giovedì 19 novembre 2009

A proposito di "Café Muller" di P. Bausch rivisto recentemente nel contesto di VIDEODANSE (Parigi Beaubourg )










Insorgenze di memoria, oscurità, atmosfera opaca, fumosa, grigiastra d'una Germania della memoria, della guerra fredda;
figli della generazione post-olocausto, post conflitto mondiale;
una città spaccata in due da un muro, l'astenia di un paese che ha voluto dimenticare troppo in fretta senza aver saputo fare i conti con la propria storia.
Lo spettacolo è , in un certo senso, rielaborazione d’una memoria personale e collettiva, emergenza, risorgenza poetica.

Ritorna l'atmosfera sordida, opaca, grigiastra di un interno riempito da fumo di sigarette, apertura verso un altro tempo, verso un passato intimo e collettivo.

Sedie rovesciate, il grigiore di un tempo che appiattisce e uniforma sotto una censura non apparente, la nebbia ideologica d’una nazione democraticamente ricostruita.
Atmosfera spettrale come in un sogno abitato, una sorta di surrealtà del quotidiano.
Gesti ipnotici, corpi che si risvegliano a tratti.
Interpreti appoggiati ai muri si risvegliano come se in quel frangente fossero interpellati, prestassero il loro corpo a residui sepolti di sè stessi oppure divenissero altri, revenants morti ma non completamente scomparsi,
quelli che continuano a tormentare la memoria dei viventi.

Ritorna la necessità di andare a scavare in quel “trou noir” , la necessità per questi interpreti e esseri umani in primo luogo di darsi anima e corpo, di andare a interrogare, ad aprire, a toccare quello che é rimasto non-detto, quello che è là e non puo' raggiungersi altrimenti se non attraverso immagini danzate;
immagini astratte, metafore poetiche prese fuori dal flusso di una narrazione continua,
restando come dei complessi di percezione emozionale, dei grumi di materia fisica e visiva.

L'immagine è lasciata a chi guarda: si vuole astratta, implicita, aperta a infinite interpretazioni da parte di chi la riceve. Non deve raccontare necessariamente una storia; è un frammento di materia, una sensazione consolidata come un “correlativo oggettivo” ,
un complesso emozionale e poetico che si dà in sé, che s' offre implicitamente al pubblico.

Esempio: due interpreti, un uomo e una donna, in piedi l'uno contro l'altro, fissi, immobili con gli occhi chiusi; qualcun' altro muove le braccia al loro posto , avvicina le labbra al loro posto. Sono li' come esangui, morti, addormentati,
l'uno fa cadere l'altra dalle sue braccia, lei scivola a terra e subito si rialza tornando a stringersi con forza perché tutto ricominci.
O ancora: un corpo scaglia un altro violentemente contro un muro e cosi' continuano a lungo fino a rotolare a terra. Sedie rotolano a terra, corpi rotolano a terra insieme in un'impulsione violenta che si spegne nell'immobilità. Più lontano, un'interprete femminile si denuda, le spalle al pubblico, e poi si accascia a un tavolo.

Un’immagine: un corpo femminile scarnificato, avvolto in una tunica bianca lunga fino ai piedi. Gli occhi sono chiusi, il viso illuminato da una strana luce spirituale, i capelli lunghi allacciati dietro le spalle.
I gesti sono lenti, lentissimi, abitati, vissuti in uno spazio interiore dove sembra chiuso, serrato, dove non c’è altra via d’accesso, altro passaggio possibile all’esterno . Lo sguardo volto verso l’interno a contatto con una memoria più antica, altro tempo.
C’è dolore, solitudine, l’estrema scarnificazione di un corpo serrato nel silenzio ma anche grazia, infinita volontà di riscrivere altrimenti la vita in queste onde sinuose;
“un abbraccio, una carezza, un’utopia di salvezza”[1].
un universo di desiderio e solitudine;
un movimento infinito, lento e sinuoso che coinvolge l’intero del corpo, dell’espressione.

Corpo sacrificale: si dà, s'offre, si espone nudo allo sguardo in un gesto di redenzione
diventando simbolo d'un epoca. L'immagine fa pensare ai sopravvissuti di Auschwitz, alla storia del ventesimo secolo, alla frase di Adorno su come sia possibile, ancora, concepire la poesia, su quale poesia possa esistere, oggi, dopo l'olocausto.
Se l’ immagine si situa nella nostra storia collettiva, lo spettacolo rimane un' emblema perché riunisce la dimensione più intima della memoria a quella generazionale di un'epoca, e sceglie il lirismo, la bellezza del gesto, la poesia che nasce dal dolore come una sorta di apertura nella poetica del gesto.

Parla della necessità di rivelare il volto interno della realtà visibile, dell'immediatamente leggibile , questa “ zona psichica assorbita dall'amnesia del refoulement alla quale si ha raramente accesso”[2].
Sceglie la condensazione del gesto, l'essenzialità di cio' che si rivela a fatica, con pudore, e resta assolutamente necessario all'interno d'una composizione,
allo stesso tempo illegittimo perché non giustificato nella realtà del conforme, dell'abituale, disturbando perché facendo vedere quello che, di solito, non si ha l'abitudine di mostrare.

“ Una ricerca intellettuale e insieme fisica”[3] iscritta come esperienza nella propria carne, proiettata all'esterno in una sorta di infinità del movimento, d'un movimento interno, se vogliamo li' dove nasce l'atto del movimento danzato.
L'immobilità di superficie si nutre delle correnti che ci percorrono.
“Nel silenzio del corpo le braccia seguono i suoi ripiegamenti, le sue estensioni o disarticolazioni. Ci si avvolge, ci si piega a distanza, si oscilla costantemente tra posizioni di potere e di debolezza, tra il bene e il male, tra il paradiso e l'inferno. All'immagine di una ricerca di vita sempre rinnovata”[4].







[1] Brigitte Gauthier, Le langage chorégraphique de Pina Bausch, Arche, 2009
[2] Brigitte Gauthier, Le langage chorégraphique de Pina Bausch, Arche, 2009
[3] Ibid.,
[4] Ibid.,

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