluiti fino quasi a dissolvere come inchiostro sotto l'effetto d'acqua.
Terza immagine: linea rossa, la stessa che ricompare nella prima foto, sbarra la scrittura della morte con la visione di un' estasi pagana e moderna.
Dire senza dire, come esistesse una sorta di pudore insito nella rappresentazione fotografica qui,
giocando sul contrasto tra il rosso e il nero, tra le chiazze diluite di colore e i segni della scrittura attraverso il fotomontaggio;
giocando ancora sul contrasto tra la cancellazione, la morte del segno e la vita dell’immagine latente, celata attraverso la contraffazione del volto. La censura é talmente presente in questa società da divenire interiorizzata, interna al soggetto, nel suo modo di mostrare, mostrarsi, di far vedere o nascondere, di celare o rivelare.
Impronta di una repressione politica e ideologica impressa a fuoco nella mente dell'individuo fino a divenire parte integrante della sua coscienza.

Rana Javedi, “ when you were dying”, 2008

Messa in scena fittizia, costruita: collage di verdi, viola , aranci, stralci di tappezzeria, macchie di colore. Una cornice fantasista dove figure in bianco e nero emergono estratte da foto di posa degli anni '30: corpi composti, abiti da cerimonia, volti fissi, sguardi immobili, statici, quasi intimoriti di fronte alla macchina fotografica.
Fotomontaggio di volti translati, translitterati nel presente facendo rivivere ritratti d’inizio secolo con uno spirito ironico di citazione, di pastiche o di rilettura plastica.
Si tenta di riportare in vita cliché d'epoca spostandoli attraverso il tempo e lo spazio, strappandoli al loro immobilismo di posa, alla loro staticità costruita di figure per immetterli in un presente ibrido e vitale, tanto più fittizio e costruito quanto autentico.
Corpi e volti, privati della parola, ritornano come tratti di una rara presenza.


Medhi Ghasemi, "Iran" 2009

Nel controluce d'ombra di una parete grigia come fosse un'apparizione, una visione, un'immagine sacra proiettata contro un muro,
il profilo di una donna avvolta in un velo, un'apparizione rubata al caso, sorpresa nel controluce d'un muro, niente più che un'ombra, un profilo, un'icona assolutamente irreale, immateriale, de-soggettivizzata.
Metafora stessa dello schermo, del velo o ancora della pellicola sottile che l'immagine poetica, visiva o fotografica costituisce rinviando al sogno e al fantasma, lasciando il campo aperto alle divagazioni del caso,
ai detriti dell'incosciente, ai salti dell'immaginazione.




Mehranet Atash, “Teheran self-portrait” 2008-09

Come nella serie precedente dell'artista, “bodyless”, la preoccupazione identitaria resta in primo piano , riflesso del corpo femminile alla ricerca di una definizione del sé contro gli specchi deformanti di un modello sociale patriarcale e repressivo.
Alle spalle, il ritratto di una città lasciata a un' urbanesimo disordinato dove la popolazione é triplicata in meno di trent’anni. Sfruttando la coincidenza di una macchina fotografica difettosa, la cattiva esposizione dell'immagine crea effetti flu
colori falsati da lenti verdi o rosse confondono, modificano o mascherano il senso della rappresentazione.
Volto in primo piano: effetto surreale contro lo sfondo anonimo di una città. L'immagine interna si rivela poi, il ritorno alla realtà:
colori opachi qui ,
una certa apprensione si disegna leggibile sul volto
un attimo di sospensione, un niente quasi ,
lo scatto come questa sorta di vertigine, un attimo rubato ai sensi.
Ancora un effetto rosso, allucinante della figura in primo piano nella terza foto: qualcuno si cerca nel riflesso di uno specchio là fuori fissando un'immagine estranea di sé.
Atto primo : sorpresa.
Atto secondo: angoscia.
Atto terzo: sospensione, veridicità, presenza.

Velo, velare, volto, velatura, svelamento; coprire o lasciar intravedere;
l'atto di celare o svelare deliberatamente, atto che porta in sé una propria ambiguità di fondo,
il velo come un simbolo di chiusura, di repressione, di silenzio per la donna islamica ma anche come parte integrante di una cultura, intimamente assimilato all’immagine del sé preso nel conflitto tra la radicalità di una tradizione e lo slancio verso l’emancipazione, l’affrancamento. Qui, deliberatamente il velo dell'immagine,
traslato nell’ambito della rappresentazione,
velo che avvicina nella misura in cui tiene a distanza,
schermo che chiarifica nella misura in cui nasconde,
metafora al cuore del processo fotografico come al centro della nuova fotografia plastica iraniana.